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Breve storia del tifo apolide
16 ott 2020
16 ott 2020
Il tifo calcistico è sempre meno legato alla territorialità.
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Che ruolo ha il tifo nelle nostre vite? Cosa scegliamo di essere quando ci leghiamo a un club e decidiamo di seguirne le sorti? Perché scegliamo una squadra piuttosto che un’altra?

La prima risposta, quella più semplice, è che il tifo è certo una cosa irrazionale e le sue funzioni hanno a che fare con gli istinti. Per alcune persone vale come semplice valvola di sfogo, per altre è un rituale che scandisce il fluire delle settimane, per altre ancora può essere una consolazione rispetto alla durezza della vita. Tifare ci alleggerisce l’esistenza forse proprio per la sua assenza di razionalità.

Con la stessa semplicità, il calcio si è legato alle città che lo ospitavano e si fonde con l’identità stessa di quei luoghi e di quelle comunità, ne condivide i valori e ne perpetua la storia, andando a sostituire i vecchi simboli. Nell’Italia di fine Ottocento, la squadra cittadina subentra in modo pacifico alle vecchie milizie, mentre le statue dei condottieri prendono le fattezze di vigorosi atleti. Il calcio dei pionieri accoglie questa dialettica, e si fa promotore dell’orgoglio civile di una città: non solo mero contenitore di uno stadio, ma parte attiva e vitale di un processo.

Ma cosa succede quando, in un preciso momento storico, il tifoso perde quel legame territoriale e si fa apolide, scegliendo di sostenere una squadra lontana anche migliaia di chilometri?

Tra il 1928 e il 1942, ben 425.174 persone emigrarono dal Mezzogiorno verso i poli industriali del Nord Italia, cercando un avanzamento sociale ed economico impossibile nei comuni di residenza, e il concetto originale di identità territoriale ed esclusiva cominciò ad entrare in crisi.

Il tifo per la squadra della città ospitante fu lo sbocco ideale del percorso di accettazione che questi nuovi cittadini dovettero intraprendere per integrarsi. Se questo poteva avvenire più lentamente con i rapporti umani, il calcio garantiva ai migranti una facile affiliazione con i nuovi luoghi. Il legame col club autoctono divenne il modo più veloce e immediato di combattere un’emarginazione di grandi proporzioni, tra divieti di affitto, discriminazioni latenti e diversità culturali.

La scelta del tifo di questi italiani ricadde sulle squadre che in quel periodo storico erano emerse come potenze sportive. Prima le milanesi Inter e Milan, in seguito la Juventus, che legò le sue grandi vittorie al periodo del boom economico degli anni Sessanta, quando emigrarono al Nord circa 800.000 persone ogni anno, in molti per lavorare negli stabilimenti FIAT. Da questo punto della storia in poi, i flussi verso le tre tre grandi squadre italiane diventeranno definitivi e contribuiranno a formare generazioni di tifosi fidelizzati che plasmeranno per sempre la conformazione del tifo e della società italiana.

Le città visibili

Nel suo libro Le città invisibili, Italo Calvino, anche lui una sorta di apolide, descriveva l’intimo momento di contatto tra l’uomo e le città mai conosciute, capace di generare un’estasi arcaica di riscoperta delle proprie radici e di rivalutazione del proprio passato, un “passato che non sapeva più di avere”. È chiara la necessità dell’uomo di “possedere” un luogo, un’intricata rete di simboli e significati culturali, architettonici, storici; una rete ancora non controllata, estranea, e per questo capace di generare paura.

Le gloriose vittorie dei club del Nord fecero da cuscino psicologico di autostima, e resero meno amaro lo sradicamento e la dispersione, creando un fortissimo collante sociale che nessun altro fenomeno, tranne forse la televisione, è riuscito a eguagliare. Lo storico Giovanni De Luna, autore di Juventus. Storia di una passione italiana, in un’intervista a Radio Radicale pone l’accento proprio sulla funzione aggregante del tifo per le grandi: «La Juve intercettò esattamente quel tipo di dimensione, non so fino a che punto consapevolmente. È evidente che l’operaio di Mirafiori si rispecchia nella Juve con molta più facilità, rivedendosi in una comunità, quella del meridione che riempie i quartieri popolari di Torino».

