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Valentina Buzzi
Breve storia della Ryder Cup
26 set 2023
26 set 2023
Una competizione inusuale che per la prima volta si giocherà in Italia.
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Valentina Buzzi
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IMAGO / Inpho Photography
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È probabile che Samuel Ryder faticherebbe a riconoscere cosa è diventata oggi la competizione che porta il suo nome. La Ryder Cup non è infatti solo un evento biennale tra Europa e Stati Uniti che mette di fronte i migliori 24 golfisti professionisti di entrambe le sponde dell’Atlantico (12 per il Team Europe e 12 per il team USA, selezionati in base a classifiche a wild card). Il semplice fatto che includa golfisti dell’Europa Continentale, per esempio, o che sia stata giocata in Spagna, in Francia e ora in Italia (al Marco Simone Golf & Country Club di Roma) lascerebbe di stucco persino il suo ideatore, un ricco commerciante inglese di semi che aveva iniziato a frequentare i green all’aria aperta in età adulta su consiglio del medico, per alleviare i suoi problemi di salute. E qui non si tratta solo di rilevare quanto siano lievitate nel corso nel tempo le proporzioni di questa epica sfida, a quasi cent’anni dalla prima edizione.

Basta accendere la tv e dare un’occhiata a una buca della competizione per capire che la Ryder fa categoria a sé nel mondo dello sport. Innanzitutto perché introduce un formato a squadre in uno sport individuale come il golf, e associando al fair play tipico della tradizione golfistica un tifo chiassoso e sentito come quello del calcio. Mentre sulle tribune tifosi a torso nudo cantano e incitano i giocatori della propria squadra (sorretti da consistenti dosi di birra), in campo i gentlemen dei green lottano, si punzecchiano, sfiorano i limiti della correttezza per portare a casa la coppa e difendere l’onore del proprio continente, qualsiasi cosa significhi. Da intascare, poi, non c'è niente, se vogliamo chiamare niente la gloria e il trofeo dorato del peso di due chili che raffigura in cima Abe Mitchell, il maestro di golf di Samuel Ryder, certo. Ma insomma, avete capito: nemmeno un euro o un dollaro, particolare non indifferente nel 2023, anno in cui lo sport è sempre più professionalizzato e oggetto di politiche economiche di interi stati.

Certo, si potrebbe dire che la Ryder Cup è niente di più che una partita di golf lunga tre giornate: due dedicate ai doppi con le formule foursome e fourball; e una, la domenica, in cui si giocano i singolari, sempre in formula matchplay, contando cioè il numero di buche vinte, non quello dei colpi effettuati. Ma questo escluderebbe tutto ciò che gira intorno alla Ryder.

Per esempio il via vai di golf car con i capitani delle squadre che danno la linea di un putt, rincuorano, suggeriscono strategie. L'agglomerato di compagni di squadra che saltellano per il campo, da una buca all'altra, per fornire hot dog, consigli e chiedere come va. E poi, c’è la geopolitica, se così vogliamo chiamarla. Da un lato, un gruppo di golfisti unito dalla bandiera dell’Unione Europea e dall’Inno alla Gioia di Beethoven, dove trovano posto pure gli inglesi nonostante la Brexit (esempio quasi unico nel mondo dello sport, dove l'Unione Europea, almeno a livello identitario, fatica a farsi strada). Dall’altro, un gruppo di golfisti gonfi di orgoglio a stelle e strisce trascinati in campo dal coro “U-S-A/U-S-A”, e da VIP come Michael Jordan.

La nascita della Ryder Cup

Ma come si è arrivati a questo punto? Come ha fatto la Ryder Cup a diventare l’evento golfistico internazionale più importante al mondo e tra i più seguiti tra tutti quelli sportivi?

Come detto, la Ryder Cup non nasce come la conosciamo oggi: il suo embrione spunta nel 1921, quando un primo incontro non ufficiale a squadre si chiude con la vittoria della Gran Bretagna, 9 punti a 3 sugli Stati Uniti a Gleneagles, seguita nel 1926 da un secondo successo, sempre non ufficiale, ancor più netto della formazione europea, 13½ a 1½ al Wentworth Club (sì, in Ryder valgono anche i mezzi punti in caso di pareggio). Gli americani e in particolare Walter Hagen (stella di prima grandezza con già ben 8 vittorie in tornei Major) non digeriscono lo smacco e chiedono a gran voce la possibilità di rivincita. È però solo grazie al contributo di Abe Mitchell (professionista del Verulam Golf Club di Saint Albans, alle porte di Londra) che prende forma l’idea di una competizione ufficiale che metta l’uno di fronte all’altro i migliori giocatori del Vecchio Continente contro quelli del Nuovo Mondo. Tra gli allievi di Mitchell c’è proprio Samuel Ryder, che già in passato si era tolto il lusso di sponsorizzare qualche torneo di golf a squadre. In questo caso si occupa di commissionare dai famosi gioiellieri di Londra Mappin & Webb (punto di riferimento anche della corona britannica) un trofeo in oro alto circa 44 centimetri, del valore di 250 sterline, cioè circa 21mila dollari di oggi. È il 1926 e così nasce la Ryder Cup.

