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(Sestriere, Italia, 18 luglio 1992)
Nei primi mesi del 1992 uscì un album di Lorenzo Jovanotti dal titolo Lorenzo 1992. Quel disco conteneva anche la bellissima Estate 1992, un piccolo manifesto delle estati di inizio anni Novanta che sapevano essere tanto semplici quanto generose di emozioni e avventure. Di promesse, in una sola parola. In questa canzone Jovanotti si domandava dove saremmo andati in vacanza: «a Ostia? A Fregene? O forse a Rimini o Riccione?» Ricordo che ogni volta che sentivo quella strofa io rispondevo tra me e me che sarei stato con ogni probabilità a pedalare sulle bollenti strade del Tour de France, immerso in un oceano di girasoli mentre molti italiani si organizzavano per andare in ferie. E infatti fu proprio così.
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Mi sveglio il 18 luglio a Saint-Gervais-les-Bains canticchiando un’altra canzone contenuta sempre in quell’album: «Tempo, comunque vadano le cose lui passa e se ne frega se qualcuno è in ritardo, puoi chiamarlo bastardo ma intanto è già andato». Quel giorno ho una buona sensazione e questa canzone che non se ne va dalla mia testa e che si intitola Non m’annoio non fa che confermarmelo. Di tempo e noia di lì a poco non ci sarà proprio traccia. Quello è il giorno dell’arrivo a Sestriere, si sconfina in Italia e voglio fare bella figura nel mio Paese indossando la mia adorata maglia a pois. Quel giorno il mio obiettivo primario era proprio quello di tenere al sicuro la maglia, c’erano tanti gran premi della montagna e sapevo che raccogliendo punti lungo la strada avrei potuto mettere un’importante ipoteca sulla vittoria della classifica riservata al miglior scalatore. Una maglia che in Francia conta tantissimo. C’è anche un modo di dire dentro la Grande Boucle che recita così: «la maglia gialla è per tutti, quella a pois è per pochi». E io che le ho indossate entrambe posso dire di essere d’accordo.
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Quel giorno prima del via mi cercò con insistenza una troupe di Antenne 2 per farmi una breve intervista. Nell’ascoltare la mia voce mentre rispondevo alle domande della giornalista mi scoprii meno loquace del solito. E io sono uno che parla tanto e con tutti e con i media non si risparmia mai. Scoprii in quel mio atteggiamento così chiuso qualcosa che non avevo ancora capito dal mio corpo. Ero nervoso e teso. Non ero solo concentrato. Volevo che quel giorno tutti i miei sensi fossero sul chi va là. Sentivo una strana elettricità nell’aria e dovevo essere pronto a cavalcarla. Mi diedi come obiettivo di stare davanti al gruppo per tenere meglio la situazione sotto controllo e reagire a qualsiasi situazione di pericolo si fosse venuta a creare. Alla fine di quell’intervista mi chiesero una previsione sulla mia gara. Io diedi una risposta secca, ma esaustiva: «Oggi faccio un casino».
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Ero concentrato e non vedevo l’ora di attaccare le scarpette ai pedali e iniziare quella giornata una volta per tutte. Nei mesi precedenti, ancora prima del Giro d’Italia, avevo provato tutta quella tappa e tutti i 255 chilometri. Era la più lunga di quell’edizione e con il maggior dislivello della storia della competizione, almeno fino a quel momento. Insomma quel 18 luglio sul mio calendario era cerchiato in rosso da diverso tempo. Come le date che contano, quelle da ricordare o quelle in cui deve succedere qualcosa. Volevo vincere e sapevo che quel giorno avrei fatto davvero di tutto per riuscirci.
