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Davide Lemmi
La boxe nella terra della maratona
20 nov 2018
20 nov 2018
Siamo andati nel primo circolo di boxe privato di Addis Abeba.
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Davide Lemmi
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In Etiopia o si corre o si corre. Possibilmente distanze superiori ai 5000 metri, piane o scoscese non fa differenza. Lo sa bene Eshetu Asfaw, allenatore della due volte oro alla maratona di Roma, Rehima Tusa, durante le scuole medie e superiori. In un piccolo villaggio dell’Oromia chiamato Kofale, altitudine 2700 metri, c’è una missione cattolica. Si produce formaggio, frutta, verdura e campioni. «Il segreto è il latte», Eshetu punta su una dieta particolare per i suoi atleti, «la mattina e il giorno un bel bicchiere e i muscoli sono più stimolati e resistenti». E anche se l’idea del latte magico stimola l’immaginazione, probabilmente rimarrà solo una leggenda. Tanto per citarne altre legate alla corsa in Africa, Silas Kiplagat, keniano medaglia d’oro dei 1500 ai giochi del Commonwealth di Dehli, nel 2010, alla domanda «perché dal vostro Paese arrivano tanti talenti della corsa?» ha spiazzato il cronista con un «Beh, dev’essere per via dei cartelli stradali. Quelli con la scritta "Attenti ai leoni"».


 

L’allenatore di Rehima si stampa un bel sorriso sulla faccia e comincia a illustrare l’esercito di ragazzi che frequenta i suoi corsi: «Calcio, basket, corsa, maschile e femminile, c’è tutto qua. Abbiamo anche le docce!». Nel giro turistico degli spogliatoi e nell’enfasi per la loro eccezionale presenza nel centro c’è un po’ della vera magia dell’Etiopia per la corsa. Basta una strada o un sentiero di montagna: correre è popolare ed economico. In un Paese dove il reddito medio è di 1946 dollari all’anno, 176° posizione su 190 nel mondo per Pil pro capite, le attrezzature costano tanto, troppo, anche solo per poter immaginare investimenti in altri sport. E sebbene anche la storia di Abebe Bikila, il maratoneta scalzo della Maratona di Roma 1960, è un ricamo su una verità (l’oro olimpico aveva scarpe sponsorizzate Adidas, ma erano troppo piccole e gli avevano provocato una vescica), la corsa è sempre di più vista come il mezzo per uscire da una situazione di indigenza.


 

Ed è facile immaginare che ci voglia una buona dose di follia per aprire una palestra di boxe nel Paese delle maratone. Il pugilato è uno sport che, macinati 4000 km verso ovest, verso il Ghana, il Cameroon e la Nigeria, è fabbrica di campioni in tutte le categorie di peso, ma che nel corno d’Africa vive di pochi ricordi e poche speranze.


 



 

Ad Addis Abeba la storia della boxe è quasi unicamente Seifu Makonnen, una volta e mezzo partecipante alle Olimpiadi. Appena 19enne viene selezionato per le Olimpiadi di Monaco 1972, combattendo prima della partenza un match di esibizione e celebrazione davanti a 50mila persone. Ancora un mistero la presenza allo stadio di sua maestà l’Imperatore Selassie. In Germania è un mezzo successo, Makonnen arriva nono su 28 pugili. Ma è il 1976 il suo anno. Lo dicono tutti, bookmakers ed esperti: l’etiope è in odore di medaglia. A Montreal la sua strada verso un metallo viene interrotta da una polemica che viene dal Pacifico, Nuova Zelanda per la precisione. L’edizione olimpica della piccola città del Canada francese apre infatti la strada al periodo dei boicottaggi, che continua, seppur in modi e forme diverse, con Mosca 1980 e Los Angeles 1984. Gli "All Blacks" organizzano, poco prima dei giochi estivi del ’76, un tour in Sudafrica, che era stato interdetto dal comitato olimpico alla vigilia dell’edizione di Tokyo 1964 per il suo rifiuto nel condannare l’apartheid. Venticinque stati africani chiedono l’espulsione della squadra olimpica neozelandese, il CIO rifiuta. L’Etiopia ritira la squadra. Makonnen non vincerà più la sua medaglia.


