Per quelli che hanno iniziato a seguire la NBA solo negli ultimi quattro anni, i Los Angeles Clippers sono sinonimo di “Lob City”, del miglior attacco della Lega fondato sul pick and roll tra Chris Paul e Blake Griffin, con spruzzate di alley-oop per DeAndre Jordan, triple di J.J. Redick, giocate d’energia di Matt Barnes e improvvisazioni dal palleggio di Jamal Crawford.
Ma prima di tutto questo, c’erano gli altri Clippers. Quelli che non vincevano mai. Quelli che trovavano un modo sempre diverso per fare schifo. Quelli che sono rimasti per decenni all’ombra dei cugini scintillanti in gialloviola. Quelli per il quale Magic Johnson ha twittato—con la spocchia che si confà a uno che ha vinto 5 anelli con il sorriso più sfavillante di Hollywood—“The Clippers are still the Clippers”.
Il modo in cui sono stati eliminati dagli Houston Rockets è tremendamente Clippers. Quale altra franchigia avrebbe potuto perdere una serie nella quale avevano:
1) vinto gara-1 in trasferta senza il loro miglior giocatore, a due giorni di distanza della gara-7 più bella e prosciugante degli ultimi anni;
2) stravinto gara-3 di 25 punti e gara-4 di 33, dandosi tre palle gol per arrivare alle prime finali di conference;
3) massacrato gli avversari anche in gara-6, andando sopra di 19 punti verso il finire del terzo quarto.
Ci sono tutta una serie di motivazioni tecnico/tattiche per cui i Clips hanno perso—una panchina troppo corta, condizioni fisiche non perfette, errori dei giocatori e della panchina, un netto miglioramento della difesa di Houston, volendo—ma ci sono anche, se non soprattutto, motivazioni storiche.
La storia dei Los Angeles Clippers è un racconto di tremenda sopraffazione sociale, tipo quei personaggi da casta sociale indiana per i quali la vita rimarrà sempre la stessa, qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa si faccia. Questa stagione, dopo l’eliminazione dei campioni in carica, doveva essere il momento del loro riscatto. Non lo è stato.
Perché se nasci Clippers muori Clippers, nel bene e nel male. In Buckets s02/e04, parliamo proprio di questo.
[D.V.]
di Mauro Bevacqua
C’è Elton Brand con la maglia di Darius Miles. Lamar Odom con quella di Brand. E Miles con quella di Odom. Tutte, ovviamente, indossate al contrario. Il ritratto della disfunzionalità, sbattuto in prima pagina. Non contenti, quelli di SLAM Magazine aggiungevano: «Magari non arriveranno subito al top. Ma ci arriveranno. INSIEME». Non proprio. Non subito (ci sono voluti una decina d’anni per tramutarsi in stabile squadra da playoff) e, soprattutto, non insieme.
La copertina è della primavera del 2002: l’estate stessa Miles fa le valigie per Cleveland, quella dopo tocca già a Odom. Ma per un attimo, un attimo solo, in quella stagione 2001-02 i Clippers sono stati la squadra più trendy di tutta la NBA. “When Clips were cool”, appunto. Vincevano? Macché. Più del recente passato e dell’imminente futuro, certo, ma non abbastanza per chiudere con un record positivo (39-43). Se la giocavano nei playoff? Neppure. Rivaleggiavano coi cugini ricchi&famosi dei Lakers per il predominio in città? Neanche per idea (58-24 il record dei gialloviola).
[Digressione storica—Scena 1. Los Angeles. Staples Center. Interno sera. Media Dining room. La differenza la si vedeva già da lì. Delle gran ali di pollo al buffet dei Clippers, sushi che si scioglieva in bocca a casa Lakers. Ciao.]