La prima edizione ufficiale del 1927 si gioca al Worcester Country Club (nel Massachusetts) dove il team USA, forte del sostegno del pubblico di casa e del forfait di Abe Mitchell per un attacco di appendicite, trionfa davanti a un pubblico numeroso e festante. La sfida tra britannici e americani è una formula che piace fin da subito, riuscendo a coinvolgere anche chi solitamente snobba il golf, considerato a ragione uno sport d’élite, figuriamoci alla fine degli anni 20.

Nonostante l'inaspettato successo di pubblico i problemi di denaro incredibilmente non mancano. Per esempio: le traversate oceaniche sono troppo lunghe e costose. Per un certo verso anche pericolose, o almeno così venivano percepite: d'altra parte, il Titanic si era inabissato nelle acque dell’Atlantico solo una quindicina di anni prima (il 15 aprile del 1912) e il ricordo della tragedia era ancora ben presente. L’organizzazione delle trasferte via mare resta quindi il punto più critico della competizione. Il rischio che l’evento salti già nel 1927, in occasione della prima edizione, è alto: per permettere alla squadra britannica di arrivare negli Stati Uniti, George Philipot (direttore della rivista Golf Weekly) lancia un appello per assommare i 15mila dollari necessari, ma la sua richiesta di sovvenzione cade praticamente nel vuoto e solo 216 dei 1750 club inglesi aderiscono alla donazione economica. Gli stessi Samuel Ryder e George Philipot devono frugarsi nelle tasche, e se infine il viaggio può aver luogo, anche a bordo dell’Aquitania non è che siano tutte rose e fiori: sei giorni di traversata tormentati dal mare in agitazione. All’arrivo a New York la squadra britannica è sfiancata, i giocatori sono al limite delle loro forze ed alcuni di loro addirittura malati, ma l’attesa è tale che non possono sottrarsi all’inevitabile serata di gala e persino ad una sessione di baseball dei New York Yankees.

Fino alla metà degli anni Sessanta si continua così, a colpi di sovvenzioni generose. Tra queste c'è quella di Robert Hudson, un frutticoltore dell'Oregon e membro del comitato consultivo PGA (l’Associazione Americana dei Golfisti Professionisti) che nel 1947 blocca il Portland Golf Club per spostare la sede dell’evento. È lui a pagare la squadra britannica (guidata da Sir Henry Cotton) per viaggiare in barca (la Queen Mary) negli Stati Uniti e poi in treno attraverso il paese fino all'Oregon. Per la cronaca: l'ospitalità termina qui, poiché gli americani stracciano gli avversari per 11-1.

Ascesa e declino dell'egemonia degli Stati Uniti

Vita dura per i britannici che, se da un lato, si fregiano di aver inventato il golf e la sua massima competizione, dall’altro non riescono a mettere mano sul trofeo per 30 anni: dalla vittoria del 1955 bisognerà aspettare fino al 1985 per rivedere il Vecchio Continente battere di nuovo gli Stati Uniti. In questo arco temporale così lungo dobbiamo però mettere un asterisco in corrispondenza dell’edizione del 1969, passata alla storia come “The Concession”, ovvero il primo pareggio della Ryder Cup. Immaginate la scena: Gran Bretagna e Stati Uniti sono in perfetta parità quando nell’ultimo singolare Jack Nicklaus (l’uomo più vincente della storia del golf, con i suoi 18 Major, ma allora giovane debuttante nella sfida intercontinentale) concede a Tony Jacklin il putt da un metro e mezzo: in pratica, dando per scontato che l’avversario imbuchi, non gli fa tirare il colpo (cosa possibile solo nella formula matchplay), dimezzando così la loro partita e la competizione complessiva (gli Stati Uniti, in realtà, manterranno formalmente la Coppa in quanto campioni uscenti). Sembra l’apoteosi del fair play, delle buone maniere, dello spirit of the game che è impresso nel DNA del golf dalla notte dei tempi. Ma non tutti la pensano così: «Concedere quel putt a Jacklin è stato ridicolo, da un metro e mezzo si può anche sbagliare. Siamo venuti qui per vincere, non per fare i bravi ragazzi», dichiarerà per esempio il capitano americano Sam Snead, a dimostrazione di quanto la competitività dell’evento stesse iniziando a fermentare.

