“Tenuto in un piccolo vaso il pesce rosso rimane piccolo.
In uno spazio maggiore esso duplica, triplica o quadruplica la sua grandezza”
[Edward Bloom, “Big Fish”, 2001 – citato all’inizio di ogni capitolo]
Intro
Dicono che quando uno incontra una ‘stella’ il tempo si fermi. Ed è vero
Quando accadde a noi era un nuvoloso martedì dell’ottobre 2006. Il 24, per la precisione. Eravamo accorsi, come i pastori a Betlemme, al PalaLido di Milano per assistere a quei pochi sacri minuti in cui Sua Divinità Michael Jordan si sarebbe manifestato dal vivo. L’occasione era l’arrivo dell’unica tappa italiana del famoso “Jordan Classic”, con MJ per una volta scomodatosi come ambasciatore nel tour internazionale per adempiere ai suoi impegni di uomo Nike.
L’evento, una sorta di All Star Game dei migliori Under16 italiani, era naturalmente un male necessario cui gettavamo sguardi distratti, in ansiosa attesa del Jumpan Logo in carne ed ossa sul parquet milanese. A dirla tutta, anche quelle poche occhiate le rivolgevamo al giocatore sbagliato, col senno del poi. Tommasino Ingrosso, ala toscana dinoccolata del Benetton Treviso, ci stava conquistando grazie a un intrigante mix di altezza e trattamento della palla. Solo un avversario in canotta nera provava a tenergli testa, un biondino un po’ più tosto fisicamente e altrettanto dinamico palla in mano, nettamente superiore al resto dei compagni di squadra. Il loro duello, era chiaro a tutti, avrebbe decretato l’MVP dell’incontro e il conseguente invito al camp di specializzazione americano sempre sotto il brand Jordan.
Il tempo si fermò, dicevamo, quando Nicolò Melli a.k.a. il biondino partì dall’ala in uno contro uno contro Ingrosso. Un palleggio. Arresto fulmineo in due tempi. Tiro in sospensione. E canestro dalla fluidità disarmante.
Tutto il PalaLido, Milano, l’universo si arrestarono.
Nik in aria, immobile, il polso spezzato.
Ingrosso poco distante, a contestare invano il tiro.
Gli avversari e il pubblico fermi a guardare, incuriositi.
Scavalcai le transenne e scesi in campo. Volevo vedere meglio questa “stella” che improvvisamente aveva iniziato a brillare così fulgidamente. Attento a non sfiorare nessuno, mi avvicinai a Nicolò Melli, scrutandone la meccanica di rilascio congelata lassù. Morbida, con l’indice destro a indicare il ferro. Vidi le braccia tese, i muscoli contratti, i riccioli d’oro mossi dal salto. I piedi ancora troppo vicini tra loro. Poi vidi il volto sbarbato da bambino cresciuto, gli occhi azzurri vispi e concentrati.
E dietro Michael Jordan – sedutosi dopo l’arrivo in ritardo all’intervallo lungo – anche lui immobile, lo sguardo stranamente attento. Ne approfittai per farmi un selfie senza nessun bodyguard ad interferire, prima di tornare da Nik. A 15 anni, con la prima panchina in Serie A inserita nel curriculum a 13 e il premio di co-MVP (l’altra “metà” andò proprio a Ingrosso, che oggi gioca in B nell’Urania Milano) ricevuto direttamente dalle sante mani di Michael Jordan, Nicolò Melli era già una stella.
Quello che non dicono è che quando il tempo si rimette in moto va a doppia velocità per recuperare.
Capitolo 1 – 1991-2007
La verità è che nessuno sapeva cosa avessi. Di solito uno cresce un po’ alla volta, mentre io andavo di fretta.
Proprio della primissima convocazione in A parla l’allora capo allenatore della prima squadra di Reggio Emilia, Fabrizio Frates, che il 24 ottobre 2004 – esattamente due anni prima – porta Melli in panca per la prima volta stabilendo un record: «Chiamammo Nik a 13 anni per la trasferta di Pesaro (sconfitta di 4) semplicemente per due motivi: ad inizio stagione avevamo grossi problemi con atleti influenzati, e Nik stava facendo talmente bene a livello di settore giovanile che si meritava un premio. Ecco, fu un riconoscimento per quanto stava facendo. Ovviamente non era ancora pronto per scendere in campo, ma dal punto di vista fisico era evidente sin da subito che avesse grande predisposizione, potenziale e talento».