Eppure a L.A.—dove per anni “rosso” (bloods) e “blu” (crips) avevano tragicamente diviso l’identità cittadina—il rosso&blu dei Clips finisce per unirla. Ad aprile di quell’anno la NBA comunica i consueti dati di vendita delle canotte in tutti gli Stati Uniti: al settimo posto c’è la n°21 di Darius Miles, all’ottavo la n°7 di Lamar Odom (per averne altri due tra i Top-15 si deve aspettare altri dieci anni, con Blake Griffin nono e CP3 a chiudere la lista). Elton Brand, il terzo dei tre, non vende altrettanto bene ma nel frattempo è diventato un All-Star. Solo un anno prima erano in 14.620 cristiani a sfidare il traffico per andare al palazzo, ora sono più di 18.000. Per le ultime 16 partite interne in città non si trova un singolo biglietto: SOLD e OUT «sont les mots qui vont très bien ensemble».
Giovani, spericolati, incoscienti e dannatamente affascinanti. Brand, Odom (“capitano” già l’anno prima, il più giovane di sempre nella storia NBA) e Corey Maggette sono del 1979, “Q” Richardson del 1980, Miles del 1981. Quando gli ultimi due si battono i pugni sulla testa dopo ogni canestro la moda dilaga: nessuno sa cosa vuol dire, loro non lo rivelano, è il gusto di essere una subcultura con i propri riti e le proprie regole. Poi ci sono anche le regole statali: acquisto e consumo di alcool vietato prima dei 21 anni ma—dice Richardson—«era impossibile tener lontani me e Darius da un club. Finivamo la partita, andavamo a ballare, ci presentavamo la mattina dopo al campo di allenamento con gli stessi vestiti della sera prima». È stato bello finché è durato—ovviamente poco. Ma oggi siamo ancora qui a raccontarlo.
La storia d’amore mai consumata tra Baron Davis e i Clippers
di Dario Vismara (@Canigggia)
Se ci fosse una giustizia nel mondo, e forse un filo di ironia, i Los Angeles Clippers appenderebbero il numero 1 di Baron Davis al soffitto dello Staples Center, facendolo diventare il primo giocatore della loro storia a ricevere l’onore della maglia ritirata.
Per le sue prestazioni in campo? Ovviamente no: il Barone in maglia Clips ha vergato alcune delle peggiori stagioni della sua carriera, giocando poco ma soprattutto male. Però bisognerebbe andare oltre le semplici statistiche e guardare la big picture: non c’è un giocatore che rappresenti il dramma dei Clippers quanto l’arco narrativo del Barone con l’altra squadra di L.A..
Quando torna nella sua città nel 2008 sembra tutto perfetto: ESPN scrive che «finalmente i Clippers, forse per la prima volta nella loro tumultuosa storia, hanno un giocatore la cui popolarità in città è nello stesso codice postale di Kobe Bryant». Perché dai, non esiste nessuno più angeleno del Barone: lo stile, lo swag, la barba lunga ben prima che James Harden fosse anche solo un pensiero, il ballhandling, il documentario su Crips&Bloods della sua casa di produzione affidato a Stacy Peralta, lo shooting fotografico con roller-skate e boombox, la Drew League, perfino la schiacciata su Andrei Kirilenko a suggellare l’incredibile cavalcata dei “We Believe” Warriors nel 2007.
Ovviamente poi hanno perso la serie, ma il Barone ha vinto i nostri cuori.
Lì, su nella Baia a Golden State ha giocato alla grande, ma lui—core de nonna, figura chiave di tutta la sua vita—vuole “tornare a casa” e riprendersi la sua città, con un contratto da 65 milioni per 5 anni. Prima di firmare chiama Elton Brand e gli dice: «Tu e io, miglior asse play-ala forte della Lega: porteremo i Clippers a vette mai neanche solo immaginate». E ci crede per davvero (Brand un po’ meno, visto che dieci giorni dopo se ne va a Philadelphia. Però «No hard feelings», come dirà poi il Barone: d’altronde, perché prendersela quando vivi in Southern California e la temperatura non va mai sotto i 25°C?).
