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Tommaso Giagni
Borja Valero, diverso in tutto
24 ago 2021
24 ago 2021
Storia di un calciatore unico.
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Tommaso Giagni
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Jeffrey “Drugo” Lebowski è il personaggio di culto di un film che ruota intorno a lui e uscì nel 1998, quando l'adolescente Borja Valero Iglesias era già da un paio d'anni nel settore giovanile del club dei suoi sogni. Oltre trent'anni dopo, quello che a Firenze chiamano “il Sindaco” e intorno al quale diverse squadre hanno ruotato, gioca per una squadra che nello stemma ha la grossa faccia di Drugo con gli occhiali scuri. Questa, intorno a lui ruoterà senza dubbio: si chiama Centro Storico Lebowski 2010, è di Firenze, gioca in Promozione, ed è una realtà diversa dal resto almeno quant'è diverso lui.


 

Borja Valero è cresciuto in un quartiere povero, nella Madrid dov'è nato il 12 gennaio 1985. Quando sbarcò con la compagna di vita a Maiorca, dove sarebbe poi esploso nel calcio professionistico e gli ingaggi sarebbero cambiati, proveniva da stipendi nelle giovanili che non gli permettevano nulla. Bucarono, appena arrivati, e non avevano abbastanza soldi per cambiare le gomme. Un'altra cosa che non gli piace del calcio che ha intorno è l'eccessivo farsi vanto dei soldi.


 

Difficile che cada nelle banalità, a radunare le sue interviste degli anni. “Calciatore fuori dal coro” nelle parole della sua compagna, Rocio. Che per lui ha smesso di fare la giornalista sportiva (scriveva su una testata prestigiosa come «As») per evitare conflitti d'interesse. È spesso pronto a prendere posizioni non ovvie, Borja Valero, magari in attrito con l'ambiente. A polemizzare con l'attenzione che molti calciatori dirigono agli scarpini e alla pettinatura prima che al calcio. A sottolineare amareggiato la quantità di sciocchezze che riempie gran parte del giornalismo sportivo e che nutre il suo pubblico. A dire frasi come: “Bisognerebbe smettere di trattare i calciatori da star, il nostro mestiere va demistificato”.


 

Società Cooperativa Sportiva Dilettantistica. Azionariato popolare, il più consistente caso in Italia. Dai tifosi per i tifosi. Dal basso, intorno a valori di inclusione, ben lontano da un calcio di profitto e speculazione. Ben lontano dal vivaio di uno dei maggiori club al mondo, il Real Madrid, che si chiama “La Fábrica” perché forgia calciatori come prodotti, e dove la storia calcistica di Borja Valero era cominciata. Accettare l'offerta del Centro Storico Lebowski, firmare il contratto e prepararsi a vestire i colori grigio-neri, ha chiaramente un rilievo politico: riguarda – più che un'idea di sport – un'idea di società.


 




 

A cinque anni, partendo dal quartiere nord di Hortaleza, lo stesso della leggenda del calcio spagnolo Luis Aragonés, Borja Valero percorreva un breve tratto di città con suo padre, a bordo del bus 107, per raggiungere il Bernabéu e guardare dal vivo il Real Madrid. Non ha mai giocato su quel campo con la maglia bianca. E nonostante le delusioni che ha ricevuto dalla società, ha continuato a tifare la squadra dell'infanzia. Nel 2015 diceva che il Real e qualche rara partita di Premier League era tutto il calcio che guardava in tv. “Non amo molto il calcio. Amo giocare a calcio, che è un'altra cosa”.


 

Diverso. Tanto per come esprime le opinioni, quanto per il corpo: magro, piccolo, non propriamente da atleta del Ventunesimo secolo. Il corpo non si direbbe un'ossessione, forse la tensione alla perfezione sì: riconosceva di non temere tanto gli infortuni, quanto una brutta figura in uno stadio pieno. Infortunarsi gli è capitato di rado ma le sue considerazioni vanno ben oltre: “Siamo così piccoli in questa vita che ci hanno dato, puoi andartene in un attimo...”.


