
I ragazzi iniziano ad arrivare a scaglioni, da soli, in piccoli gruppi da tre, su e giù per le scale, facendole tremare ogni volta. Salgono e scendono in agitazione, non vedono l’ora di uscire dal campo e andare a vedere un ring vero. Forse anche senza tutta questa agitazione le scale avrebbero tremato lo stesso. Viene richiesto loro uno sforzo insostenibile: sostenere un palazzo senza fondamenta, che di anno in anno si sviluppa in altezza, come tutti quelli attorno.
Shatila è un campo profughi palestinese, a Beirut. Senza tende, ma con palazzi e fogne a cielo aperto. Senza acqua potabile e con i fili della corrente ingarbugliati attaccati ovunque. I palazzi sembrano sostenersi a vicenda, così come le persone, non ho mai visto nessuno da solo qui. C’è pochissima luce, nelle giornate di sole e in quelle di pioggia, quando è troppo rischioso riattaccare la corrente.
Il viaggio verso Shatila fa parte di un progetto più ampio, una rete di sport popolare a sostegno del popolo palestinese in Libano e a Gaza, Sport Beats Borders. Noi siamo partiti come gruppo di boxe popolare da Bologna, dalla Palestra Popolare TPO, per conoscere la realtà che Captain Majdi ha tirato su fra le quattro mura di casa. Non siamo i primi occidentali a mettere piede al Palestine Youth Center, ce ne rendiamo conto dalla naturalezza con cui Majdi ci accoglie. Il centro culturale e sportivo da lui fondato, al terzo piano della palazzina che ha costruito al posto della tenda dei suoi genitori, montata nel 1949 subito dopo la nakba (l’esodo del popolo palestinese nei Paesi vicini a seguito della fondazione dello Stato di Israele), è un luogo accogliente e sempre pieno di attività: basket femminile, boxe maschile, calcio maschile, corsi di inglese e disegno. Ognuno passa e lascia un segno, dà vita a qualcosa.
Con Luisa, Fabio e Diego facciamo il nostro ingresso nel campo accompagnate dall’esperto, per non perderci tra le strade o dare adito a sospetti. Il dentro e il fuori in realtà non è chiarissimo, un po’ per via dell’espansione abitativa che caratterizza questo campo, un po’ perché non ci sono vere barriere fisiche. Eppure nessun libanese sembra conoscerlo: i taxi ci chiedono più volte conferma che l’indirizzo sia giusto, per poi lasciarci a dovuta distanza e tornare indietro velocemente.
Nell’attesa di uscire mi sono sporta più volte dalle scale verso la strada - trambusto di gente, animali, carretti ovunque. Qualsiasi gattino appena trovato diventa la star del quartiere, attrae decine e decine di bambini attorno a lui. A volte Shatila sembra un luogo abitato solo da bambini. Ce ne sono tantissimi in strada, sempre indaffarati con qualcosa, qualche nuovo animale da accudire o un turista da inseguire, come noi. Ogni ingresso a Shatila è così. “hello” “give me five” “from where are you” “hello” “ciao” “Italy!”. Tanti visetti zompanti attorno a noi.

Quando ci sono tutti, ci si arma di guantoni, caschetti e paradenti e giù di nuovo per le scale. Si fa a gara tra chi vuole portare i sacchi pieni di guantoni da pugilato e chi vuole farci da Cicerone nel campo di Shatila. Ci portano in giro orgogliosi, glielo si legge in faccia: orgogliosi di mostrare ad amici, parenti e sconosciuti in giro per il mercato di Sabra, che noi, gli stranieri che fanno boxe, stiamo lì con loro. Camminiamo con gli adesivi della Palestra appiccicati in fronte, sul borsone o sulla maglietta. Per la prima volta ci muoviamo fuori dal centro come una squadra.
Siamo dirette fuori dal campo. È la prima volta che usciamo con loro, che lo attraversiamo da una parte all’altra, salendo per i vicoli di Sabra per ritrovarci subito davanti allo stadio di Beirut. È impressionante quanto sia facile uscire da lì, eppure gli abitanti di Sabra e Shatila raramente lo fanno. Non ci sono check point, nessun controllo militare all’ingresso. Basta attraversare una strada. Purtroppo è evidente anche a noi, nonostante i pochi giorni trascorsi nel campo, che quella strada è molto di più di una barriera fisica. È una linea demarcata e solida che la società libanese ha delineato tra loro e i palestinesi di Shatila. Non si esce, non ci sono molti motivi per farlo. Non puoi lavorare, non puoi acquistare una casa, non puoi andare a scuola con i libanesi. E quindi a che servirebbe uscire? Una prigione che viene alimentata da pregiudizi dall’esterno e che si autoalimenta del sentimento di comunità dall’interno.
