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Chi è dentro e chi è fuori dalla bolla di Orlando
06 lug 2020
Presenze, decisioni e assenze delle squadre NBA che si apprestano a volare a Disney World.
(articolo)
9 min
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Nella sua recente intervista con la rivista TIME, il commissioner della NBA Adam Silver ha ammesso che il piano della lega per tornare in campo «non è mai stata una questione per la quale saremmo andati avanti “indipendentemente da tutto”. Abbiamo imparato che questo virus è imprevedibile». E se anche il capo di una macchina organizzativa che muove miliardi di dollari e che spenderà — secondo quanto riferito — più di 150 milioni di dollari per realizzare e mantenere al sicuro la “bolla” di Orlando non si fa problemi a dire ripetutamente di non sapere alcune cose (ad esempio qual è il numero di positività al COVID-19 per il quale la stagione verrebbe fermata e cancellata), non c’è modo di saperlo per nessun altro. Per quanto le misure adottate siano state generalmente approvate dagli esperti interpellati a dare un giudizio in merito, arrivare fino a ottobre inoltrato per incoronare un campione NBA per la stagione 2019-20 è tutt’altro che scontato — e se la NBA ci riuscirà bisognerà riconoscerle i giusti meriti.

In ogni caso, le 22 squadre chiamate a tornare in campo a partire dal 30 luglio hanno dovuto consegnare alla lega una lista con le 35 persone che faranno parte del loro “gruppo squadra”, quindi comprendendo giocatori, allenatori e membri dello staff a diretto contatto gli uni con gli altri. Liste dalle quali quale piano piano hanno cominciato ad accumularsi le prime defezioni specialmente tra i giocatori, che ciascuno per un motivo diverso hanno annunciato la loro intenzione di non partire per Orlando. C’è chi come Davis Bertans non vuole mettere a rischio il suo prossimo contratto; chi come Trevor Ariza, Wilson Chandler o Avery Bradley hanno forti motivazioni familiari per non passare l’estate senza poter vedere i loro figli; chi volerà a Orlando ma non giocherà come Victor Oladipo, il nome di maggiore spicco tra quelli che non torneranno a giocare; e chi come DeAndre Jordan ha contratto il coronavirus dopo essere tornato a Brooklyn e ha deciso di non andare a Orlando.

La ripartenza della NBA spiegata in 86 secondi.

I Nets decimati e la corsa all’ottavo posto

Quella dei Brooklyn Nets è forse la posizione più delicata in assoluto, tanto che viene da chiedersi se saranno in grado di schierare una squadra in grado di competere seriamente. Confermate le assenze di Kyrie Irving e Kevin Durant, oltre a Chandler e Jordan la squadra di coach Jacque Vaughn (sì, sulla panchina c’è ancora lui) dovrà fare a meno anche di Nicolas Claxton, che si è operato per un infortunio alla spalla, e soprattutto non sa ancora se ci sarà Spencer Dinwiddie.

Esattamente come DeAndre Jordan, anche il playmaker della squadra ha contratto il COVID-19 dopo essere tornato a New York e il suo status è in dubbio, visto che — pur volendo scendere in campo a Orlando — ancora non sa se riuscirà a guarire in tempo dai sintomi che sta provando per essere disponibile per i suoi. La dirigenza ha messo sotto contratto Tyler Johnson (tagliato dai Phoenix Suns durante la stagione) e Justin Anderson (visto già per tre partite coi Nets a gennaio), ma è chiaro che se non ci sarà nemmeno Dinwiddie quella di Vaughn potrebbe tranquillamente essere la peggior squadra dell’intera bolla, sicuramente quella più scarsa tra quelle attualmente ai playoff.

I Nets si presenteranno a Orlando con mezza partita di vantaggio sull’ottavo posto occupato dai Magic — anch’essi alle prese con le possibili assenze di Al-Farouq Aminu e Jonathan Isaac, con il secondo che con ogni probabilità non verrà rischiato —, ma con questa situazione di infortuni devono soprattutto guardarsi le spalle dagli Washington Wizards. La squadra di coach Scott Brooks finirà le otto partite del ritorno in campo a 4 o meno gare di distanza dall’ottavo posto per forzare il torneo play-in, dove poi dovranno vincere due volte in fila per guadagnarsi un posto ai playoff. Rimonta possibile se potranno contare su Bradley Beal, ma anche la stella della squadra — che sta continuando ad allenarsi — non ha ancora deciso se sarà a Disney World oppure no.

