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La storia unica di Bobbito Garcia
03 set 2018
Abbiamo incontrato una delle figure mitologiche dell’incontro tra cultura Urban, Hip Hop e pallacanestro.
(articolo)
21 min
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Incrocio Bobbito Garcia per la prima volta tra la calca dei corridoi di Ginnika, la manifestazione che da ormai cinque anni immerge per un fine settimana Roma nella devozione per tutto ciò che è Urban Culture, Hip-Hop e Sneakers. Stretti tra una morsa di venditori, appassionati e semplici curiosi arrivati per le ultime novità o per le scarpe che sono assurte allo stato di grail, in una temperatura da suk tunisino ci avviamo verso la alla prima assoluta del suo nuovissimo documentario Rock Rubber 45s, il terzo film da regista dopo “Doin' it in the Park” (2012) e “Stretch and Bobbito: Radio that changes lives” (2015).

Mi sembra di conoscerlo da sempre, mentre si inginocchia per fotografare delle scarpe esposte in vetrina, come pensi di conoscere una persona che non hai mai incontrato prima ma che in qualche modo ti ha accompagnato per gran parte della tua vita. Dopo aver visto il film che racconta i primi cinquant’anni della sua vita mi rendo conto quanto avessi avuto finora una conoscenza molto superficiale di Bobbito. Lo avevo sempre incontrato come artista musicale, come virtuoso della palla da basket, come profeta dello sneaker game, come orchestratore della vita culturale di New York City, ma mai come uomo in carne ed ossa. Anche perché mai prima d’ora si era aperto allo spettatore come in questa sua autobiografia visiva.

La forza innegabile di Rock Rubber 45s infatti, oltre alla fascinazione verso il personaggio e verso l’epoca impareggiabile che Bobbito ha contribuito a modellare, risiede nell’onestà purissima che ha scelto di adottare. Lontano dall’autocelebrazione, riesce a trovare il perfetto bilanciamento tra le infinite apparizioni di amici, parenti e conoscenti, brillanti e inclusive, e il racconto in prima persona, sincero e toccante. Bobbito scava come in una sessione d’analisi fino alla sua infanzia, recupera il problematico rapporto con il padre e non ha paura di affrontare anche un argomento fortemente controverso, specialmente nel mondo latino, come quello degli abusi e del machismo dominante.

Ad accompagnare la storia della sua vita sono le tante persone che ha toccato con il suo passaggio, da Chuck D a Chris Paul, da Questlove a Lin-Manuel Miranda, fino ad un incredibile frammento di Earl Manigault, colui al quale è dedicato uno dei più importanti playground di New York. Ma soprattutto a raccontare l’odissea cinematografica di Bobbito ci pensano i suoi tre più grandi amori, quelli che dominano il titolo del film.

“Rock” è appunto la palla da basket. Non quella appena comprata ma quella sudata, sporca di asfalto, con la camera d’aria deformata fino ad assomigliare a un geoide. “Rubber” funziona da sineddoche per definire le scarpe da ginnastica, con la suola di gomma che le differenzia rispetto alle stringate di cuoio. “45” sono i giri al minuto che compie un vinile su un piatto e che solitamente caratterizzano i singoli o i sette pollici rispetto al Long Playing, che gira più lentamente. Questi non sono solamente gli strumenti di lavoro di Bobbito ma negli anni sono diventati delle vere e proprie estensioni del suo corpo, della sua personalità. Attraverso di loro ha imparato a conoscersi, ad esprimersi, fino a usarli come lenti d’ingrandimento per raccontare tutta la sua incredibile, folle e stupenda storia di vita.