E proprio per mettere un po’ di pepe alla sfida e spezzare l’egemonia degli Stati Uniti che nel 1973 l’Irlanda viene autorizzata a unirsi alla squadra britannica, mentre è solo dal 1979 che viene concessa la possibilità di entrare nel Team Europe a tutti i giocatori del Vecchio Continente.

È proprio uno di questi che, quasi da solo, riesce a cambiare il destino della Ryder Cup. Ha un papà, uno zio e due fratelli fortissimi a golf, a sei anni già maneggia ferri e legni. Il suo prediletto ma anche unico bastone nella sacca di bambino è un ferro tre, un aggeggio talmente difficile da maneggiare che oggi non esiste nemmeno più. La sua indole è fantasiosa e geniale, il suo nome è Severiano Ballesteros. Proprio nella sfida tradizionale tra Europa e America svela la sua forza dirompente fatta di audacia e spettacolo, segnando un record che è unico (20 vittorie su 37 incontri con gli americani, nessuno come lui) e forse possibile solo in Ryder, perché è una gara che si gioca buca per buca e non richiede costanza assoluta, l’estro può correre a briglia sciolta. Per tutti gli anni Ottanta, Ballesteros tiene incollato agli schermi della TV anche chi non sa cos’è un campo da golf, non smettendo mai di inventarsi colpi impossibili che infiammano il pubblico della Ryder, sugli spalti come a casa. Spara drive a destra e a sinistra, sparisce dalle inquadrature perché sempre accovacciato in qualche angolo impensabile del campo, per poi riuscire a inventarsi non si sa come un modo per tornare in gara, generando boati che sembrano venire dalle viscere della terra. In coppia con l’altro spagnolo di quegli anni irripetibili, Josè Maria Olazabal, vince anche 11 match su 15 nelle sessioni di doppio, sconfessando il mito che la genialità non possa essere messa a servizio della squadra: in quelle atmosfera da torcida, che si concludono sempre con bagni di champagne e scherzi da collegiali in libera uscita, Ballesteros lascia la sua impronta indelebile sulla Ryder Cup.

Dal quel momento non solo c’è vera competizione tra Europa e Stati Uniti, ma gli equilibri finiscono addirittura per ribaltarsi: gli americani non partono più favoriti nei pronostici e iniziano a patire lunghi periodi di digiuno (in trasferta non vincono addirittura dal 1993). Proprio quando la Ryder Cup tocca il culmine dell’appeal, l'egemonia americana viene meno e anche i confini geografici iniziano ad ampliarsi: nel 1997 tocca all’Europa ospitare l’evento e, per la prima volta nella storia del torneo, si gioca al di fuori dei confini britannici. Il campo prescelto è il Valderrama Golf Club nella città di Sotogrande (in Spagna, a circa 25 km da Gibilterra) e i protagonisti di quell’edizione storica sono due: l’italiano Costantino Rocca e Michael Jordan.

In realtà, il primo impatto di un golfista azzurro con la Ryder Cup non è così felice. È il 1993 e la stampa attribuisce proprio a Rocca la responsabilità della sconfitta europea quando sbaglia un corto e decisivo putt alla buca 18 nel match singolare con l’esperto Davis Love III. Il riscatto arriva già due anni dopo, quando mette in uno una memorabile buca nella giornata di foursome in coppia con Sam Torrance. Ma è per l'appunto nel 1997 che arriva al trionfo. La sorte vede Costantino opposto come ultimo match all’astro nascente del golf mondiale, Tiger Woods, che solo qualche mese prima aveva vinto il suo primo Major (l’Augusta Masters), con tanto di record. È un Woods giovane, ambizioso, sulla rampa di lancio, non certo il campione dall'immagine infangata per gli scandali sessuali o la vecchia leggenda che si trascina lungo il viale del tramonto su una gamba sola, dopo il grave incidente automobilistico del 2021. Contro la miglior versione del fenomeno statunitense, Rocca esibisce un gioco grintoso e solido, che manda in tilt Woods. Il golfista statunitense alla buca 16 è costretto ad arrendersi definitivamente.