L’assenza pesante di Victor Oladipo

In una situazione simile con la propria stella si trovavano anche gli Indiana Pacers, i quali hanno presto dovuto fare i conti con la questione legata a Victor Oladipo. Il miglior giocatore dei Pacers era rientrato da poco più di un mese e mezzo dopo aver saltato un intero anno solare per l’infortunio al tendine del quadricipite del gennaio 2019 e, comprensibilmente, sente di essere più suscettibile di altri a una possibile ricaduta — specie dopo un periodo di inattività così lungo. «Non è una questione di adesso, è una questione di longevità» aveva detto ai giornalisti appena prima di annunciare a The Athletic la sua decisione di viaggiare con la squadra ma di non scendere in campo a Disney World.

https://twitter.com/ShamsCharania/status/1279157239161532416

Shams Charania spiega i motivi della scelta, tra cui anche i pochi giorni a disposizione per poter lavorare in cinque contro cinque prima di scendere in campo.

Sulla sua decisione pesa anche la sua situazione contrattuale: Oladipo è in scadenza al termine della stagione 2020-21 e già da qualche tempo il suo futuro a Indianapolis non sembra più scontato come poteva sembrare un tempo, anche perché la squadra è riuscita a rimanere competitiva anche senza di lui (complice l’ascesa di Domantas Sabonis). Avere o non avere Oladipo però cambia le prospettive dei Pacers: con lui al 100% potevano pensare di giocarsi le proprie chance con tutti, ma senza si ritrovano a corto di talento più o meno con ogni squadra che potrebbero incontrare al primo turno, da Boston a Miami fino ad arrivare a Philadelphia (Milwaukee e Toronto sembrano superiori a prescindere).

Nel frattempo le loro rivali si presenteranno invece al completo e in salute, specialmente i Sixers che ritroveranno un Ben Simmons al 100% — al contrario di quello che sarebbe successo in condizioni normali. Nessuna delle prime squadre a Est si è mossa particolarmente sul mercato (solo Philadelphia ha aggiunto un tiratore in più con Ryan Broekhoff), probabilmente contente dei giocatori che avranno a disposizione — o forse perché non è che in giro ci fossero dei free agent in grado di cambiare le sorti delle loro stagioni.

I Blazers tutti nuovi a caccia dei playoff

Passando alla parte bassa della Western Conference, la situazione più particolare è certamente quella dei Portland Trail Blazers, che tra assenze e recuperi si troveranno con una squadra molto diversa rispetto a quella che avevano lasciato. Con Trevor Ariza che non sarà a Orlando e, soprattutto, con i rientri dagli infortuni di Jusuf Nurkic e Zach Collins, i Blazers si ritrovano con un reparto lungo strapieno e quello delle ali che può contare sul solo Carmelo Anthony, costretto quasi obbligatoriamente a tornare nel vecchio ruolo di 3 (coach Terry Stotts ha fatto sapere che tanto la difesa è una questione di squadra e non individuale).

Con ogni probabilità a finire le partite in campo insieme a Damian Lillard e CJ McCollum sarà Gary Trent Jr., che nelle ultime partite prima della sospensione aveva cominciato a ritagliarsi un ruolo importante in rotazione, mentre sul mercato è stato firmato Jaylen Adams (secondo nel premio di MVP della G-League) per allungare la rotazione nel ruolo di point guard. I Phoenix Suns hanno fatto lo stesso firmando Cameron Payne addirittura con un contratto biennale, mentre Sacramento — che ha ripreso Corey Brewer e aspetta di capire se ci sarà Marvin Bagley III — ha quattro giocatori alle prese con il COVID-19, tra cui il più importante è Buddy Hield e quello più indisciplinato è Jabari Parker, pizzicato a giocare a tennis a Chicago pochi giorni dopo l’annuncio della sua positività. Con i San Antonio Spurs già certi di non poter contare su LaMarcus Aldridge, che ha già chiuso il suo 2019-20, i “dark horse” per dare la caccia all’ottavo posto di Memphis diventano i New Orleans Pelicans di Zion Williamson, che hanno dalla loro il calendario più facile tra tutte le 22 squadre impegnare a Orlando.

https://twitter.com/LBI_Steve/status/1278843420728066049

Durante la pausa, intanto, Zion è diventato Bane.