Noi, però, siamo uscite, tutte insieme. Certo, non ci siamo allontanate troppo perché, appunto, il grande stadio libanese è proprio lì, a pochi metri. Dentro c’è una palestra di boxe con un ring. Sembra scontato ma da quelle parti non lo è. La palestra del Palestine Youth Center, dentro Shatila, ha a stento quattro sacchi appesi al soffitto. Cosa può significare per dei giovani pugili vedere un ring vero per la prima volta, farci uno sparring?
Un’altra questione è cosa significa praticare uno sport da combattimento, spesso inteso come meramente violento, in un contesto violento: ne abbiamo parlato con Majdi sin dalle videochiamate di preparazione al viaggio, per chiarire gli intenti, le modalità e gli scopi. Lui è molto titubante e non ne fa mistero. Ha deciso di aprire le porte alla boxe nel centro che gestisce, ma è sempre sull’attenti.
In fondo noi ci alleniamo per star bene, con rispetto, e senza prevaricazione. Per confrontarci e conoscere. E questo è lo spirito che, credo, abbiano anche i maestri palestinesi. Per chi è nato e cresciuto qui, ovviamente, è tutto diverso. Nessuna di noi immaginerebbe nemmeno di potersi allenare per andare in guerra, nessuna di noi penserebbe mai di arruolarsi in un gruppo paramilitare. Ma questo succede. Majdi ha già visto molti ragazzi fare questa scelta e la sua preoccupazione è che la boxe li spinga a fare l’ultimo passo. È sincero quando ce lo confessa, ma coltiva anche una grande speranza per questo sport, così come lo intendiamo noi, popolare, una alternativa alla violenza reale e un canale di sfogo e apprendimento per i ragazzi, dove non si abbatte nessuno, non si deride chi perde e si combatte insieme, non contro l’altro.
A dimostrazione di ciò, abbiamo chiesto a Mohammad - che collabora con la Federazione Pugilistica Libanese - di organizzare un allenamento condiviso tra i ragazzi di Shatila e il corso fuori. Non è facile per lui, perché il ruolo che ricopre è del tutto informale, dato che la federazione, così come il Libano d'altronde, non riconosce a un pugile palestinese alcuna possibilità di carriera.
Nonostante gli accordi presi preventivamente con l’allenatore ufficiale della palestra libanese, siamo fermi da mezz’ora all’ingresso senza capire molto. Mancano dei documenti, non si può entrare senza, qualcosa del genere. Dopo un po’ ci fanno entrare tutti. Majdi, i ragazzi e i due Mohammad hanno atteso e mediato con i militari all’ingresso con calma e pacatezza, tutto nella norma per loro.
Siamo dentro un enorme stadio abbandonato, se non fosse per quella piccola palestra di boxe nei sotterranei, con un ring vero. Si parte subito a scattare foto intorno, seduti sul ring o dentro, rigorosamente in posa. Foto di cui andare orgogliosi.
Salta la corrente. Normalissimo in Libano. Non esiste quasi più una rete nazionale di elettricità, ogni edificio ha il proprio generatore, più o meno potente. Nel buio penso alle contraddizioni di questo posto. Chi può addirittura permettersi dei lussi fuori di qua e chi muore nel riattaccare la luce nel campo quando piove. Lo stadio vuoto e la palestra di Shatila sempre affollata. Il privilegio dei pugili libanesi e i certificati luccicanti che abbiamo preparato e consegnato ai pugili palestinesi, come prova che la loro professione vale almeno per noi e fuori dal Libano, e le condizioni in cui sono costretti a praticare questo sport chi vive qui.
Nonostante gli innumerevoli tentativi l'illuminazione non riparte. Bello il ring, ma per troppo poco. All’interno della palestra non si vede nulla senza luce e ci tocca uscire fuori per allenarci, nel piazzale, sotto gli spalti dello stadio.