L’edizione di Valderrama conferma all’ennesima potenza che in Ryder Cup succedono cose impensabili, destinate a finire dritte nei libri di storia dello sport. Jon Miller, presidente della programmazione di NBC Sports Group, lo aveva ripetuto tante volte all’amico Michael Jordan, ricevendo dalla leggenda NBA la solita risposta che si dà quando si vuole tagliar corto, senza offendere il proprio interlocutore: «Si, certo Jon, sono sicuro sia un bell’evento». L’opera di persuasione va avanti per anni fino a quando MJ, che nel settembre del 1997 è in vacanza a Montecarlo, si presenta a Valderrama per verificare di persona se la fama di cui gode la competizione è meritata o se, al contrario, si tratta dell’ennesima esagerazione giornalistica. A Valderrama lo sportivo più famoso del pianeta partecipa per la prima volta da spettatore all’evento e da quel momento non perderà una sola edizione.

Nel 2006 al K-Club di Straffan, ad ovest di Dublino, ha bisogno di un pass extra per il parcheggio e Jon Miller gli offre il suo, ma a una singola, stranissima condizione: incontrarlo alla sinagoga lungo la strada per il campo nel giorno dello Yom Kippur. I fedeli radunati davanti alla sinagoga, mentre si preparano per officiare i riti, pensano di vedere un fantasma quando Jordan si presenta vestito di tutto punto con il suo abbigliamento da Ryder. Tutti vogliono vederlo, salutarlo, scattargli una foto o anche semplicemente toccarlo, in una continua processione di fedeli.

The Miracle

La presenza di Jordan alla Ryder diventa sempre più vistosa e il suo ruolo ancor più significativo nel 2012 quando la squadra americana lo ingaggia come motivatore ufficiale del team per l’edizione del Medinah Country Club, nell’Illinois. Ora, sappiamo tutti quanto Jordan abbia cambiato la storia del basket e, più in generale, dello sport con il suo carisma, ma anche con il suo talento e la sua ossessivo e spesso malata voglia di migliorarsi. Insomma, vista da questo punto di vista l'idea di Team USA non sembra così fantasiosa e infatti l’edizione di Medinah finisce dritta negli annali con il nome di “The Miracle”. C'è solo un problema, però: che il miracolo a compierlo saranno gli europei.

Implicazioni politiche a parte, il grado di stupore generato dalla rimonta del Team Europe sui green dell’Illinois sfiora i livelli del famoso “Miracle on Ice” delle Olimpiadi invernali del 1980. «E voi, ci credete nei miracoli? Da adesso sì!», disse il telecronista dell’ABC Al Michaels, riassumendo perfettamente ciò che accadde nella finale di hockey su ghiaccio a Lake Placid. Gli Stati Uniti avevano appena battuto l’URSS contro ogni previsione, ponendo fine all’egemonia dei sovietici negli ultimi quattro cicli olimpici. A Medinah, il miracolo sportivo assume la forma di una delle rimonte più spettacolari e impensate della storia, un crescendo di sensazioni fino all’impossibile affermazione del team europeo.

Le prime due giornate di competizione si concludono con un netto predominio degli States, in vantaggio per 10-6: in pratica, nell’ultima giornata dei singolari, all’America servono solo 4½ punti per vincere. C’è un unico cruccio per Davis Love III, capitano USA, che non gli permette di godersi a pieno l’ampia leadership: l’inglese Ian Poulter non sembra voler assecondare le trionfalistiche voglie americane e, al pubblico che lo provoca, risponde imbucando di tutto e, soprattutto, quando conta. L’ultimo putt del sabato è il suo e serve per vincere il match che tiene accesa la speranza al lumicino (in coppia con Rory McIlroy). Ma all'Europa serve comunque un ribaltone clamoroso per sovvertire il risultato e portare a casa la coppa. Tra l’altro, storicamente, la rimonta domenicale è affare degli americani e un passo falso iniziale del vecchio continente chiuderebbe ben presto la questione. Ma Lawrie, McIlroy e Donald vincono i propri match e, a questo punto, fanno vacillare le certezze degli avversari: tra errori, salvataggi eautentiche prodezze (come il chilometrico putt vincente di Justin Rose contro Phil Mickelson), l’Europa si porta sul 14-13, con un solo match da portare a termine. Il pareggio finale tra Tiger Woods e Francesco Molinari consente alla squadra europea di vincere la Ryder Cup con il risultato finale di 14½–13½. È un trionfo impensabile, senza senso, che assume anche contorni epici se si pensa alle lacrime del capitano europeo Olazabal in ricordo dell’amico Seve Ballesteros, morto qualche mese prima a soli 54 anni per un tumore al cervello.