 

Dall’Etiopia all’Italia e ritorno


Ad Addis Abeba, dietro Piazza Meskel, chiamata Piazza della Rivoluzione ai tempi del dittatore del Derg Meghistu, c’è un club. Lo Juventus club, struttura eretta durante i cinque anni di colonialismo fascista, funge da seconda ambasciata italiana. Qua, da più di 70 anni, la comunità italiana in Etiopia si riunisce. Un muro alto 4 metri divide due pezzi di storia etiope. Da una parte un raro retaggio architettonico fascista, dall’altra parte la piazza delle parate dove, dal 1974 al 1987, coordinati da una regia Nord coreana, i militari etiopi sfilavano davanti al leader del Partito e del Paese. E se un tempo gli immensi cartelloni eretti sopra il muro mostravano la gigantografia del dittatore Menghistu e quella del trio Marx-Engels-Lenin, adesso scarpe Adidas e Ethiopian airlines si competono lo spazio. Al circolo Juventus si trovano campi da calcetto, basket, pallavolo e, segregata in un’entrata posteriore, la palestra di Aldo Noce.


 

La Noce Boxing club è il primo circolo di pugilato privato nel Paese. «Il miglior pugile di sempre? Marvin Hagler!», sarà stata la fede dichiarata per la Sampdoria del pugile statunitense, oppure i celebri incontri con John Mugabe e Roberto Duran, ma il culto di Aldo per "The Marvelous" è profondo. «Ho dovuto usare Alì e Tyson sulle locandine per pubblicizzare la palestra perché fanno più presa sulle persone». All’entrata del club un timido foglio A4 invita a partecipare alle lezioni. Aldo Noce ha 43 anni, è un italo etiope che cinque anni fa ha deciso di lasciare l’Italia per ricominciare nella terra d’origine del padre, da cui se ne era andato una ventina di anni prima.


 



 

«Me ne sono andato nel 1991», la storia dell’allenatore di boxe comincia con la caduta di Menghistu. L’esperienza del Derg, la giunta militare che ha governato fino al 1987, aveva lasciato il posto ad un Governo, la Repubblica Democratica d’Etiopia, fotocopia del precedente assetto. Ma il potere di Menghistu si faceva sempre più debole. La resistenza si avvicinava alla capitale, mentre gli aiuti dall’Unione Sovietica, governata da Mikhail Gorbachov arrivavano sempre più con il contagocce. «Era una mattina di maggio, ricordo di essere uscito di casa e di aver sentito un botto proveniente dalla zona del Parlamento. Rientro a casa e tramite la radio sento la notizia della vittoria delle forze dell’EPDRF», il 21 maggio 1991 le forze di liberazione hanno il controllo dei palazzi governativi. Il resto è vendetta. «Sono rimasto 4 giorni, ma i colpi di arma da fuoco non cessavano, così l’ambasciata italiana mi ha contattato e proposto una via di uscita». Aldo, insieme ad altri italiani e italo-etiopi ha preso un aereo che da Addis Abeba l’avrebbe condotto a Djibouti e poi a Fiumicino.


 

«La boxe è arrivata tardi, a 14 anni grazie ad un amico di Roma». La storia di Aldo in Italia si divide in due capitoli, il primo nella capitale, il secondo a Vercelli: «Ma è stato in Piemonte che ho cominciato a nutrire una vera passione per il pugilato». Dal traffico romano alle risaie di Vercelli, Aldo si è autocatapultato nella provincia italiana, “Ero solo, lontano da tutti quelli che conoscevo, in una realtà minuscola, quindi la palestra è diventata un punto di riferimento”. Ad inserirlo è stato il cugino, a coltivarlo «il mio maestro Gianni Caccavo, della Boxe club Vercelli, più un padre e un amico che un allenatore». L’esordio sul ring dell’italo-etiope corrisponde alla prima vittoria del Boxing club Vercelli, appena nato. Da lì continuerà la sua carriera di pugile amatore con 25 incontri, 9 vinti, 7 persi e 9 pareggi.


 

L’idea di tornare in Etiopia gli viene nel 2013, dopo un anno di cassa integrazione: «Mi consideravano un pazzo. Mi hanno chiesto come potevo lasciare l’Italia per Addis Abeba senza un piano, ma io un piano ce l’avevo. Aprire la mia palestra».