Prima di continuare con il racconto di questa giornata così importante devo chiarire una cosa. Io quel giorno non attaccai. O almeno non lo feci di proposito. Quello che è successo e di cui parliamo ancora oggi non fu un’operazione programmata, perché nel mondo del ciclismo non si programmano certe cose. Solo un pazzo avrebbe pensato che un uomo di classifica come me sarebbe potuto entrare in una fuga del genere, riuscendo a portarla a termine e per di più programmandola a tavolino. Certe cose, che ci si creda o meno, succedono e basta. Sta a chi vive la situazione in quel momento gestirla e cavalcarla. I miei figli direbbero che mi sono ritrovato in una situazione e che poi ho soltanto «seguito il flow». Mi limitai quindi a restare con i corridori che in quei primi chilometri cercavano di smuovere un po’ le acque e alla fine ci ritrovammo in fuga. Non c’erano gli auricolari e tutte le informazioni arrivavano dalle moto e da radio corsa se riuscivi a stare vicino all’ammiraglia. Quando mi accorsi di essere davanti e con un discreto margine rispetto al gruppone ero già all’inizio della seconda salita di giornata. Ma non c’era un bel clima dentro la fuga e la colpa era mia. Ero l’uomo di classifica, rappresentavo l’elemento di disturbo perché sapevano che prima o poi qualcuno da dietro si sarebbe organizzato per venirmi a riprendere, facendo automaticamente fallire la fuga.
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Decisi allora che era arrivato il momento di iniziare con qualche gioco di strategia insieme al mio compagno di squadra Fabio Roscioli. Volevo testare le condizioni degli altri corridori e chiesi a Fabio di forzare l’andatura. Fu nella seconda salita che di fatto si iniziò a delineare la grandezza di quella giornata. Il gruppetto si frazionò ulteriormente. “Ma come – pensai – mi state maledicendo perché sono quello che farà fallire la vostra fuga e poi alla seconda salita vi staccate?” Restai soltanto con Virenque e Cabestany, quest’ultimo compagno di squadra di Bugno che ovviamente non aveva alcun interesse a partecipare all’azione. Anche Virenque aveva delle riserve. Lui era il compagno di squadra di Pascal Lino che era in maglia gialla da dieci giorni, ma era abbastanza scontato che quel giorno l’avrebbe persa. Cercai di far leva sul suo orgoglio: era francese, quella era una tappa importante, poteva giocarsi la vittoria con me o prendere punti per la maglia a pois. Ma contrariamente a come andarono le cose con Sorensen nella fuga della Milano – Sanremo, stavolta non riuscii a entrare nel cervello del mio avversario. Poco male. Pensai che ormai valeva la pena provarci. Feci uno scatto e lasciai quei due al loro destino. Mancavano otto chilometri alla vetta dell’Iseran e ancora centoventisei chilometri di strade di montagna da percorrere. E faceva caldo. Un caldo infernale.
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Intanto in Italia si sparse la voce che il sottoscritto era in fuga. E che quella non era una fuga come le altre. Era qualcosa di più grande e si capì da subito che, nel bene o nel male, non sarebbe stata una normale giornata di sport, tanto che il 125 Tg1 delle ore 13 diede la notizia in apertura, come fosse l’aggiornamento di un’edizione straordinaria. Ancora oggi, anche chi non ha mai seguito il ciclismo, sa cosa è successo quel giorno, che è esistita quella giornata. Viaggiando tanto incrocio molte persone. Tante, ovviamente, sono digiune di ciclismo e non mi riconoscono, ma quando dico il mio nome lo collegano al ciclismo e automaticamente anche a Sestriere. Tutto in quel giorno viaggiò col passaparola. La radio e la tv raccontavano la mia fuga in diretta, era sabato e molte persone non lavoravano. C’erano milioni di italiani davanti al televisore: si telefonarono, si cercarono e si aggregarono frettolosamente. Qualcuno lo veniva a sapere al bar e correva a casa sul divano, interi stabilimenti balneari si fermarono e le televisioni dai chioschini venivano spostate con qualche accrocchio di fortuna fin sulla spiaggia per farle vedere al maggior numero possibile di persone. La stessa cosa accadde nelle hall degli alberghi, in alcuni rifugi di montagna e nei ponti dei traghetti dei viaggiatori diretti verso la Sicilia e la Sardegna. Nel 1992 non c’erano i social e nemmeno Internet. Ero io il social network in quel momento.