Di fronte a un miracolo simile, gli Stati Uniti si avviano all'edizione successiva con la volontà di ricostruire il proprio orgoglio. Si gioca a Gleneagles, in Scozia, e per prepararsi alla sfida gli statunitensi creano addirittura una Task Force d’emergenza. Forse ignaro della scaramanzia, forse sinceramente preoccupato per la voglia di riscatto degli americani, il capitano europeo, Paul McGingley, decide che sarà lui questa volta a far accompagnare la sua squadra da una grande figura totemica, cioè Alex Ferguson. Il leggendario allenatore del Manchester United sembra meno coinvolto di Jordan, nonostante la sua natura scozzese dovrebbe dire il contrario. Sir Alex saluta, fa l’in bocca al lupo e dice solo qualche parola, eppure c'è chi rimane segnato. Rory McIlroy, tifoso del Manchester United, per esempio dichiara: «È un uomo particolare, dispensa ispirazione, ha un sacco di autorità e tutti lo ascoltano. È stato un momento che non dimenticherò». E mentre l’entusiasmo europeo lievita, il revanscismo americano ha vita breve: per gli States è un’altra brutta settimana (battuti in campo 16½-11½) e lo diventa ancora di più durante la conferenza stampa della domenica sera quando Phil Mickelson mette in discussione la leadership del capitano degli Stati Uniti, Tom Watson, seduto non lontano da lui. L’atmosfera è surreale ma la denuncia di “Lefty” pone le basi per tirare una bella riga sui risultati disastrosi degli ultimi anni e cercare di creare un progetto per il successo a lungo termine.

In realtà, i primi effetti si vedono già due anni dopo, all’Hazeltine National Golf Club di Chaska, Minnesota, dove gli americani riconquistano la Ryder dopo 8 anni di digiuno, battendo nettamente l’Europa 17 a 11. In realtà, però, si tratta solo di una breve parentesi, ridimensionata dal capolavoro messo in piedi da Francesco Molinari e compagni nel 2018 a Le Golf National di Parigi. Sono giorni storici per il golfista torinese, tra l'altro fresco della prima vittoria italiana in un Major, l’Open Championship. Molinari vince tutti e 5 gli incontri disputati (primo atleta del Vecchio Continente a riuscirci) e, non a caso, il punto decisivo del torneo porta la sua indelebile firma: la pallina gettata in acqua dal suo avversario, Phil Mickelson, gli regala la ribalta assoluta. Nei primi quattro match, in coppia con l’amico Tommy Fleetwood, fa emergere tutta la straripante qualità di atleta che sa gestire la tensione con freddezza e carisma, mettendo a frutto i progressi tecnici, soprattutto nel putt. Ad andare in difficoltà con Molinari è anche Tiger Woods, sconfitto tre voltenei match doppi.

È anche grazie questa impresa, oltre ovviamente grazie al suo passaporto, che Molinari si è guadagnato l’onore di essere uno dei 5 vicecapitani scelti da Luke Donald per il Team Europe (insieme al fratello Edoardo con il quale giocò e vinse l’edizione del 2010 al Celtic Manor) nell’imminente edizione italiana della Ryder Cup, al Marco Simone, a Roma. Non ci saranno ovviamente solo loro a difendere i colori dell'Europa, ma anche, tra gli altri, Jon Rahm, Rory McIlroy e Matthew Fitzpatrick, tutti vincitori di Major. Certo non sarà facile ripetere quanto fatto a Parigi ma, per la prima volta che si gioca la Ryder Cup in Italia, si ha l'impressione che la sfida vada persino oltre i confini del campo da gioco.

Le autorità sportive infatti sperano che l'evento farà da volano, come si dice, all'intero movimento, che al momento conta meno di 100mila praticanti. La Federazione sognadi raddoppiare la cifra ma è difficile che un singolo evento, per quanto ben riuscito, possa da solo fare da leva. Certo, la Ryder Cup ha il potere di generare storie uniche e chissà che questa edizione non possa rinnovarlo. Anche solo avere la possibilità di assistere dal vivo alla storia del golf, alla fine, è una grande notizia.

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