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Bisogna fare i conti con l'Arabia Saudita
14 giu 2023
14 giu 2023
L'impegno di Riyad nello sport ha raggiunto una nuova dimensione.
(copertina)
IMAGO / MB Media Solutions
(copertina) IMAGO / MB Media Solutions
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Rory McIlroy vede la domanda comparire da lontano, lo sguardo annoiato, la testa appoggiata su un pugno: non sembra qualcuno che è stato appena tradito dalla storia. Per mesi è stato la voce dei golfisti leali al PGA Tour, cioè alla tradizione, al blasone che questo sport rappresenta. Ha rifiutato centinaia di milioni di euro pur di non mettere piede nei tornei organizzati dal nuovo tour internazionale LIV Golf, finanziato dal fondo d’investimento sovrano saudita PIF (Public Investment Fund). Ha rilasciato dichiarazioni al vetriolo, ha detto che «la storia non si può comprare». Poi lo scorso 6 giugno è stato lo stesso PGA Tour a smentirlo, decidendo - dopo quasi due anni di minacce, ritorsioni e processi - di unirsi con LIV in una nuova società. Il suo commissioner, Jay Monahan, dopo l’accordo ha detto che «il gioco del golf è migliore grazie a ciò che abbiamo fatto oggi» e il PGA Tour ha venduto la storia che McIlroy ha cercato strenuamente di difendere. Di fatto, si è avverata una delle poche vere profezie di Donald Trump: «Tutti questi golfisti che rimangono leali allo sleale PGA Tour pagheranno un prezzo salato quando arriverà l’inevitabile fusione con LIV, e tutto ciò che otterranno in cambio non sarà nient’altro che un grosso “grazie”».

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In conferenza stampa per l’Open del Canada, McIlroy sembra tranquillo, nonostante non abbia ancora ottenuto il suo “grazie”. Forse si aspettava la domanda e si era preparato, o forse vuole dimostrare di non essere stato ferito. In ogni caso la sua faccia mantiene il distacco emotivo che la tradizione aristocratica del golf gli impone. «Odio ancora LIV, spero scompaia e credo fermamente che succederà. Ed è qui la distinzione: c’è il PGA Tour, il DP World Tour e PIF, che è molto diverso da LIV. Tutto ciò che ho provato a fare è proteggere ciò che il PGA Tour rappresenta». Sembra una distinzione di lana caprina ma nel golf mantiene un fondo di verità. LIV infatti non rappresenta solo un tour alternativo, ma anche un nuovo modo di concepire il golf. Più adrenalinico, veloce e televisivamente spendibile. Lo stesso acronimo LIV rappresenta uno dei tanti cambiamenti regolamentari apportati dal nuovo tour: è il numero romano che sta per 54, cioè il numero di buche dei suoi tornei, rispetto alle 72 dei tradizionali tornei PGA. Nel nuovo accordo con PGA di questo tipo di cambiamenti si fa menzione solo delle nuove gare a squadre e oggi non è chiaro che fine faranno gli altri, tra cui i cosiddetti shotgun start. È probabile che di questa nuova concezione del golf si parlerà più avanti, quando PIF spera di esercitare la sua influenza finanziaria sulla nuova società - controllata politicamente da PGA, ma su cui PIF mantiene il diritto esclusivo a investire capitali.

Dello scontro tra PGA e LIV abbiamo parlato anche nel nostro podcast di sport e geopolitica, Trame.

Per adesso si parla quasi esclusivamente di soldi, quindi, e su questo sì il ribaltamento è completo. Prima della fusione, infatti, la provenienza dei soldi era IL problema per PGA, almeno ufficialmente. Era un problema che l’Arabia Saudita fosse ancora sospettata di aver diretto o quantomeno aiutato l’11 settembre, tanto da coinvolgere le famiglie delle vittime e dei sopravvissuti. Era un problema che l’Arabia Saudita fosse una monarchia, che imprigionasse e torturasse i suoi oppositori politici, che opprimesse la comunità LGBTQ+, che secondo l’intelligence americana avesse architettato l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi (che, è bene ricordarlo, si era sposato negli Stati Uniti e aveva due figli di cittadinanza statunitense). Di fronte a tutto questo il colpo di scena di martedì scorso è stato clamoroso. «Avete spinto tutti ad opporsi a qualcosa che adesso è vostro socio», pare abbia detto Rory McIlroy a Jay Monahan subito dopo l’accordo. Le parole del golfista nord-irlandese sono ormai prive di qualsiasi combattività, sembrano risuonare di un misto di rassegnazione e cieca speranza nel futuro. «Onestamente mi sono rassegnato al fatto che sarebbe accaduto, è molto difficile resistere alle persone che hanno più soldi di chiunque altro. Che piaccia o meno, PIF e i sauditi vogliono spendere nel golf e non si fermeranno». Letta così sembra una buona notizia, almeno se non si avverte la nostalgia per un mondo che scompare che scorre carsica sotto le sue parole.