Le spine delle due contender di Los Angeles

Mentre i Denver Nuggets si ritrovano a fare i conti non solo con i casi interni di COVID-19 che li ha portati a chiudere il campo di allenamento per una settimana, ma anche con la positività di Nikola Jokic ancora bloccato in Serbia, in vetta alla Western Conference le due squadre di Los Angeles hanno due nodi grossi da risolvere.

Partendo dagli L.A. Clippers, quello più grande riguarda Lou Williams, la cui presenza o meno a Orlando può effettivamente cambiare qualcosa per le aspirazioni della squadra di Doc Rivers. Il coach ha detto che si aspetta comunque di avere il suo sesto uomo a disposizione, anche se l’ultima partita dell’8 marzo contro i Lakers aveva mostrato come Williams fosse l’anello debole della difesa dei Clippers, quello che veniva continuamente puntato da LeBron James e soci. Se anche dovesse non esserci a Orlando, i Clippers perderebbero il loro miglior giocatore di pick and roll (specialmente per l’intesa telepatica con Montrezl Harrell) ma avrebbero di fatto una rotazione senza punti deboli in difesa — aspetto che nei playoff fa sempre la differenza, come hanno mostrato i Toronto Raptors lo scorso anno.

Negli ultimi giorni però si è aggiunta anche la positività al COVID-19 di Landry Shamet, difensore competente e tiratore super affidabile sugli scarichi che risolve molti quintetti di coach Rivers, in una squadra con tante bocche da fuoco ma poco propensa a muoversi lontano dalla palla. Shamet con i suoi movimenti ma soprattutto con la sua capacità di essere autosufficiente senza togliere possessi agli altri era un tassello importante della squadra, potenzialmente uno dei cinque in campo per chiudere le partite: se non dovesse recuperare in tempo (anche se i giocatori potranno arrivare a Orlando dopo le loro squadre, seppur con misure restrittive e protocolli da superare) sarebbe un colpo discretamente pesante per Kawhi Leonard e soci.

Sulla sponda gialloviola, invece, i Lakers devono già fare i conti con un’assenza definitiva e una ancora da decidere. Avery Bradley ha reso noto che non avrebbe messo a rischio la salute di suo figlio Liam (affetto da problemi respiratori cronici) per portarlo nella bolla di Orlando, e per questo rimarrà a casa insieme alla famiglia, impegnandosi allo stesso tempo a portare avanti il discorso sull’uguaglianza sociale e il razzismo sistemico insieme a Kyrie Irving. Più intricata la situazione di Dwight Howard, che oltre alla netta posizione presa qualche settimana fa contro il ritorno in campo (“Non è questo il momento per giocare a basket, ma di combattere per la giustizia sociale”) ha problemi familiari da dover risolvere. Negli ultimi giorni tanto coach Frank Vogel quanto il GM Rob Pelinka si sono detti ottimisti sulla sua presenza a Orlando — dove potrebbe vincere il primo titolo della sua carriera chiudendo il cerchio in maniera davvero surreale dove tutto era cominciato.

Questa è la situazione delle squadre ora come ora, ma mai come in questo periodo tutto potrebbe davvero cambiare da un momento all’altro. Il recente esempio dei casi di positività all’interno dell’FC Dallas di MLS una volta arrivati in Florida (mentre erano negativi prima di partire) dimostra come tutto sia imprevedibile e in discussione. Giannis Antetokounmpo è convinto che circostanze come queste rendano quello del 2019-20 il titolo più difficile di sempre, non uno con un asterisco al suo fianco: le due cose in realtà non si eliminano l’un l’altra, ma quel che è certo è che la strada per vedere il Larry O’Brien Trophy in mano a una squadra è ancora lunghissima.

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