Chi è Bobbito Garcia

Per chi non fosse in confidenza con il personaggio basta sapere che Bobbito Garcia ha fatto di tutto. E lo ha fatto prima e meglio di tutti. Ha lavorato a Def Jam ai tempi dei Public Enemy e degli EPMD; ha giocato da professionista nel suo paese nativo, Portorico; ha presentato per quasi dieci anni il programma radio sull’hip-hop più importante di sempre; ha scritto il primo articolo al mondo riguardo lo Sneaker Game e il primo libro sull’argomento, Where’d You Get Those. È stato editor di Vibe, The Source e di Bounce, ha presentato il programma di ESPN It’s the shoes, si è esibito con gli Harlem Globetrotters, ha collaborato con Nike come produttore esecutivo di quasi quaranta campagne pubblicitarie, ha avuto una collezione tutta sua di Air Force 1 nel 2007, messo su dischi in cinque continenti, organizzato e giocato in tornei di basket in praticamente qualsiasi playground di New York, per ultimo il suo FullCourt21. E ora ha anche realizzato tre documentari.

Vedendo la sua vita sul grande schermo si è travolti dalla quantità di esperienze assurde e meravigliose che è riuscito ad accumulare nel tempo, con la leggerezza e la passione di chi ha cercato di essere per prima cosa se stesso. Anche quando questo ha voluto dire prendendosi dei rischi incredibili, risalendo la corrente in direzione ostinata e contraria, e riuscendo in qualche modo ad atterrare sempre in piedi.

«Sono la prova vivente che si possono fare decisioni per se stessi. In qualche caso possono essere sbagliate, in altri casi possono rivelarsi azzeccate, io sono stato molto fortunato perché ho preso molte decisioni nella mia vita che al tempo sembravano da folle e che invece si sono rivelate corrette, almeno dal mio punto di vista» mi dice quando ci incontriamo il giorno dopo, maglietta rigorosamente di due taglie più grande e pantaloncini a nascondere il ginocchio.

Il giorno dopo avevamo appuntamento accanto al campo dove si sta svolgendo il torneo di 3vs3 che contraddistingue ogni edizione di Ginnika, la sua personale idea di paradiso in terra. «Ieri sono rimasto a guardare più di un’ora e mezza, e alcuni che giocavano erano davvero scarsi. Ma era comunque piacevole stare all’aperto, tra persone che si stanno divertendo, sfidandosi e confrontandosi in uno sport che per me significa molto». Dietro di me si avvicinano alla spicciolata vecchi appassionati, coppie con figli, giovani impallinati tutti in fila per una foto, tirano fuori dagli zaini una ormai consumata copia di Where'd You Get Those? per una dedica o solo raccontargli un aneddoto personale di come in qualche modo la loro vita fosse stata influenzata da quella molto più pazza di Bobbito. Quando finalmente riusciamo a divincolarci ci incamminiamo verso una sala libera ben nascosta dentro la tentacolare struttura dell’Ex-Dogana di San Lorenzo. Appena ci sediamo e accendo il registratore Bobbito mi chiede se possiamo tornare fuori, all’aria chiara del giorno, come se fosse il suo unico habitat possibile. Alla fine ci accomodiamo su un tavolo di compensato quasi all’ingresso, a pochi passi da dove ci eravamo inizialmente incontrati, in un tragitto che ricorda quello tracciato nel suo film e precisato nel sottotitolo. «È difficile far entrare 50 anni di vita in 90 minuti, è una missione impossibile». Specialmente se la vita in questione è quella di Bobbito Garcia.