L’accordo tra PGA e LIV è importante da diversi punti di vista. Simbolicamente, perché il golf - che forse in Europa è percepito come un ininfluente gioco tra ricchi - negli Stati Uniti è lo sport sia del capitale che del potere - cioè degli industriali e dei lobbisti, ma anche dei presidenti e dei membri del Parlamento. Ma anche politicamente, perché è difficile sia solo un caso che questo accordo sia arrivato proprio nel momento in cui Stati Uniti e Arabia Saudita provano a ricostruire i propri rapporti, mai stati così freddi. I soldi fanno parte del quadro allo stesso modo della visita ufficiale a Riyad del Segretario di Stato americano, Antony Blinken, arrivata nel giorno in cui l’accordo è stato annunciato, e quasi un anno dopo quella del presidente Joe Biden. Sembra ormai definitivamente tramontata la possibilità, paventata proprio dall’amministrazione democratica, di rendere l’Arabia Saudita uno “stato paria”. Siamo nell’epoca in cui le mani strette nelle stanze con i parquet lucidati e gli arazzi alle pareti vengono giustificati da atleti balbettanti davanti ai microfoni. E non tutti i golfisti oggi sono contenti di indossare pubblicamente la stessa faccia di bronzo di Rory McIlroy, almeno secondo quanto riporta il New Yorker, che parla di discussioni accese, rabbia e delusione. «Accettare sempre i soldi non è forse la morale di questa storia?», si è chiesto uno di loro davanti ai microfoni di ESPN.

L’accordo tra PGA e LIV è importante anche perché arriva in un momento in cui tutti gli investimenti dell’Arabia Saudita nello sport sembrano aver raggiunto una nuova dimensione. Il Newcastle, di proprietà di PIF, si è qualificato in Champions League solo pochi mesi dopo il suo acquisto. Nel frattempo il governo di Riyad vuole dare una nuova faccia anche al campionato locale. Ha nazionalizzato i quattro club storicamente più importanti del Paese (l'Al Ittihad, l’Al Hilal, l’Al Ahli e l’Al Nassr), poi ha creato un fondo di investimento apposito per occuparsi di comprare campioni dall’Europa e di ridistribuirli tra le varie squadre del campionato. Le conseguenze le vediamo scorrere in questi giorni sugli schermi dei nostri cellulari. Prima è stato il turno di Benzema, passato all’Al Ittihad, poi si è iniziato a parlare di N’Golo Kanté, che potrebbe passare alla stessa squadra, e di Steven Gerrard, che nella prossima stagione potrebbe invece allenare l’Al Ettifaq. Secondo The Athletic, molti altri giocatori sono stati già sondati: Ilkay Gundogan, Eden Hazard, Hugo Lloris (che però dovrebbero aver già rifiutato l’offerta), Roberto Firmino, Pierre-Emerick Aubameyang, Luka Modric e Wilfried Zaha. I nomi continueranno a uscire nei prossimi giorni e nelle prossime settimane. L’obiettivo è quello di far entrare il campionato saudita entro il 2030 tra i 10 più prestigiosi al mondo, anche se non esiste una classifica ufficiale di questo tipo e non è chiaro esattamente come faranno a capirlo (tranne che per i consulenti che si faranno pagare profumatamente per scriverla in un dossier). La sensazione è che, come per il golf, anche per il calcio questo sia l’inizio della fagocitazione. «Tra dieci anni guarderemo le partite del campionato saudita», mi ha scritto istintivamente un amico che per primo mi ha girato la notizia della fusione tra PGA e LIV. «Questa potrebbe essere la storia di come l’Arabia Saudita si è comprata il golf. Ma in realtà è un progetto per ciò che vogliono fare con tutto il resto», ha scritto con toni ben più apocalittici Jonathan Liew sul Guardian.

La vicenda tra PGA e LIV, quindi, come Palantir per guardare nel futuro di tutti gli altri sport, dal calcio fino alla NBA, che alla fine dello scorso anno ha sospettosamente tolto il divieto per i fondi sovrani di investire nelle proprie franchigie. Restringendo il discorso al calcio, una delle tappe più importanti è rappresentata dal Mondiale, vedremo se del 2030 o del 2034, che in queste ultime settimane ha fatto passi lunghi ma non ancora decisivi verso la bocca affamata del regime di Riyad. Il 19 maggio è trapelata la notizia di un possibile accordo di sponsorship da 200 milioni di dollari tra l’Arabia Saudita e la neonata Superlega africana che dovrebbe partire all’inizio della prossima stagione. Per la CAF, la confederazione africana di calcio, sarebbe una manna dal cielo per le sue finanze disastrate, per l’Arabia Saudita l’assicurazione su uno dei bacini di voti più grandi dentro il piccolo Risiko della FIFA.