 

Sembrava quasi fare un altro sport da chi gli correva intorno, rispondere a un rapporto diverso con lo spazio. In realtà il suo isolamento apparente aveva molto a che fare col gioco collettivo. Lui la metteva così: “Non sono un giocatore capace di cambiare da solo il senso di una partita. Non ho un dribbling letale, non ho un fisico statuario, né la velocità. Io per dare il meglio ho bisogno della squadra”.


 

La stessa estraneità emergeva nel rapporto col tempo: i suoi ritmi, la sua andatura, erano più compassati di quelli della maggior parte di compagni e avversari. Nel centro del campo è stato una specie di motore immobile, una piccola divinità che concentrava in sé un'intelligenza in grado di spostare le cose. Eppure l'uso che ha fatto del piede nella sua interezza, adeguandosi a qualunque necessità del momento, rivelava che la testa poteva correre veloce il doppio.


 

Sul giocare semplice, una volta ha usato una bella espressione: “È la cosa più difficile, anche se non so fare altro”.


 




 

“Ho scoperto la paura quando ero già grande”. Già padre, anche, già da quasi dieci in un mondo complesso come il calcio professionistico. È stata la malattia della madre nel 2012 a portare la scoperta. Dalla sua morte sono poi discese su di lui due paure permanenti: “Invecchiare senza essermi goduto abbastanza la vita, e che possa succedere qualcosa ai miei figli”.


 

Aveva però già conosciuto la depressione. A Villarreal, per due settimane non ce l'aveva fatta fisicamente a uscire di casa. Era un calciatore affermato, un uomo privilegiato sotto tutti gli aspetti visibili, eppure.


 

Possiamo individuare i colpi subiti dal calciatore, dove non possiamo raggiungere l'uomo. L'esperienza al Real Madrid è stata bruciante, come succede quando si sfiora un sogno d'infanzia e all'improvviso lo si ritrova lontano. Era arrivato nel club a undici anni, aveva percorso la trafila delle giovanili e su, fino alla prima squadra. L'ingresso al centro di formazione della Fábrica aveva rappresentato per lui una soglia: di qua il calcio come finestra di spensieratezza, di là non più. Un rinuncia di cui dev'essersi accorto davvero solo da adulto. In quegli anni, sotto i suoi occhi era stata scartata la gran parte degli oltre trecento compagni: “Li vedevi partire con lo zaino dall'oggi al domani. Gente che ha sacrificato l'adolescenza per niente”.


 

In prima squadra giocò due volte, nel 2006/07. Spezzoni. Mezz'ora di una trasferta in coppa del Re contro l'Écija. Sedici minuti nel gelo di Kiev, a dicembre, nell'ultima gara di un girone di Champions League già superato. Mai in campionato, mai al Bernabéu. Si ritrovò a condividere lo spogliatoio con uno dei suoi idoli, Zinedine Zidane, che lo metteva in una soggezione tale da non riuscire nemmeno a rivolgergli la parola.


 

Borja Valero trascorse quell'anno in pianta stabile nel Real Madrid Castilla, in Segunda División, finendo per retrocedere insieme a compagni come Juan Mata e Callejón, Negredo e Dani Parejo. Parallelamente la prima squadra vinse la Liga, e nella stessa estate lo cedette a titolo definitivo, al Maiorca.


 

Verrà con i colori rossoneri l'esordio nello stadio che raggiungeva con suo padre. Nella gara di ritorno, sull'isola dove aveva trovato finalmente fiducia, Borja Valero trovò uno dei suoi rari gol: un bel tiro a giro che tolse la vittoria al Real Madrid, e dopo il quale esultò senza ipocrisie.