La prima squadra a captare questo cambio di paradigma fu appunto la Juventus che, tra il 1966 e il 1968, costruì con grande lungimiranza un rapporto di affiliazione unico con i propri tifosi meridionali. Da qui la strategia di acquistare spesso calciatori provenienti da diverse zone del Meridione –Anastasi, Cuccureddu, Furino, Causio- e formando un bacino di affezione che passava dai giocatori e che si finirà per rafforzarsi con i cinque scudetti degli anni Settanta. In particolare, l’acquisto del siciliano Pietro Anastasi, nel 1968, giunse in un momento difficile di proteste degli operai della Fiat Mirafiori, quasi a sancire un patto tra l’allora presidente Gianni Agnelli e i propri lavoratori meridionali, che in quegli anni affollavano i quartieri periferici di Torino.

Il club piemontese passò nella narrazione popolare - alimentata soprattutto dai tifosi granata - da squadra della buona borghesia torinese a materna alcova dei proletari immigrati, rendendo il Torino la “vera” squadra dei torinesi. Dice tutto lo slogan “Torino è granata”, uno dei più celebri del tifo torinista, a rimarcare un orgoglio campanilistico duro a morire, nonostante dalle ultime ricerche (Demos 2010 e StageUp/Ipsos del 2020) emerga una netta supremazia della Juventus in tutto il Piemonte. La Juventus viene definita con ironia la “squadra di Venaria”, comune della periferia di Torino nelle cui vicinanze sorge lo Stadium, e che negli anni ‘60 fu interessato da una forte migrazione, soprattutto di matrice meridionale. Inter e Milan preferiranno un approccio più soft, munendosi intanto della rete degli innovativi fan club, attivi già agli inizi degli anni Cinquanta e che ancora oggi, con le centinaia di realtà sul territorio, rendono reale la presenza della squadra in ogni latitudine dello stivale.

L’eredità di quel bacino di tifo meridionale, per la Juventus, arriva fino al 1996. Il 5 febbraio di quell’anno si gioca la finale di Supercoppa UEFA tra Paris Saint Germain e Juventus. Dopo il pesante 1-6 dell’andata a favore della Juve, la dirigenza bianconera, forse temendo il vuoto del Delle Alpi in una partita di poco valore, decide di spostare il ritorno a Palermo, in omaggio ai tantissimi tifosi siciliani di fede bianconera. È un successo: a rivedere le immagini della partita sembra di assistere a una partita di Coppa Libertadores, con gente in visibilio e tifo caldissimo. Il vecchio La Favorita è colmo fino all’orlo dei suoi 35.000 spettatori. Una fotografia che sembra possibile solo nel micromondo culturale italiano: quanto sarebbe stato strano vedere un Upton Park, storico nido del West Ham, riempito di tifosi londinesi del Manchester United?

La fenomenologia della Triade e la situazione italiana

La polarizzazione dell’affezione degli italiani verso i tre principali club avviene quindi in due fasi specifiche: gli anni a cavallo delle guerre mondiali e quelli del miracolo economico. All’importanza dei flussi migratori si aggiunge anche la predisposizione di queste squadre a più cicli vincenti, fenomeno che ha permesso un ricambio generazionale continuo, plasmando i tratti peculiari degli appassionati italiani e anticipando i fenomeni di apolidia del tifo, oggi fortemente incentivati dai più grandi club europei, che hanno fiutato le immense prospettive economiche del fenomeno.

Negli ultimi vent’anni, con l’avanzamento degli approcci statistici sul mondo del calcio, si è tentato di dare un volto a questa percezione di tifo apolide. Alcune di queste ricerche si sono orientate su una difficile catalogazione terminologica. Che sfumature intercorrono fra affezione, tifo o preferenza? La fedeltà a una squadra è un dato intrinsecamente fumoso.

L’ultima ricerca esaustiva in tal senso è «La Serie A nel XXI Secolo: evoluzione dell’interesse, del tifo e dei ritorni per gli sponsor» della società StageUp/Ipsos, e analizza il trend del tifo italiano nel periodo che va dal 2001 al 2019. Lo studio ci offre un modello in cui a dichiararsi juventino è circa un italiano su tre (8,7 milioni di persone, il 38%), seguito dai quasi 4 milioni a testa di Inter (17%) e Milan (15%): due terzi del tifo italiano si lega dunque alle strisciate, con una netta preferenza per i bianconeri, probabilmente aumentata dal lungo dominio casalingo degli ultimi anni (nel 2010 i bianconeri si attestavano intorno al 32%).