Essere in ritmo con l’universo

«Fare qualcosa che nessun’altro aveva mai fatto prima era l’unica cosa che contava. Al tempo New York non era solo la Mecca dell’Hip-Hop, ma anche dello sneakers game, dello streetwear e dei playground». Tutte queste differenti influenze si sono scontrate nello stesso posto, nello stesso momento, creando uno state of mind terribilmente newyorkese, in cui la parola chiave era l’originalità. Ad ogni costo. «Volevamo distinguerci, e questo spiega le tutte le cose che abbiamo fatto in quei tempi, dallo stirare i lacci delle scarpe a dipingerle di colori assurdi, fino ad attraversare tutta New York per trovare quel paio che sapevamo di poter avere solo noi». All’epoca le varie comunità, le varie culture si intersecavano come i treni a Grand Central. “I primi DJs, gli MCs, i B-Boys e le B-Girls presero diretta ispirazione per le loro sneakers da una scena: la comunità newyorkese dei playground” - scrive Bobbito nell’introduzione di “Out of the Box: The rise of the sneakers cult” - “ogni scarpa iconica della storia hip-hop, dalle Chucks Taylor, alle Superstar fino alle Air Force 1, prima era stata resa oggetto di culto dai giocatori di basket nei campetti di New York, senza alcuna eccezione”. Nell’aria si respirava quella densità che renderà mitologica quella New York. “È lo stesso motivo per il quale andavo al campetto e facevamo un movimento con il pallone, un trick a cui nessuno aveva pensato prima. Sentivamo Nas, o Rakim o Kool G Rap scrivere rime con parole che non erano state mai messe insieme prima d’ora, quindi era naturale cercare di essere degli innovatori nel nostro campo”.

Dal rimbalzo della palla sul cemento ai dischi che fischiano sotto le puntine fino alle suole nuove che squittiscono le prime volte che le porti in giro, la vita di Bobbito è legata indissolubilmente ad un’altra parola che racchiude il cuore del suo stile di vita: il ritmo. «Sai, credo ci sia un ritmo dietro tutto quello che facciamo. Ma è quando sono arrivato ai miei quarant’anni che finalmente mi sono sentito in ritmo con l’universo. E capisco che può sembrarti una concetto molto vago o da santone, ma c’è qualcosa riguardo il destino, la fede e l’autodeterminazione. Mi sono affidato alle mie sensazioni quando dovevo fare una scelta importante, come lasciare un lavoro che avrei potuto tranquillamente fare tutta la vita per inseguirne un altro. Ho sempre cercato le sfide e ho cercato cose che in quel preciso momento avessero un ritmo specifico, che risuonasse con il mio. Poi sai, cerco di buttarmi nelle cose con più entusiasmo possibile, ma alla fine ho scoperto di essere in pace con me stesso quando capisco che è ora di cambiare, che c’è un ritmo anche nel lasciare le cose. Ora ho raggiunto una certa serenità nel farlo».

Bobbito ha lasciato nell’ordine prima Def Jams, poi Vibe Magazine, poi il suo stesso show radiofonico, varie serate che aveva lanciato e nelle quali metteva i dischi ogni settimana, un contratto con Nike come ambasciatore del brand, ha chiuso il suo negozio Footwork, il primo a vendere delle limited edition. Ma non ha alcun rimpianto. «Ora sono qui a fare film, organizzo ancora il mio torneo di streetball, Full Court 21, e faccio il DJ in giro per il mondo. Sono le cose che amo adesso e combatto ogni giorno per essere pagato per questo. Quindi non so se riesco a spiegarti cos’è il ritmo per me, ma so che esiste. Esiste sicuramente».

Lo spot che ha cambiato tutto

Quando si lancia in questi lunghe dissertazioni filosofiche, Bobbito può dare l’impressione di galleggiare in una realtà tutta sua; invece, come ogni freestyler o dj che si rispetti, rimane sempre cosmicamente collegato con il mondo attorno. Durante il suo set nel corso della finale del torneo, tra preziosissimi sette pollici di Zouk caraibico e promo arrivati direttamente dai tempi eroici delle radio, a un certo punto compare inconfondibile un classico di Willie Hutch che solo pochi giorni prima era stato scelto per contrappuntare lo spot Nike di LeBron James in vista delle sue ennesime Finals. Una scelta forse inconsapevole, ma che ci catapulta con la memoria all’inizio di questo millennio, direttamente dentro una delle più celebri pubblicità dello Swoosh, dove il ritmo era dato dalle camere d’aria suonate dalle mani dei più inventivi freestyler del pianeta. «Quando è uscito quel commercial, è come se molti di noi si fossero guardati negli occhi e, facendo un grosso respiro, avessero detto “Wow, finalmente”».