 




 

Fuori dal calcio l'idolo è Michael Jordan. Cita come momento cruciale per la sua formazione sportiva il tiro contro Utah nelle Finals 1998, a cinque secondi e rotti dalla fine della gara e della carriera con i Bulls. La calma nella frenesia, la testa per restare lucido mentre il mondo ti trema attorno. Vedere l'NBA in tv lo appassiona più di quanto riesca a fare il calcio. Da ragazzino giocava da playmaker (“Mi hanno sempre fregato i centimetri”). E al basket sembra rifarsi la dieta a basso contenuto di carboidrati a cui ha sottoposto il suo fisico trentenne, come ha notato Angelo Ricciardi, sacrificando massa muscolare per guadagnare fluidità.


 

In quel gesto di Jordan, doveva riconoscere la propria pazienza, Borja Valero, appassionato di puzzle. A ridosso di un'importantissima semifinale di Europa League, studiando la sua tranquillità, il viceallenatore del Villarreal gli chiese se stesse andando a fare una passeggiata al parco oppure una partita di quel livello. Appassionato pure di golf, a proposito di pazienza: uno sport dove “appena ti accorgi di migliorare anche solo un po' ti prende una specie di esaltazione” spiega, “ma forse è di più: è quasi gioia”.


 

La pazienza ha riempito il suo rapporto con la nazionale spagnola. Un'attesa faticosa, che non ha avuto un lieto fine. Un'attesa tardiva, pure: ancora nel 2009, a ventiquattro anni, dichiarava di vedere la maglia Roja “molto lontana, per non dire impossibile”. Poco dopo, la sua crescita ha ridotto la distanza fino a fargli toccare la possibilità. Borja Valero si è trovato a essere un ottimo centrocampista nell'età dell'oro dei centrocampisti spagnoli. Ma con l'oggettività e la razionalità ci si fa poco, di fronte al desiderio, all'ambizione.


 

Il debutto è arrivato il 4 giugno 2011, in un contesto surreale: uno stadio sperduto nel Massachussetts, un'amichevole contro gli Stati Uniti. Il primo tempo aveva già segnato la gara, 0-3 per la Spagna. Borja Valero ha fatto il suo ingresso in tempo per giocare venticinque mnuti, servire un assist per il quarto gol. Ed è tutto.


 

Poi, l'attesa e la pazienza. Leggeva la lista dei convocati “con un po' d'ansia”, sperando di vedere il suo nome tra gli altri. Ha continuato a sperarci a lungo, poi si è rassegnato: ha capito che più dello stato di forma, sulle scelte dei CT pesava l'anagrafe. E che non per tutti i giocatori, pesava. Quando la Nazionale italiana ha tastato il terreno per convocarlo come oriundo, lui ha preferito lasciar perdere – non era quella la maglia che voleva indossare.


 




 

Di sicuro non è stato un giocatore normale. È stato un giocatore di culto, ma non soltanto. Qua e là ci sono tracce lungo il suo percorso che confermano con oggettività quello che l'amore dei tifosi, la fascinazione per il carisma, l'incanto per l'eleganza, hanno sempre creduto. Il fatto è che viene difficile mettere una distanza da Borja Valero. Per dirla ancora con Ricciardi, la dimensione umana del suo calcio è andata oltre il suo essere, o sembrare, “non abbastanza”.


 

Nei minuti di recupero, in un tardo pomeriggio estivo del 2004, al limite dell'area, si libera di un avversario con un dribbling, poi da una posizione defilata colpisce il pallone con un tocco sotto e lo osserva scavalcare con dolcezza il portiere. La finale Under 19 a reti inviolate tra Spagna e Turchia la sblocca lui, appena entrato. Uno dei meno attesi in quella nazionale fortissima – che schiera Sergio Ramos e David Silva, per dire. Borja Valero ha diciannove anni, viene sommerso dai compagni, e non sa che quello sarà l'unico trofeo internazionale della sua vita.