 

Insegnare box a Addis Abeba


Quattro muri arancioni e blu, due armadietti e sette sacconi: «All’inizio ho cominciato con uno solo, regalato dalla mia matrigna, e un paio di guantoni che mi ero portato dall’Italia». La federazione di boxe etiope non è messa meglio, gli altri sei circoli di Addis Abeba mancano di attrezzatura e per trovare un ring regolare si deve andare nella palestra della Federazione: «Costa tutto troppo. Ci sono i dazi alla frontiera, portare dall’Italia attrezzatura diventa impossibile. Ad un sacco che costa 300 Euro vengono aggiunte penali per 1200».


 



 

Vuoi per il retaggio storico comunista, vuoi per la spesa, fino al 2013 l’universo pugilistico etiope era dominato solo da club legati ai circoli dell’esercito. Il Noce boxing club ha rotto l’egemonia, «C’è voluto un anno per ottenere le autorizzazioni dalla Federazione, è stato più complicato di un incontro».


 

Aldo porta il primo pugile etiope non legato a forze dell’esercito o della polizia a disputare un incontro ufficiale nel maggio 2017. «L’emozione provata a stare all’angolo è stata pari solo a quella del mio primo incontro», Aldo è orgoglioso nel mostrare il video del match. Nesredin ha 19 anni, di fronte a lui c’è un boxer con più di 20 incontri. In Etiopia non c’è obbligo di avere un cartellino che documenta i match disputati, ci si deve fidare della palestra avversaria: «Ti promettono che portano un esordiente a combattere, ma magicamente ti trovi davanti un boxer fatto e finito». Ma il ragazzo di Aldo non si fa spaventare, nessun timore referenziale, il 19enne picchia duro e porta due montanti in faccia all’avversario. «All’angolo, durante le pause, neanche mi ascoltava, guardava dall’altra parte come fosse stato in catalessi». Nesredin perderà l’incontro ai punti. Poco importa, il risultato è comunque un successo: non cade e dimostra di avere la forza mentale per stare sul ring.


 

«Se non fosse stato per Aldo che mi ha accolto nella sua palestra, ora non sarei un boxer, non avrei trovato un lavoro e probabilmente sarei per strada come molti dei ragazzi che conosco del mio quartiere», Nesredin ha appena finito l’allenamento. Sudato e seduto in un angolo trasmette il senso della boxe ad Addis: «È l’unico posto che mi dà serenità e felicità».


 

La Noce boxing Club è aperta tutti, e con tutti si intende anche coloro che non possono permettersi la rata: «Il progetto è quello di portare sempre più ragazzi di strada al circolo. Secondo me il pugilato aiuta a darti una direzione, o almeno con me ha funzionato». E di una direzione ad Addis c’è bisogno. Secondo Unicef, nel 2012, 60mila ragazzi vivevano per strada, mentre oggi il dato potrebbe essere sensibilmente più alto.


 



 

Nella città dei contrasti, le baraccopoli convivono con le ville recintate a filo spinato. Silenziosamente, anno dopo anno, Addis Abeba si modifica, estromettendo progressivamente gli strati più poveri dal centro della città. E mentre gli affitti salgono, la richiesta rimane immutata. Ad Addis Abeba si vive il curioso caso della crescita squilibrata. Nel Paese gli investimenti esteri, soprattutto cinesi, piovono. Il Pil cavalca al +10,7%, dato 2016, mentre l’indice della corruzione posiziona l’Etiopia al 107° posto al mondo e la disoccupazione tocca il 17%: «La cosa più brutta in questo momento nel mondo, non solo qua, è l’egoismo. Credetemi, l’egoismo è il peggiore dei mali».


 

Aldo paga l’80% dei costi della palestra con il suo lavoro di imbianchino: «Quando ho portato il mio ragazzo a combattere, un mese prima ho dovuto fargli fare del Power training. Io non ho pesi al club, e poi ho dovuto affiancargli una dieta specifica. Vi dico solo che per due o tre giorni non ho mangiato che pane e latte. È stata tosta». Aldo raccoglie le ultime attrezzature, torna a casa, dove l’aspetta la moglie incinta di 7 mesi.


 

«Spero che mio figlio porti avanti l’idea di suo padre, non mi riferisco solo alla boxe, ma all’aiutare il prossimo. Se ognuno di noi facesse qualcosa per gli altri, molti dei problemi del mondo si potrebbero risolvere». Aldo spegne la luce della palestra e chiude la porta. La giornata è finita.


 



 

 

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