L’iconico Freestyle Commercial, durante il quale giocatori professionisti come Vince Carter, Lamar Odom, Jason Williams e Rasheed Wallace (che non palleggia ma spinge soltanto per terra un tipo a caso) e virtuosi presi nei vari playground di New York, riproducono il contagioso beat di Afrika Bambaataa, Planet Rock, con il solo uso di palloni da basket, ha cambiato per sempre la percezione dello streetball tra il pubblico comune. Bobbito svolgeva il doppio ruolo di performer e consulente: «Vengo da un’epoca nella quale nei playground eravamo sempre estremamente creativi, ma c’era una grande distanza tra il nostro stile di gioco e quello che veniva utilizzato al college o tra i pro. Ovviamente in NBA sono sempre esistiti giocatori creativi, spettacolari, ma quello che facevano ad esempio gli Harlem Globetrotters era illegale, alcune mosse durante l’And1 Tour e Mixtape erano illegali, non le potevi fare in campo con un arbitro. Quindi, quando tutto d’un tratto abbiamo avuto una piattaforma attraverso la quale esprimerci al massimo e mostrare quante cose si potessero fare con una palla da basket una volta usciti dai regolamenti, era come riemergere per prendere fiato».

C’è un mondo prima di quello spot Nike e un mondo dopo. Una rivoluzione copernicana che in un certo modo ha contribuito a staccare l’NBA fisica, muscolare degli anni ‘90 e di Michael Jordan (con cui Bobbito non condivideva esattamente le stesse passioni, come racconta nel documentario) fino a portarla alla versione odierna, con interpreti cresciuti sognando di far parte di quella pubblicità. (Un altro che pare avesse rosicato molto, e conoscendo il tipo non ne dubito, per non aver potuto partecipare fu Kobe Bryant, all’epoca ancora legato ad adidas prima di passare a Nike nel 2003).

«Coa tu vedi uno come Steph Curry, che ha chiaramente visto quel commercial, ha chiaramente giocato a NBA Street Vol.2 [del quale Bobbito era il commentatore, ndr], che ha chiaramente visto AND1 Mixtape Tour» - nota a margine: ogni chiaramente qui è steso con tutto l’accento newyorkese possibile, come sciroppo d’acero su un pancake - «Non ne ho la certezza assoluta, ma se tu calcoli la sua età, vedi come gioca, lo immagini da ragazzo che vede questi filmati ed esclama “Holy shit, voglio provare a fare le stesse cose anch’io”. E l’NBA ha beneficiato in modo incredibile da questo, perché il suo modo di giocare coinvolge gli spettatori».

Un giocatore che invece è stato direttamente influenzato da Bobbito è anche uno dei più impensabili. «Ero ad un evento di beneficenza e ad un certo punto si avvicina Gilbert Arenas e mi fa “yo sei tu il tipo che fa i trick, ho comprato il tuo Dvd, Basics to Boogie”. Sono quasi svenuto: davvero Gilbert Arenas guarda i miei video?».

Per essere come Arenas anche senza comprare il Dvd (o un fucile automatico).

«A volte non hai alcuna idea di quanto sottile o diretta sarà la tua influenza sulle persone. Chris Paul fa spesso questa mossa, l’ha fatta anche all’ultimo All-Star Game, dove fa passare la palla sotto le sue gambe, la recupera dietro la schiena e la porta al canestro. Ora non sto dicendo che l’ha presa da me, scrivi bene che non sto dicendo questo, ma io ho iniziato a fare quella stessa mossa negli anni ‘80 e non ho visto nessuno farla prima di me». Però Bobbito detesta la parola “rubare” (è molto dura, dice), considera invece tutti i giocatori passati nei decenni sui playground come se facessero parte di una gigantesca intelligenza collettiva, che ha il solo scopo di allargare il range d’utilizzo di una palla da basket. «Ho fatto parte di una generazione di ball-handler che passavano ore immaginando cos’altro potersi inventare. Ok, c’è il dietro la schiena, il giro in palleggio, il crossover, poi cos’altro si può fare? E questa mentalità mi ha influenzato incredibilmente. Quindi forse Chris Paul mi ha davvero visto farla o forse era lì nell’aria e lui l’ha acciuffata».