Il resto viene preso dalle grandi piazze del centro-sud, in cui è più forte il radicamento territoriale a una squadra storica che porta il nome della città, come Napoli e Roma. Si nota una sempre più netta polarizzazione del tifo intorno a questi cinque club, che detengono l’88% dei fan totali, rispetto alla situazione del 2001/02 che inchiodava questo dato al 79%, segno che il legame territoriale delle nuove generazioni è sempre più debole.

Questi dati vengono confermati, con piccole variazioni, anche in uno studio di Statista del 2018 sulle cinque maggiori leghe europee, European Football Benchmark, che ha prodotto una serie di dati comparativi sul senso identitario del tifo europeo, coinvolgendo oltre 15.000 appassionati.

Tra le squadre del Sud, solo il Napoli riesce ad avere un appeal di dimensioni considerevoli, rapportato comunque a una città metropolitana che conta oltre tre milioni di abitanti. Grazie anche ai grandi risultati degli ultimi anni, la squadra partenopea è il club che cresce più a livello di supporter anche in zone fuori dalla Campania, e si tratta di un unicum nella storia del Meridione. Dietro il Napoli troviamo un vuoto assoluto in termini di appeal, titoli vinti e presenze nelle coppe: sono emerse, nel corso degli anni, altre realtà capaci di dire qualcosa a livello di risultati sportivi - Palermo, Bari, Reggina, Lecce - ma queste non hanno saputo creare una competitività duratura, finendo spesso triturate nel gorgo di fallimenti finanziari, andirivieni nelle serie minori, improvvisi vuoti societari e mancanza cronica di investimenti. L’influenza dei risultati sportivi sull’espansione o la riduzione del tifo, insomma, è innegabile, per quanto in contraddizione con un’idea romantica che slegherebbe la passione per la propria squadra dal successo.

E parlando del Meridione, non c’è mai stata una vera e propria “squadra del Sud” che potesse, in modo continuativo, creare una tradizione vincente capace di attirare le simpatie di quella parte del Paese. In mancanza di una società degna di rappresentare l’identità culturale e territoriale, si è preferito seguire tradizioni familiari rassicuranti, e club che sapessero dare un senso di competizione a livello nazionale. Si passa quindi da un tifo per nascita, scevro di ogni impalcatura competitiva, a un tifo per preferenza, consapevole o meno: non più cieca e orgogliosa fede, ma scelta di consumo, molto più vicina al ruolo di tifoso ideale che i club contemporanei pongono come target per il loro “prodotto”.

Oltre le Alpi

La peculiarità del fenomeno italiano risalta quando si rapporta alla situazione del tifo nelle altre grandi leghe europee, che mostrano numeri e generano riflessioni diverse.

Analizzando i dati della Premier League, il campionato su cui si ha il numero più alto di studi statistici, la situazione è decisamente più variegata, spiegata anche dalla storica affiliazione viscerale del cittadino inglese alla squadra della propria città, che fa riemergere valori e significati cristallizzati dalla tradizione familiare. Un’analisi del Daily Mail - quindi da prendere con le molle - basata sui dati delle interazioni su Twitter, racconta una supremazia generale del Liverpool, che però cede lo scettro, in alcune zone del Paese, a Chelsea, Arsenal e le due squadre di Manchester. Il dato interessante è però la stretta vicinanza al podio di un numero altissimo di squadre fortemente identitarie di città come Newcastle, Sunderland, Stoke, Leicester, Aston Villa e Southampton. Un quadro coloratissimo che ben si sposa con la percezione ideale che si ha del calcio inglese e dei suoi tifosi, fortemente incentivato dal successo di prodotti come il documentario Sunderland 'til I die su Netflix.

Anche la Francia mostra un quadro simile a quello inglese: nonostante la predatoria presenza del PSG degli ultimi anni, le squadre più tifate della nazione sono Marsiglia, Nantes e Saint-Etienne, città tradizionalmente a vocazione calcistica, contrapposte alle preferenze rugbistiche di città come Lione e, soprattutto, Parigi. Rispetto alla situazione italiana, dunque, il centro industriale e lavorativo non si identifica con la stessa forza di città come Milano, spogliando il calcio di quella ricerca di riscatto culturale gratificata dalle vittorie di un club. In Francia il calcio sembra ancora legato a un senso forte di identità cittadina e di omogeneità del tifo, anche se la situazione potrebbe cambiare, nei prossimi anni, con il lavoro di espansione del marchio attuato dalla dirigenza del Paris Saint Germain, che ha già posto il club in cima alle interazioni sui social media.

