
Quando arriva davanti ai microfoni di Radio Serie A, Riccardo Orsolini ha l’aria stanca e soddisfatta di chi potrebbe farsi la migliore dormita della propria vita, ma ad attenderlo c’è una lunga notte di festeggiamenti. Il Bologna ha appena conquistato la sua terza Coppa Italia e gli occhi di Orsolini si fanno un po’ lucidi quando ricorda Sinisa Mihajlovic: «Penso che questa coppa sia un po’ tutti di tutti: chi è passato da questa squadra, chi è rimasto, chi è andato via, chi purtroppo non c’è più. Volevo dedicare anche un pensiero a Sini, perché penso che un pezzettino di coppa sia anche suo».
Quando nel febbraio 2019 Mihajlovic ha sostituito in corsa Filippo Inzaghi, il Bologna era diciottesimo con appena 2 vittorie in 21 partite giocate e iniziava a prendere forma lo spauracchio della retrocessione. Ritornare in Serie B al quinto anno della sua presidenza avrebbe reso a Saputo difficile, se non impossibile, mantenere la promessa fatta ai tifosi di arrivare in Europa entro dieci anni.
Ma dopo 8 vittorie in 16 partite la squadra di Mihajlovic arrivava all’Olimpico con la possibilità di assicurarsi la salvezza aritmetica alla penultima giornata. Era la sera del 20 maggio 2019 e sulla panchina della Lazio sedeva il fratello di Filippo, il non ancora demoniaco Simone Inzaghi. Dopo il vantaggio di Correa, che aveva pietrificato Danilo con un primo controllo di tacco su un filtrante di Lucas Leiva, a inizio secondo tempo il Bologna era riuscito a ribaltare il risultato. Prima con un inserimento in area, protezione del pallone e proverbiale scaldabagno sul primo palo di Poli, poi con un gol di Mattia Destro, inatteso protagonista di quel finale di stagione.
Scriveva Daniele Manusia del gol segnato al Bologna due anni dopo, quando Destro vestiva la maglia del Genoa: per certi poeti la disperazione e l’amore si fondono in ogni parola, in ogni gesto, la vita come opera d’arte, ed è l’impossibilità stessa dell’amore, la crudeltà del tradimento, ad alimentare la loro vena poetica. Aveva esultato gridando e togliendosi la maglia, proprio come aveva fatto dopo il gol alla Lazio. Forse in quel caso erano state le ripetute panchine a cui l’aveva costretto Filippo Inzaghi ad alimentare la sua poesia, a far sì che si trovasse perfettamente posizionato in mezzo a quattro difensori, pronto a deviare al volo con l’esterno la sponda di testa di Palacio. Destro è corso ad abbracciare Mihajlovic sotto la pioggia battente dell’Olimpico, e c’è una foto in cui sta per saltargli addosso con l’entusiasmo di un bambino che vuole salire in braccio al padre.

È stato l’ultimo gol segnato da Destro con la maglia del Bologna, forse il più importante di tutti. Poi un tiro a giro di Bastos, una girata al volo di un imberbe Orsolini sugli sviluppi di un calcio d’angolo e una splendida punizione da fuori area di Milinković-Savić hanno fissato il punteggio sul 3-3, ufficializzando la salvezza del Bologna.
Ragionare con il senno di poi porta spesso a conclusioni parziali e rischia di sovrastimare l’importanza di alcuni eventi a discapito di altri. Eppure non è così assurdo pensare che quella partita di 6 anni fa sia stata uno degli snodi decisivi nel percorso che ha riportato il Bologna a sollevare la Coppa Italia dopo 51 anni, nello stesso stadio e con un gol segnato nella stessa porta di quelli di Poli, Destro e Orsolini.
Lo stesso Orsolini, che con un suo taglio ha propiziato il gol di Ndoye in finale e negli ultimi anni ha trascinato il Bologna con l’intensità e doti realizzative sempre più affidabili (in doppia cifra nelle ultime 3 stagioni e con più gol in Serie A di ogni altro calciatore italiano), è stato riscattato a titolo definitivo dalla Juventus solo a luglio 2019; operazione che, è facile immaginare, sarebbe naufragata in caso di retrocessione.
Magari un Bologna in Serie B avrebbe dovuto fare a meno anche di Skorupski, acquistato dalla Roma proprio all’inizio della stagione 2018/19 e oggi il secondo straniero per presenze con la maglia rossoblù. Il portiere polacco è stato decisivo nella più grande occasione da gol avuta dal Milan in finale, con un doppio salvataggio sul quasi autogol di Beukema e sulla respinta di Jovic.