Peccato che a non crederci sia anche Il Patron, Donald Sterling: nel giro di poche partite il Barone diventa il suo bersaglio preferito, al grido di cose tipo: «Ma perché sei in campo?», «Perché ti sei preso quel tiro?» o «Sei grasso» ogni volta che Davis gli passa di fianco durante la partita o ai liberi, facendosi sentire da tutto lo Staples Center (Sterling at his finest…).
Con un “supporto” di questo tipo da parte del—uhm, primo tifoso della franchigia?—tra infortuni, girovita che si allargano (pare fino a sfiorare i 120 kg) e delusioni, il Barone vince solo 48 partite nei «due anni più frustranti della mia carriera». Nel 2010, quasi dal nulla, si ritrova a guidare il Bus del Divertimento su cui siedono Blake Griffin (Rookie dell’Anno), DeAndre Jordan e Eric Gordon quando-sembrava-un-franchise-player. Proprio quando pare che finalmente possa ritagliarsi un ruolo da “veterano”, i Clippers (leggi: Sterling) decidono di sbarazzarsi di lui: pur di cedere i 42 milioni di dollari rimanenti sul suo contratto ci appiccicano la loro prima scelta senza alcuna protezione, scrivendoci sopra “toglietecelo dai piedi”.
Ci pensano i Cleveland Cavaliers, in piena ricostruzione post-atomica: qualche mese dopo osserveranno quel brutto anatroccolo di scelta trasformarsi in Kyrie Irving. E il cerchio del Barone in maglia Clippers è finalmente completo.
(e d’altronde non lo difende neppure Matt Barnes…)
di Tim Small (@yestimsmall)
Blake Griffin dovrebbe e forse potrebbe essere uno dei giocatori più popolari dell’intera NBA. Solo due anni fa era “The Human Highlight Reel”, il mostro, la bestia, il protagonista di tutte quelle schiacciate pazzesche che ricorderete senza dubbio. Era un giocatore creato apposta per essere visto al mattino con la tazza di caffè. Ogni settimana ce n’era una nuova. C’era la Mozgov, la Perkins, la Gasol, la Ibaka. Quelli erano gli anni di Blake Griffin—L’Uomo Più Famoso della NBA, gli anni in cui la prima scelta del 2009 volava sopra le macchine e faceva le pubblicità a raffica, sia per la KIA, che poi per Red Bull, e poi le banche, e poi gli sketch su Funny Or Die, quelli gli anni in cui gli articoli su SB Nation erano sondaggi su che soprannome dare alla nuova superstar della NBA (“The Quake”? “The Force of Nature”? Era prima che scegliesse il deludente “The Blake Show”). Si diceva, diventerà una delle più grandi power forward di sempre? Ora si dice: no, neanche per sogno.
Era prima di Chris Paul, sia chiaro, prima che i Clippers iniziassero quel processo di trasformazione che li ha portati da perenni perdenti ad adorabili perdenti a rispettati contender a squadra odiata da praticamente tutti. Perché, onestamente, che stronzo devi essere, oggi, per avvicinarti alla NBA e tifare per i Clippers? I Clippers post-scandalo, i Clippers di Steve Ballmer, i Clippers di questo Doc Rivers, il Doc Rivers post-Boston (ah, e a proposito di Steve, mi prendo una tangente: non lo perdonerò mai per aver illuso Seattle solo per finire per portare due miliardi di dollari a Los Angeles, come se Los Angeles avesse bisogno di altri multi-miliardari matti e altro successo nel basket). Tornando a noi: come fai a innamorarti dei Clippers, oggi? I Clippers di CP3 che alza i lob per DeAndre Jordan, che lo fa così spesso che ti annoi; i Clippers con le magliette col logo hipster; ma soprattutto, i Clippers di Blake. In altre parole: i Clippers del giocatore oggi più odiato della Lega.