Il miglior show radiofonico hip hop della storia

It’s up there” è una delle espressioni preferite di Bobbito. La ripete più volte durante la mezz’ora che passiamo insieme e, involontariamente o meno, è perfetta nel descrivere il modo in cui ha influenzato generazioni ormai per decenni. L’impegno di Bobbito fin da quando, appena ventenne, insieme a Stretch Armstrong ha dato vita al “Miglior Show radiofonico Hip Hop della storia” (secondo The Source Magazine), è stato quello di fare quello che amava, mettendole poi a disposizione di chiunque volesse partecipare.

Come raccogliendo una palla a terra in una partitella, come sintonizzandosi sulla radio di un college alle tre di notte ogni giovedì pur di ascoltare le prime apparizioni di rapper e MCs che hanno fatto la storia di New York. In quegli anni attraverso le porte della Columbia WKCR è passata la storia del rap, solo che all’epoca nessuno ne era consapevole. Jay-Z aspettava mezz’ora nei corridoi prima di essere on air per un freestyle; Biggie Small a 16 anni perse una battaglia contro i Bronx Zu, ritornò e vinse; Nas scelse il programma per il primo ascolto pubblico di Illmatic, uno dei più grandi dischi di sempre, dopo aver partecipato tre anni prima quando era ancora alla ricerca di un contratto discografico.

Stretch e Bobbito hanno dato una piattaforma per chiunque avesse qualcosa da dire, di prendere in mano un microfono e dirlo. E soprattutto chi voleva ascoltarle sapeva a che ora e su quale frequenza sintonizzare le manopole della propria radio. «Avevamo una voce un po’ più profonda come radioshow rispetto al puro intrattenimento musicale. Anche se eravamo in questa piccola scatola, questa ha avuto un impatto a livello personale, sia su me e sia sulle persone che abbiamo toccato» dice Bobbito alla fine di “Stretch & Bobbito - Radio that changes lives”. Come sempre, quando si scende più in profondità, si lasciano i segni più duri, quelli che resistono più a lungo.

Lo scorso anno NPR Radio ha affidato a Stretch Armstrong e Bobbito un nuovo Podcast, What's Good with Stretch & Bobbito, nel quale i due intervistano loro amici, da Erykah Badu a Stevie Wonder, da Chance the Rapper a Dave Chappelle. La seconda stagione è iniziata lo scorso 15 Agosto: in questo caso la musica suonata lascia il campo a lunghe chiaccherate informali che abbracciano le più svariate tematiche, dall’arte alla politica fino alla semplice vita che scorre.

Anche in “Rock, Rubber 45s” i momenti più potenti arrivano quando Bobbito si spoglia dalla mediazione delle sue interfacce - la musica, il basket, le scarpe - e si mette davvero a nudo. Come quando affronta senza filtri la sua infanzia e cosa ha significato crescere da immigrato di seconda generazione in quel calderone culturale che era la New York degli anni ‘70. Figlio di portoricani arrivati nella Grande Mela inseguendo il sogno americano, il giovane Bobbito ha avuto inizialmente un rapporto conflittuale con la sua cultura d’origine. “Associavo la musica caraibica con l’odore dei sigari e il sapore dell’alcool” - dirà Bobbito durante il film - “e mi nauseava”. Ora passa con il sorriso stampato sotto i baffi i dischi che sentiva suo padre con i suoi amici, e quell’odore è magicamente sparito dalla sua testa. «È tutto un ciclo. All’inizio del film ammetto di non essermi sempre sentito rappresentato dall’essere portoricano, anche perché non sapevo parlare spagnolo. Poi nelle sequenze finali mi vedi aprire il concerto di Eddie Palmieri, una leggenda del Latin Jazz, e incitare le coppie di danzatori in spagnolo». Questa e la chiusura dell’Odissea di Bobbito, il ritorno alla sua isola.