I ragazzi del campo sembrano comunque molto felici di potersi confrontare per la prima volta con qualcuno che si allena fuori da Shatila. Soprattutto: sembrano già abituati a vedere uno sparring misto tra uomo e donna. Il momento della suddivisione in coppie è sempre divertente, uno scambio di sguardi per vedere chi fa il primo passo verso l’altra. Luisa ed io ci ritroviamo spesso obbligate a fare sparring insieme ma oggi abbiamo deciso che andrà diversamente. Io vado a rompere una coppia di ragazzini e sfido uno di loro a fare sparring con me. Luisa fa lo stesso ma con uno degli allenatori, che hanno già preso un po’ di confidenza con noi. Stiamo per superare quella barriera culturale che fino a quel momento non ci aveva nemmeno fatti sfiorare. Sono giorni che ci proviamo, ma si allontanano tutti con una mano al petto: nessun contatto. La boxe, con le sue regole, ci permette di distruggere queste convenzioni. Certo, non è facile: chi dovrà mettere il caschetto a Luisa? Mohammad stava per farlo ma appena si è ricordato della regola, ha chiamato me. Ci scappa una risata, qualche battuta. I capelli non si toccano, ma due bei colpi al tronco ci stanno tutti.
Essere una donna qui, a praticare uno sport per molti inusuale anche in Europa, è più una soddisfazione che un limite. Il Palestine Youth Center è per lo più composto da ragazzi per quanto riguarda il corso di boxe, e da ragazze per quello di basket, ma i due gruppi adesso si mischiano. Alcune ragazze vengono ad allenarsi provando la boxe, indossando per la prima volta dei guanti. Sono state incoraggiate da Majdi, certo, ma credo che in fondo lo volessero davvero.
Alla mia presenza e a quella della maestra Luisa, nessuno dei ragazzi si scompone, i loro allenatori a volte sì. I primi riconoscono la sua autorità, non si fanno problemi a stringerci la mano. Forse sono ancora giovani per mettere troppa distanza, forse prevale la curiosità. In Italia ho notato che si fa una certa fatica a riconoscere la competenza di un’allenatrice donna in questo sport, a Shatila questa regola mi sembra capovolta.
Nello sport popolare, nessuno chiede la carta d'identità, nessuno viene escluso per motivi razziali, di genere, economici e culturali. È una realtà che condividono tutti i progetti di questo tipo. Uno sport di tutte, per e con tutte, per corpi non conformi, eterogenei e fuori dagli standard sportivi. Lo scrivo qui ma a Shatila non c’è stato bisogno di ripeterlo.
Al di là di ciò che ci accomuna, i limiti del contesto rimangono - limiti che spesso sono spari, granate e mitragliatrici. Noi quattro già con i primi spari del giorno precedente avevamo iniziato a sentirci tese, oggi qui ancora di più. Lo stadio fa questo brutto effetto di rimbombo, che avvicina ancor più questi suoni così potenti. Siamo riuscite a rimanere tranquille solo perché non volevamo rovinare quel momento di gioia ai ragazzi che, forse fingendo, non si sono accorti di nulla. Per loro uno sparo è un suono come un altro, o almeno non è il primo nella loro vita da adolescenti e bambini. Chissà se a queste cose ci si abitua davvero.
Shatila è anche questo, un mondo che guardi e ascolti con la coda dell'occhio, riuscendo a farti soffermare sull'odore del tè, sui negozietti gremiti di gente seduta a chiacchierare. Siamo venute anche per questo: comprendere qualcosa di più sul popolo palestinese, che in gran parte resiste anche qui, emarginato nei campi profughi dei Paesi confinanti con i territori occupati. Noi ci siamo state solo una settimana, ma mi è sembrato uno dei covi di solidarietà più intenso che abbia mai visto.

Quando l’allenamento è finito ognuno prende la sua strada: noi verso l’hotel, al centro di Beirut; loro verso Shatila, con i rumori di sottofondo che nessuno vuole sentire.
Da quando siamo rientrati la situazione è diventata ancora più difficile da spiegare. Se prima la situazione di Shatila era inaccettabile adesso come si può definire? Beirut è stata più volte bombardata da Israele, il campo e la sua vitalità sono state azzerate. Abbiamo chiamato Majdi, preoccupate, la sua voce mi sembra diversa. Ci dice che la sua famiglia è tornata in Siria, da dove viene sua moglie, ma che lui rimane lì. «E se succede qualcosa, hai un posto dove andare?», gli chiedo. Mi dice: «Io rimango qui».
In Libano inizia a mancare tutto e i prezzi sono altissimi. Le strade sono vuote, tutti hanno paura, i bombardamenti di Israele ormai sono diventati quotidiani. I missili rompono la barriera del suono ogni giorno. Resistenza, speranza, adattamento d’ora in poi saranno beni ancora più preziosi.