 

Nella stagione 2009/10 riceve il Don Balón come miglior calciatore spagnolo, pur giocando in un club, il Maiorca, che si era classificato – e sorprendentemente – quinto. Un premio prestigioso che non avrebbe avuto edizioni successive ma veniva assegnato dagli anni Settanta.


 

La stagione precedente era stata, e sarebbe poi rimasta, un'anomalia nella sua carriera. Il West Bromwich Albion, neopromosso in Premier League, aveva deciso di fare di Borja Valero l'acquisto più caro della sua storia. Lui che le attenzioni aveva dovuto sudarsele, a una pressione del genere non era abituato. Aveva così lasciato l'isola di Maiorca, dove si era imposto nel calcio professionistico, e dove aveva imparato tanto da un compagno come Ariel Ibagaza. In Inghilterra non era andata bene, aveva scoperto che le isole non sono tutte uguali, la squadra era retrocessa.


 




 

Si è sempre sentito felice, amato, nella città che definisce piccola, bella e “culturalmente affascinante”, dove al papa che viene in visita si domanda lo Scudetto prima che la salute. A Firenze ha guadagnato, lo dicevamo, il soprannome di “Sindaco”. Lo scorso maggio il sindaco vero, Dario Nardella, gli ha messo al collo la fascia tricolore col giglio. Il livello è questo, in una città dove i simboli contano e dove onori simili non vengono dati agevolmente. Un'altra fascia, quella da capitano, Borja Valero l'ha portata più di una volta – la prima, nel 2013.


 

Sei stagioni, 233 presenze. Non ha vinto ma di traguardi ce ne sono stati. Una finale di Coppa Italia, una semifinale di Europa League, un breve e sorprendente primato nel campionato 2015/16 – quasi vent'anni dopo l'ultima volta, ma quella era la Fiorentina di Batistuta e Rui Costa. E i gesti, poi. Come quando i tifosi andarono sotto casa per ringraziarlo del tempo insieme, con le torce e i cori, mentre lui commosso salutava da una finestra stranamente piccola, poco prima di trasferirsi all'Inter.


 

Firenze gli ha dato un orizzonte e una casa, in qualche modo a compensare ciò che Madrid gli aveva sottratto. È evidente che non gli sia successo con nessuna altra piazza. E che non ci sia nessun debito e nessun credito in questa storia: lo scambio è stato felice e in equilibrio. Pur avendo fatto parte di un periodo non brillantissimo nella storia della Fiorentina, ha un posto nel pantheon del club come riesce solo a figure di spessore umano oltre che tecnico.


 

Voleva chiudere la carriera a Firenze e lo ha fatto, da professionista. Prima che Firenze gli offrisse un nuovo orizzonte e una nuova casa.


 




 

Nell'autunno del 2014, confidava: “Invecchiare dev'essere dura, un po' mi spaventa”. Ma sosteneva anche di vederne i lati positivi, parlava della maturità come di un patrimonio.


 

Il passaggio all'Inter, quelle tre stagioni in cui ha potuto finalmente giocare la Champions League, in cui ha lottato per le posizioni di vertice con una presenza laterale ma indiscussa, hanno aperto una fase nuova nella sua rappresentazione. Una fase che ha avuto nel ritorno alla Fiorentina il suo coronamento. Era il Borja Valero a fine carriera, più saggio che mai, con la barba lunga e l'aura romantica, che dispensava palloni come consigli. Il Borja Valero dai trentadue anni ai trentasei, quello che imboccava con stile il viale del tramonto calcistico.


 

Eravamo pronti insomma, tutto sommato, a ciò che è successo nelle ultime settimane. Di sicuro al ritiro dal professionismo, probabilmente anche all'annuncio di un futuro prossimo da commentatore tv. La scelta del progetto Lebowski invece era difficile prevederla. Ma la si può capire, a posteriori, come qualcosa che riguarda la capacità di vedere un varco che altri non avrebbero visto. Uno scambio felice e in equilibrio, un altro.


 

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