In Germania il Bayern Monaco raccoglie “solo” il 25% dell’amore dei tifosi tedeschi, seguito dal Borussia Dortmund al 19%. Il panorama dietro le due grandi, come si evince dall’indagine del portale Nielsen Sport, è però molto vasto: accanto a club storici e regionali come Schalke, Borussia Mönchengladbach, Werder Brema, Stoccarda e Amburgo, abbiamo l’ascesa del Red Bull Lipsia (4% del totale), società nata nel 2009 ma che ha rapidamente scalato le gerarchie, diventando la squadra più tifata della Germania Est, dietro il duo Bayern-Dortmund. Un duopolio, dunque, che però contempla al suo interno un mosaico che è espressione della passione dei tedeschi per le squadre rappresentative del territorio della Land di appartenenza.

Solo la Spagna, tra le grandi leghe, ha una situazione paragonabile a quella italiana, con Barcellona e Real Madrid che vengono tifate dal 52% dei supporter spagnoli (dati AIMC): solo l’Atletico Madrid, col suo 9%, raggiunge cifre importanti. Persistono, alla stregua di società come Roma e Napoli, realtà solide e legate fortemente al senso d’identità territoriale come l’Atletico Bilbao per la regione basca.

Probabilmente ha influito la storica perseveranza con cui i Barcellona e Real hanno vinto titoli e mantenuto un dominio interrotto solo, nell’epoca contemporanea, da club come Valencia e Atletico Madrid. Il consolidamento così netto delle due grandi può anche spiegarsi, come in Italia, col denso fenomeno migratorio interno che ha interessato la Spagna nel Novecento: già nel 1930 un censimento nazionale dimostrava che il 45,8% dei nati in altra provincia risiedeva proprio a Madrid e Barcellona, le due direttrici principali del tifo iberico.

La perdita della logica identitaria

La situazione italiana dunque, all’analisi dei dati, risulta quella maggiormente polarizzata attorno a tre squadre, generando un sistema-calcio che ha dovuto fare i conti, nel bene e nel male, con questa peculiarità.

L’argomento diventa di primaria importanza con l’arrivo delle pay-tv a metà anni Novanta, una novità che cambierà per sempre il calcio italiano, visto che ancora oggi i soldi dei diritti sono la principale fonte di sostentamento dei club di Serie A. Il concetto di base è che la divisione del tesoretto non può prescindere dal dare una quota maggioritaria alle squadre con i numeri più alti di possibili consumatori. I grandi club, consapevoli di essere l’ago della bilancia, spingono per una distribuzione che permetta loro di valorizzare il vero e proprio tesoro umano – in termini di spettatori davanti lo schermo - di cui dispongono. La questione diventa politica, e nel 2008 la legge Melandri-Gentiloni, basandosi su indagini demoscopiche, ripartisce il 30% delle risorse derivanti dai diritti Tv sulla base dei dati sul “bacino di utenza”, premiando il peso che queste società hanno nel rendere appetibile il prodotto Serie A. Con una modifica governativa del 2018, il parametro sul bacino di utenza viene sostituito da un più simbolico “radicamento sociale”, calcolato sulla base del pubblico pagante e dell’audience televisiva: la quota viene rivista al ribasso, al 20%.

La discussione sulla ripartizione dei diritti ha naturalmente fomentato rancori, malumori e campanilismi, esasperando la dicotomia tra grandi e piccoli club, già incancrenita da un dibattito pubblico esaurito in posizioni partigiane e nostalgismi. La deriva verso questa apolidia viene spesso vista come un morbo contemporaneo che rischia di impoverire la ricchezza del tifo italiano e l’esistenza delle piccole società: questa è la linea di rifiuto seguita da praticamente tutte le curve italiane, che non hanno mancato, attraverso i frequenti comunicati, di far sentire la propria voce contro i “tifosi da tv”, rappresentanti del male del calcio contemporaneo. Si è formata nel tempo una controcultura, nei forum e nei social network, che tenta di svezzare i tifosi italiani al tifo per le squadre della propria città, le uniche capaci di restituire quello che secondo loro è il senso originario del tifo.