Provate a scrivere “Blake Griffin hate” su Google e vedete cosa viene fuori. È come se BG32 avesse personificato in un solo schiacciatore isterico e flopposo tutti i problemi di Duke. Nel senso, ci sono articoli che si chiamano "Why I Hate Blake Griffin" e "Why Everybody Hates Blake Griffin" e "Why Hating Blake Griffin Is So Much Fun". Io, personalmente, non so perché lo odio. Saranno tutte le reazioni del cavolo, sarà il suo pessimo sketch-show su Adult Swim, sarà la faccia che guarda la media distanza dopo le schiacciate (come se fosse difficile schiacciare quando sei alto 2.08 e hai delle gambe come uno stambecco di 200 chili), saranno le gomitate isteriche (diverse da quelle di Z-Bo, per dire) sarà che pure Matt Barnes non lo sopporta più quando istiga i vari marcatori, ogni sera, perfino Faried—Kenneth Faried, capito? Come ti viene da far rissa con Faried? È come far rissa con un cucciolo (e se Matt Barnes non corre a difenderti come se gli avesse preso fuoco la casa c’è qualcosa che non va).
Vuol dire—semplicemente—che sei veramente insopportabile.
di Francesco Pacifico
I Clippers hanno bisogno di leadership. Dopo i decenni di insuccesso di Sterling e l’ancora più incasinata fine del suo regno, due leader hanno preso in mano la squadra. Doc [Rivers], che è diventato anche President of Basketball Operations, e il nuovo proprietario, Steve Ballmer.
I Clippers vogliono essere stabilmente la prima squadra di Los Angeles. Chi è Steve Ballmer? È l’uomo adatto? Vediamo un po’.
I Clippers hanno pochi tifosi veri e troppi turisti. Se andate a cercarvi i discorsi motivazionali di Ballmer per la Microsoft, di cui è stato CEO per quattordici anni, dal 2000 all’anno scorso, lo troverete su un palco che salta e urla quasi in falsetto: «I have four words for you. I. Love. This. Company. Yeeeees!». Un po’ di amore scatenato sarebbe servito molto ai Clips, non tanto per combattere i Lakers, quanto per contrastare i tifosi scatenati che sarebbero scesi a frotte dalla Bay Area per Golden State.
Altra cosa positiva: Microsoft è passata da 8 miliardi di dollari di fatturato a 78. E a proposito di numeri, considerate che se questa è la NBA dei nerd e delle statistiche, del gioco 1-2-3 dei Rockets, lui ha un buon curriculum visto che alla Putnam Competition, il torneo di matematica statunitense-canadese, ha avuto un punteggio più alto del suo compagno di università Bill Gates.
Lati negativi? Qualcuno c’è. Nella California della competizione per l’innovazione tecnologica, anche il basket sta diventando competitivo. È emersa Golden State, i Lakers si rifonderanno prima o poi, Sacramento è adesso in mano a Vlade Divac e George Karl. Ora, Ballmer ha un problema con la competizione. Nei quattrodici anni da CEO di Microsoft ha visto il suo più grande rivale, Apple, produrre la seguente striscia di successi: iMac, iPod, MacBook, iPhone, iPad. Apple veniva da anni pessimi e ha trovato un’accoppiata vincente in Steve Jobs e il designer Joni Ive: li potremmo paragonare a Popovich e Duncan (e quelli che ho citato sono i loro cinque titoli). Ballmer nello stesso arco di tempo ha floppato con i tablet, i lettori di mp3 e soprattutto gli smartphone. Pur arrivandoci in anticipo su tutti, non si sono presi il mercato che l’iPhone avrebbe dominato di lì a poco perché Ballmer pensava che il futuro fosse soprattutto nei motori di ricerca (idea peraltro non del tutto assurda, eppure…). Oggi l’iPhone fattura più di tutta la Microsoft messa insieme. Ma Ballmer ha sviluppato la Xbox.
Ma torniamo però all’aspetto emotivo, che nello sport è importante almeno quanto i numeri. Dicono sia una persona molto fedele: guida da sempre una Ford perché suo padre lavorava lì. Ai Clips, uno così, può tornare utile.