Il basket è stato il primo mezzo attraverso il quale ha scoperto le sue radici. «La nostra lega professionistica [la Baloncesto Superior Nacional ndr] è nata dieci anni prima ogni altra lega professionistica nordamericana» esordisce con un certo orgoglio Bobbito, che considera ancora aver giocato da professionista a Porto Rico durante l’estate del suo terzo anno di college il risultato più importante della sua vita. «Tutti pensano che è il baseball lo sport più seguito sull’isola, ed è vero, è estremamente popolare, ma non raggiunge minimamente la follia che spinge la passione per la pallacanestro». Durante il documentario scorrono le immagini di Carlos Arroyo che fa a fette la difesa a stelle e strisce nella storica vittoria durante le Olimpiadi del 2004. Il vero eroe locale però è J.J. Barea, che quando tornò a casa dopo vinto il titolo con i Dallas Mavericks nel 2011, «fu accolto come Elvis Presley quel giorno: ci fu una parata per tutte le strade di San Juan».

Quando gli chiedo se ha trovato delle difficoltà nell’inserirsi come boriqua in una scena storicamente black come quella Hip-Hop mi risponde con le parole di Afrika Bambaataa, uno dei godfather del rap: «L’Hip-Hop non è una cultura black, è una cultura universale di cui tutti possono far parte. Lui non vedeva il colore o la razza dietro la musica. Cioè, è sicuramente stata dominata dagli artisti afroamericani, esattamente come il basket dagli atleti di colore, ma non significa certo che è esclusivamente loro. Non mi sono mai sentito un outsider solo per essere portoricano: il colore della mia pelle non mi ha mai impedito di fare tutto quello che ho fatto».

«Quando ero più giovane, i ragazzi di Harlem mi chiamavano “white boy” per intimidirmi, ma una volta che la mia identità come latino è emersa non ho mai sentito di esser chiuso dentro determinati steccati culturali, e in alcun modo la mia partecipazione alla scena Hip-Hop o cestistica ne è stata modificata»

Per chi New York l’ha solo vista nei film o su Google Maps, quel reticolato perfetto di Streets e Avenues può dar l’impressione di dividere come una griglia i vari gruppi etnici e così anche le culture di riferimento. Ma non è così. «Spesso si dice che i ogni borough di New York abbia uno stile riconoscibile l’uno diverso dall’altro, ma non c’ho mai creduto troppo. Forse un tempo, ma ora sicuramente non più». Non è più il tempo di quando una sola virata, un solo crossover rivelava a tutti il tuo quartiere, il tuo block e magari anche il tuo palazzo. O forse non è mai esistito. «Harlem è sempre stata conosciuta per aver prodotto i giocatori più estrosi, ma poi vai a vedere bene e Bob Cousy era del Queens, Pearl Washington di Brooklyn. E sto parlando di due tra i più creativi ball-handler di sempre». Quando gli chiedo chi è il giocatore che lo ha impressionato di più durante la sua lunghissima militanza sul cemento newyorkese, fa un respiro profondissimo e mi guarda come se gli avessi chiesto di che morte volesse morire.

«Beh sicuramente Pearl, era una star a Syracuse. Tim Hardaway non lo ammetterà mai ma ha copiato il suo crossover da Pearl e Hardaway è stato super-ifluente nell’NBA e nella sua evoluzione. Poi devo dire Shammgod, non ha avuto una carriera NBA incredibile ma i ragazzini ancora oggi impazziscono se qualcuno fa la sua mossa». Dopo aver giocato solo 20 partite da pro e dopo essere diventato una leggenda in Cina, Shammgod è un assistente allenatore a Dallas dove si occupa dello sviluppo di Dennis Smith Jr. e Luka Doncic.