È il caso, ad esempio, del sito “asromaultras.org”, uno spazio che raccoglie la memoria storica degli ultras romanisti, ma che nel tempo è diventato una sorta di manifesto intellettuale contro il calcio moderno. Il testo programmatico, scritto nelle principali lingue europee, si conclude con questo pensiero: «I signori non hanno capito che per gran parte di noi le nostre squadre sono una fede, che i loro simboli ce li abbiamo tatuati sulle braccia e che le loro maglie, per gente come noi, rappresentano le nostre città».

La sensazione di pericolo per questa perdita di identità sembra essere una paura atavica del tifoso, come dimostra l’ostilità dell’opinione pubblica verso i moderni club globali e le frequenti resistenze delle frange del tifo più “duro” alle dinamiche contemporanee della gestione dei club. Emblematico è un comunicato datato 2016 dell’ex gruppo ultras laziale degli Irriducibili – peraltro scioltosi pochi mesi fa - che parla addirittura di “rischio di estinzione” e “perdita della lazialità”. In realtà si è già visto come questo fenomeno, quello della delocalizzazione del tifo, sia già enormemente presente nella storia del calcio italiano, e in qualche modo ne rappresenti addirittura una parte fondativa.

Dall'altra parte i grandi club europei hanno lavorato sul loro marchio, svolgendo attente ricerche di mercato e sondando i grandi mercati internazionali, alla ricerca di nuovi tifosi apolidi. Con esiti altalenanti, le società coi fatturati più alti del mondo hanno dirottato la loro attenzione soprattutto verso il mercato asiatico e, in misura minore, americano, puntando su strategie comunicative sempre più globali.

Già nel 2004, il presidente del Real Madrid Florentino Perez descriveva così la strategia della sua società: «La cosa più importante è il marchio, è un po’ quello che accade con la Disney. Il nostro obbligo è continuare a diffonderci a livello internazionale: vorremmo che il nome del Real Madrid arrivasse in tutto il mondo. Siamo stati in Asia, in America, e andremo in Sud Africa. Ci sono centinaia di milioni di persone che hanno nel cuore la nostra squadra».

L’idea principale, col tempo, è stata smarcarsi in parte da tutti quegli elementi che potevano rimandare in maniera troppo oscura ai simboli cittadini, evitando di creare un recinto mentale di esclusione. Via quindi alle dinamiche campanilistiche, via ai loghi troppo oscuri, come per il motto latino “Superbia in proelia” del City, e largo a emblemi universali e facilmente comprensibili a una platea universale, come la J stilizzata della Juventus, presentata nel 2017.

Certo, il processo è ancora in divenire, e rimane quella tendenza al richiamo ai simboli cittadini, utili per dare unicità e riconoscibilità al brand in un mercato iper-competitivo. È il caso, per esempio, delle maglie “city edition” Nike del 2018, che mostravano in filigrana le piante storiche delle città (il caso della Roma) o elementi iconici specifici (il caso del bianco “marmo del Duomo” per l’Inter), ma si tratta di emblemi sostanzialmente discreti e universali. Se da una parte il mondo del calcio strizza ancora l’occhio al sapore antico e confortante dell’appartenenza, dall’altra procede inesorabilmente dritto verso la totale globalità.

Il caso più brutale è ovviamente quello della Red Bull. La vicenda è ormai arcinota ma proviamo a sintetizzarla. Il noto marchio di bevande energetiche nel 2005 acquista l’Austria Salisburgo, una delle squadre storiche del campionato austriaco. L’idea è forte: la Red Bull spoglia il club dei suoi colori cittadini, cambia il nome e imprime sulla maglia il logo dell’azienda, il classico toro rosso. La reazione dei tifosi è orgogliosa e sdegnata: la squadra viene praticamente boicottata e il cuore dei supporter sceglie di creare da zero un’altra società.

Dietrich Mateschitz, produttore della Red Bull e proprietario del club austriaco, non lascia spazio al romanticismo, dichiarando che la dirigenza non intende assolutamente legarsi alle vecchie dinamiche: «Questa è una nuova squadra, una nuova società. Non c’è una storia, non esiste una tradizione». L’identità non è più un calderone di storia, legame, ricordi, territorio, ma viene ricreata in laboratorio, ripulita da tutto ciò che potrebbe creare asperità.