È difficile trarre conclusioni definitive da questi frammenti di realtà. D’altra parte, come insegna lo studioso tolkeniano Tom Shippey, lo stesso Palantir non restituisce che piccoli spiragli sul futuro da cui è fin troppo facile avere un’idea distorta di come andranno realmente le cose. Si potrebbero guardare altre notizie. Il Ministro dello Sport dell’Egitto che tira fuori il suo Paese dalla candidatura congiunta con l’Arabia Saudita (e con la Grecia). La CAF che sostiene ufficialmente la candidatura avversaria del Marocco insieme alla Spagna e al Portogallo. Il precedente non proprio incoraggiante della Cina, che ha tentato la stessa tortuosa strada intrapresa in questi mesi dall’Arabia Saudita prima di precipitare rovinosamente nel vuoto. Vedremo.

Nel frattempo è interessante notare come anche gli sport si facciano mangiare in modi differenti. E se per i golfisti per mesi ha infuriato il dibattito tra quelli che accettavano di passare a LIV e quelli che decidevano di rimanere leali a PGA, come durante la scissione di un partito, per i calciatori almeno pubblicamente questo dibattito non sembra esistere. È perché il calcio è ormai moralmente compromesso? O è perché è uno sport popolare, in cui l’arricchimento è dato per scontato? O magari è per la fede dei primi calciatori che si stanno trasferendo in Arabia Saudita, quasi tutti musulmani? Anche questo è un livello del discorso che esiste. D’altra parte, è questa la ragione che ha esplicitamente dato Karim Benzema al suo trasferimento, e se in Europa sarà derubricata come una foglia di fico, sono sicuro che in Arabia Saudita le verrà dato un peso molto diverso.

Forse ha pesato anche l’umiliante sconfitta mediatica subita dalle Nazionali europee che hanno tentato di sollevare un dibattito etico sui Mondiali in Qatar a legittimare l’ignavia, o nel migliore dei casi, l’indifferenza dei calciatori. A permettergli di non finire sotto il fuoco incrociato dei microfoni spianati. Sarà anche per questo che l’Arabia Saudita sta seguendo per filo e per segno la strada già tracciata dai suoi invidiati vicini, che dopo i dissapori degli ultimi anni nei fatti gli stanno rendendo la vita più facile.

Questa stagione calcistica ha segnato la vittoria delle monarchie del Golfo. Il Mondiale in Qatar è stato un successo da quasi tutti i punti di vista. La Champions League è stata vinta da una squadra di proprietà degli Emirati Arabi Uniti. E adesso l’Arabia Saudita sembra intenzionata a prendersi ciò che sente suo di diritto. Se i trofei servono a qualcosa è a segnare l’inizio o la fine di un’era. Si è a lungo parlato di sportwashing, cioè che tutto questo impegno e questi soldi nello sport servissero a distogliere i nostri occhi, gli occhi cioè del mondo occidentale, dalle malefatte di questi regimi. Ma ora che ci siamo definitivamente dentro a questo mondo - dove lo sport celebra l’influenza politica e diplomatica, e allo stesso tempo permette di guadagnarla - abbiamo capito che lo scopo è più grande.

Poche ore dopo la finale di Champions League, sulla facciata del più importante grattacielo di Dubai, il Burj Khalifa, è apparsa gigante la bandiera della Russia (per celebrare «la ricca storia, la vibrante cultura e le straordinarie conquiste della Russia»), lasciando sconcertati molti commentatori occidentali - inermi davanti alla gigantesca libertà politica che poteva concedersi questo minuscolo stato desertico che è riuscito a conquistarsi un suo posto al centro del mondo. La notizia è che gli Emirati lo abbiano fatto - che quindi non abbiano avuto paura delle reazioni del mondo occidentale - ma anche che noi ci siamo indignati. Che in sostanza gli abbiamo riconosciuto un’autorità morale. Con il nuovo ruolo degli Emirati, insomma, abbiamo già iniziato a fare i conti, e lo stesso si può dire del Qatar. Presto sarà così anche per l’Arabia Saudita. Il motivo è semplice. Come ha detto un membro della famiglia reale saudita al New York Times: «Piaccia o no, siamo al centro di un sacco di cose che succedono in giro per il mondo».

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