Orsolini e Skorupski sono gli unici, tra i calciatori che erano in rosa il 20 maggio 2019, a fare ancora parte del Bologna. In questi sei anni il mondo del calcio (purtroppo non solo quello) è cambiato molto - gli stadi vuoti durante la pandemia, la quasi nascita della Superlega, la nascita della Conference League, i mondiali invernali in Qatar, la nuova Champions League - e nel Bologna si sono susseguiti giocatori, allenatori e direttori sportivi. Per diversi anni l'ambiente ha borbottato, mentre la squadra occupava posizioni anonime di classifica e pareva lontana dal compiere la promessa di Saputo quando è arrivato, ormai dieci anni fa: riportare il Bologna in Europa. E per molti la svolta è stato l'arrivo di Giovanni Sartori, che è riuscito finalmente a indovinare le scelte degli allenatori e la costruzione della rosa. E poi la stagione dello scorso anno con Thiago Motta, Calafiori e Zirkzee, che sembrava irripetibile perché mentre festeggiavamo la qualificazione in Champions erano praticamente già andati via tutti e tre.
In un contesto così profondamente mutevole, il percorso che ha permesso alla squadra di raggiungere una storica qualificazione in Champions League e la vittoria in Coppa Italia si è potuto realizzare solo grazie a un forte senso di squadra e a un altrettanto profondo legame tra squadra e tifosi. «Il nostro punto di forza è la squadra» ha detto Michel Aebischer in un’intervista a The Athletic prima della finale. «Nessun giocatore si sente più importante degli altri, la squadra viene prima di tutto. Questo ci ha aiutato lo scorso anno e ci sta aiutando quest’anno. Chiunque scenda in campo fa bene e aiuta i compagni».
Si tratta degli aspetti più intangibili che definiscono le società sportive, per cui spesso si ricorre alla metafora biochimica del "DNA": un codice che contiene in sé le informazioni per lo sviluppo e la sopravvivenza di un organismo. Le cellule si differenziano o vanno incontro a un ricambio, così come cambiano gli individui e i progetti nelle società sportive, ma il DNA viene trasmesso a ogni nuovo ciclo.
La salvaguardia degli aspetti identitari di una società sportiva passa prima di tutto dai suoi tifosi. Il legame del Bologna con la città è particolarmente forte, e non solo per l’assenza di altre squadre cittadine. Non è un caso che De Silvestri sia affettuosamente chiamato “sindaco” dai tifosi: il capitano del Bologna possiede, simbolicamente, anche le chiavi della città. «Ti senti ancora di più bolognese, stasera?» chiede a Orsolini il giornalista di Radio Serie A. «È qualcosa di incredibile: un senso di comunità e appartenenza fuori dal comune», risponde l’attaccante. Bolognese di adozione, Orsolini è nato ad Ascoli Piceno come Mattia Destro, che anche dopo un addio travagliato conserva un affettuoso ricordo della città: «A Bologna ho lasciato il cuore, voglio benissimo a questa gente».
Gente che quest’anno ha sfidato ogni tipo di distanza o avversa condizione climatica per seguire le trasferte di Champions; che nelle partite casalinghe ha riempito il Dall’Ara rendendolo quasi inespugnabile e che per la finale di Coppa ha affollato lo Stadio Olimpico trasformando la Curva Nord in un distaccamento della Curva Andrea Costa. Il fatto che più di 30mila tifosi rossoblù (poco meno di 1 tifoso del Bologna su 10, stando a un recente sondaggio) siano partiti alla volta di Roma può essere solo in parte spiegato dalla portata storica di questa stagione del Bologna. Molti di quei 30mila avranno visto il Borussia Dortmund uscire sconfitto dal Dall’Ara, nello stesso campo che avevano invaso per festeggiare l’ultima promozione in Serie A; altri saranno stati all’Olimpico quando Destro ha segnato sotto la pioggia o, ancora prima, quando Giacomo Bulgarelli ha sollevato la Coppa Italia vinta nel 1974.
«Quanto si stava bene quando le ultime di campionato non contavano niente! Magari però la vinciamo [la Coppa]», esclama un tifoso in attesa del treno per Roma. “Di professione scettici”, descrive i bolognesi l’inno composto dal quartetto Dalla-Morandi-Mingardi-Carboni: una naturale diffidenza che non ha impedito a migliaia di persone di ritrovarsi nella labirintica stazione di Bologna Centrale in un giorno feriale di maggio. Difficile immaginare migliore pubblicità per una coppa sponsorizzata da una compagnia di treni. Il piano dell’alta velocità è invaso di maglie rossoblù di ogni epoca: da Signori a Soriano, Nervo e Arnautović, e poi Freuler, Calafiori e Zirkzee. Maglie, per dirla con le parole di Orsolini, «di chi è passato da questa squadra, chi è rimasto, chi è andato via». Ciascuno di loro, al pari dei tifosi che ne indossano le maglie, si può dire che abbia contribuito ad assemblare il trofeo che il “sindaco” De Silvestri ha alzato al cielo nella notte di Roma. Si muove la città, recitano molte sciarpe rossoblù realizzate per l’occasione e ispirate a un verso de La sera dei Miracoli di Lucio Dalla.
«Solo qualche mese fa nessuno, o comunque molti pochi credevano che ci saremmo salvati», aveva detto Mihajlovic alla fine della partita contro la Lazio. «Io ero uno di quei pochi. Più passava il tempo, più mi convincevo che eravamo sulla strada giusta; anche se penso lo stesso che il nostro sia stato un piccolo miracolo». Forse Sini ci aveva visto lungo.