Gli fa eco coach Andrea Menozzi, che ha avuto Nik alla Pallacanestro Reggiana dal minibasket e per quasi tutte le giovanili come responsabile del Settore Giovanile (ruolo ricoperto tutt’ora). L’unica volta che sono stati “avversari” fu proprio nel famigerato giorno del “Jordan Classic” quando, invitato ad allenare una delle due rappresentative, aveva «fatto le squadre come al campetto» con l’altro coach – il mitico Giordano Consolini, guru del nostro basket giovanile -, constatando che forse quella di Menozzi era «leggermente più scarsa», come ci ha detto divertito il Jordan dei giovani italiani.
Un ironico capovolgimento rispetto alla quotidianità, considerato che Consolini con la classe ‘91 della sua Virtus Bologna si scontrava abitualmente con la Reggio di Menozzi. «Era un talento naturale», prosegue Andrea. «Su questo né io, né Max Olivieri, né lo staff tecnico del nostro settore giovanile abbiamo mai avuto dubbi. Un ragazzo che doveva essere allenato ma allo stesso tempo lasciato libero di giocare ed esprimersi, cercando di accompagnarlo nel suo percorso di crescita fisico e tecnico. Infatti, onestamente parlando, la nostra mano e il nostro lavoro si vedono molto di più in giocatori come Riccardo Cervi che in Nik, che era dotato di un talento superiore».
Una naturalezza che, come in altri casi eccellenti, affonda le sue radici in un DNA formidabile, composto dai geni di papà Leo, ex cestista proprio di Reggio Emilia, e mamma Julie Vollertsen, statunitense e argento olimpico con la nazionale di pallavolo alle Olimpiadi di Los Angeles ‘84. Una miscela esplosiva, che produce un figlio sovradimensionato sin da tenera età nel fisico e completamente immerso ed affascinato dalla cultura sportiva che si respira in casa: «A casa mia si parla 25 ore su 24 di sport» ha ricordato Melli in una conferenza stampa, condizione quotidiana che, unita alla sua intelligenza, lo fanno presto emergere.
«Nik, come potrete immaginare, alle giovanili era una forza della natura. Volendo avrebbe potuto portare palla e segnare quasi in ogni azione, ma cercavamo di ampliare le sue scelte “invitandolo” a giocare spalle a canestro» racconta Menozzi, introducendo il grande punto interrogativo della prima parte della sua carriera: ala piccola o ala grande? «A quei tempi Nik era ancora snello, e si ipotizzava anche un ruolo di “3” nel suo futuro: questo era dovuto principalmente al fatto che fosse molto leggero, seppur alto, ma con quelle lunghe leve, come si potrebbe notare anche nella postura di un Gallinari, era difficile pensare che potesse stare piegato costantemente.»
Lampi del Nik Melli dominante delle giovanili, tra Reggio Emilia e la nazionale.
Il problema della postura e del baricentro saranno due tematiche fondamentali nello sviluppo di Nik, ma intanto il figlio d’arte impressionava in campo e stupiva per la sua versatilità legata ad una coordinazione evidentemente genetica, seminando le basi per un futuro da “point forward” di caratura internazionale, incentivato dallo staff di Reggio: «Avere un ragazzo con la sua altezza a portare palla magari non lo avrebbe reso un playmaker, ma di sicuro un giocatore – e col senno del poi un’ala – migliore. Il post basso non era la sua zona preferita del campo, ma giocare in area era determinante per completarlo come giocatore. Per questo molto del lavoro fatto con lui riguardava l’uso delle gambe e dei piedi, il piegarsi, il muoversi rapidamente, magari accoppiandolo in partita con esterni avversari più bassi» spiega sempre Menozzi.
Una completezza che anche Giordano Consolini (che da assistente di Ettore Messina l’ha avuto di recente con la Nazionale per il pre-olimpico) non manca di sottolineare: «Durante il famoso torneo di San Lazzaro Under-17 rimasi colpito: a quell’età non avevo mai visto nessuno con quella statura, padronanza tecnica e un bagaglio così completo». Una superiorità che lo porta direttamente a dominare il secondo livello del basket italiano, la LegaDue, a maggiore età ancora lontana, ovviamente sempre con Reggio Emilia. «Probabilmente il suo inserimento in L2 a 16 anni è arrivato in anticipo rispetto ai tempi naturali, anche se era difficile frenare il suo esordio in un contesto senior: purtroppo il livello pro consentiva molti meno sbagli rispetto alle giovanili per ovvi motivi, costringendo Nik a fare meno cose e quindi anche a rallentare uno sviluppo che, purtroppo, si arrestò bruscamente a causa del primo infortunio al ginocchio contro Sassari a fine 2008.»