Altri fenomeni da asfalto invece non sono mai riusciti a fare il salto. «Un tipo chiamato TipDog, vero nome Lamar Thornton, nessuno ora sa chi è ma era davvero talentuoso, così creativo e cattivo. Una volta gli ho visto fare una mossa così umiliante che il difensore è uscito dal campo, ha cominciato a correre fuori dal parco e non è più tornato. Ecco, questo per me è far sparire il proprio difensore». Poi è scomparso anche lui, uno dei tanti, troppi giovani masticati dalla città che non dorme mai.

A quel punto suggerisco un mio amore adolescenziale, Rafer Alston. «Ah, certo Skip! E Master Rob, non possiamo dimenticare Master Rob. Skip fu influenzato da Master Rob, molte persone forse questo non lo sanno. Un passatore incredibile, faceva passare la palla tra cinque giocatori e tu rimanevi “ma come diamine ha fatto a fare una cosa del genere?”». Anche lui ha giocato con gli Harlem Globetrotters come Bobbito, l’ennesima connessione di una città in cui tutti hanno una storia di basket da raccontare. D’altronde come affermava Pete Axthelm nel suo celebre The City Game: “Il basket appartiene alle città [...] altri giovani atleti possono imparare a giocarlo, ma solo i ragazzi della città possono viverlo”.

«Se vuoi vedere il miglior basketball di New York devi andare a West 4th, nel Village, (aka The Cage) o al Rucker, questi sono i più famosi. Anche Dyckman è un gran posto, lì puoi anche provare a giocare». Il primo film di Bobbito, Doin’ in the park, è un censimento di tutte le lingue di asfalto della Grande Mela, dai mitologici ring dove si è fatta la storia del playground basketball ai campi dentro i centri detentivi di Staten Island. «Ovunque vai a New York trovi persone che giocano a basket, è nel nostro DNA». Poche persone al mondo hanno la sua competenza sull’argomento: nel film Bobbito gioca un uno-contro-uno con il co-regista Kevin Couliau in ogni campetto della città oltre ad intervistare i local, le leggende o i semplici passanti. «Un campo molto bello è il Brooklyn Bridge Park Pier 2, puoi giocare solo tre-contro-tre ma il posto è stupendo, proprio sopra l’acqua e hai di fronte lo skyline di Manhattan». Brooklyn è anche il quartiere dove ora Bobbito vive, dopo aver provato per un anno ad allontanarsi da New York: «Sono stato a Washington per un po’ ma sono un newyorker, è nelle mie vene».

Finisce la nostra mezz’ora, lo ringrazio e torno nella calca a cercare un paio di Nike che volevo. Appena esco lo trovo in campo a sfidare chiunque in uno contro uno. Mi fermo ad osservarlo mettere un jumper dopo l’altro come dopo farà con i suoi preziosissimi sette pollici. Quando prima gli avevo chiesto che tipo di musica voleva proporre mi ha risposto che adesso suona un mix di funk, jazz e soul. «Ma soprattutto mi interessa far ascoltare nuovi ritmi, differenti texture. Spero che li apprezzino perché non posso fare altro. Alla fine ho solo questi», mi dice indicando la borsa di dischi che si porta dietro. Come sempre l’importante è lasciare “up there” le proprie conoscenze e sperare che qualcuno le raccolga.

Coerente con il mondo nel quale è cresciuto, sempre al suo ritmo e finalmente orgoglioso delle proprie origini, con il sorriso da attore del cinema muto e un magnetismo naturale, Bobbito è ancora un modello di riferimento. “Rock, Rubber 45s” non è solo un bellissimo viaggio nella memoria, una carrellata di voci e facce direttamente da uno dei periodi più entusiasmanti della storia recente, ma è anche una profonda riflessione su quali sono le cose che contano davvero nella vita. E in un epoca in cui tutti sono alla folle ricerca dell’applauso ad ogni costo, della strada più facile, Bobbito Garcia emerge davvero come un personaggio unico.

"Rock, Rubber 45" può essere acquistato e visto a questo link.

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