Nel 2009 il brand viene esportato anche nel campionato tedesco, biglietto d’ingresso per il gotha del calcio europeo. In Germania, la multinazionale ha molte più difficoltà a cambiare il corso della storia: le proteste dei tifosi dell’FC Sachsen Lipsia bloccano l’acquisto della società, e a quel punto la Red Bull decide di partire da zero, acquistando la licenza di un piccolo club di quinta divisione, il Markränstadt, con cui compie una velocissima scalata alla Bundesliga. La procedura è la stessa attuata in Austria: cambio dei colori sociali, allontanamento dal corpus storico precedente, toro sulla maglia e stravolgimento del nome.

L’arrivo della multinazionale nel calcio tedesco ha causato un fortissimo fronte di opposizione culturale in una nazione come la Germania, dove il legame tra i tifosi le squadre del proprio territorio è comunemente sentito, e progetti estremi e impersonali come questo vengono visti come una minaccia alla cultura del tifo.

Per anni la squadra sassone è stata accolta in ogni stadio tedesco con rancore e opposizione: nell’agosto del 2019 i rivali dell’Union Berlino, storica squadra a tradizione popolare, accolgono gli ospiti con 15 minuti di silenzio, seguiti da una distribuzione di volantini dal titolo “La cultura calcistica sta morendo a Lipsia”. Nella stessa giornata il presidente dell’Union, Dirk Zingler, interrogato sulla manifestazione, si schiera coi propri tifosi: «La protesta ha tutto il sostegno del club. È doloroso per noi fare la nostra prima partita in Bundesliga contro la Red Bull. Siamo stati critici nei confronti del Lipsia in seconda serie, perché non esserlo ora?». Il moto d’opposizione dei tifosi dell’Union riprende anche alla partita di ritorno di gennaio, dove la processione verso la Red Bull Arena diventa un pretesto per ricreare una simbolica marcia funebre a tema calcistico, il tutto accompagnato dallo striscione “In Leipzig stirbt der fußball” (“A Lipsia muore il calcio”).

Il fenomeno della multinazionale austriaca sta facendosi largo a spintoni tra le restrittive maglie della cultura calcistica tedesca, che in realtà sembra impotente di fronte al fenomeno: le varie proteste fin qui hanno avuto solo la conseguenza di porre il club al centro di una grande attenzione mediatica. È stata messe in luce l’inadeguatezza strutturale dei club “tradizionali” e provocato un effetto-Streisand che ha posto il club di Lipsia in cima alle preferenze delle nuove generazioni di tifosi tedeschi, sempre secondo l’indagine di Nielsen-Sport. Il paradosso è che proprio una squadra “in provetta” come quella dell’RB Lipsia abbia colmato un vuoto di potere della Germania dell’Est, storicamente mai rappresentata da una squadra capace di sviluppare un’egemonia calcistica duratura: slacciandosi dalle dinamiche classiche e sfruttando la peculiare situazione, la Red Bull è stata capace di captare un sentimento di riscatto e rappresentanza comune che ha legato uno spazio molto più grande di quello della sola area metropolitana. Un esempio di come, quando si parla di logiche identitarie, dai vecchi operai della Fiat ai nuovi tifosi Red Bull, siamo in un campo minato di contraddizioni.

In ogni caso l’era dei club legati a un centro cittadino sembra stare per tramontare definitivamente, aprendo alla prospettiva di pochi grandi club globali capaci di estendere la propria influenza senza barriere culturali, linguistiche e territoriali di sorta, come avvenuto in parte in Italia nel corso del Novecento. Le dinamiche, con le loro differenze intrinseche, sono le stesse: fenomeni di migrazione accelerati che portano a una cultura condivisa sempre più globale, mancanza di club carismatici e vincenti in mercati emergenti, consapevolezza dei club nel perseguire la diffusione del brand.

Se il futuro ci prospetta una royal rumble di brand calcistici, dobbiamo star certi che prima o poi ci ritroveremo a seguire il nostro club globale di Tokyo dal divano, con la tachicardia e un simpatico cappellino fluorescente con un toro rosso.

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