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Serie A Fabrizio Gabrielli 13 dicembre 2021 8'

Beto è in stato di grazia

Arrivato in sordina, il centravanti dell’Udinese sta vivendo un momento di forma eccezionale.

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Ogni anno, nel nostro campionato, approdano una serie di calciatori di cui ignoriamo quasi tutto della vita precedente, compilation di giocate su YouTube a parte. Arrivano dalla periferia del calcio per appropriarsi delle nostre periferie, piazze lontane dal clamore delle aspettative, squadre che sanno fare a meno del talento cristallino, dove nessuno si aspetta il successo immediato. Si materializzano accompagnati, spesso, da proclami d’umiltà magniloquenti. Non sono quasi mai deus ex machina, ma sempre una scommessa.

 

Norberto Bercique Gomes Betuncal, o più semplicemente Beto, all’Udinese – che su giocatori ingaggiati con questa dinamica ha costruito una reputazione, e una fortuna –  è arrivato abbandonando il campionato in cui stava già giocando, la Liga NOS portoghese; mollando la sua squadra, il Portimonense Sporting Club, in corsa: aveva già disputato 3 partite, segnando due gol. Lo avevano cercato, sembrerebbe, le tre grandi di Portogallo, cioè Porto, Benfica e Sporting. Invece ha scelto l’Udinese, che gli offriva un’opportunità a suo dire irripetibile, con il plus di evitare grossi traumi, perlomeno cromatici, dal momento che già quando indossava la maglia bianconera della squadra dell’Algarve sembrava stesse vestendo i colori dei friulani.

 

SL Benfica v Portimonense SC - Liga NOS

Ho una teoria sul fatto che certi calciatori scelgano le squadre in base ai colori, un giorno magari ne scrivo (Gualter Fatia/Getty Images).

 

Il momento in cui Beto si rivela appieno al suo pubblico italiano, in cui mi verrebbe da dire ci esplode tra le mani, è effettivamente un momento da cristallizzare. È inizio dicembre, e nonostante non sia riuscita a battere la Lazio, pur essendo stata in vantaggio di due reti (finirà 4-4), l’Udinese ha strappato un punto importante all’Olimpico, giocando la prima mezz’ora del primo tempo a un ritmo annichilente. Il mortaio di quell’assalto repentino e devastante è stato proprio Beto.

 

Quando l’ho visto di fronte alle telecamere, subito dopo quella prestazione sontuosa che finora è stata la sua migliore in Serie A, ho subito pensato a una mangusta: gli occhi con un leggero ricciolo sinoidale, il volto appuntito, una sinuosità verticaleggiante. Chissà che a spingermi verso questa deriva mustelide non sia stato il dolcevita sotto la giacca, che lo faceva somigliare così tanto a Smarty della Toon Patrol di “Chi ha incastrato Roger Rabbit?”. La mangusta ha lo sguardo furbo e ficcante di chi saprebbe metterti a tuo agio, rapirti con la sua affabilità, magari intrattenere una conversazione brillante e divertente, e poi darti dimostrazione di un’insospettabile litigiosità, giusto qualche minuto dopo, di fronte a un cobra: una riottosità capace di spingersi fino alla feralità. La mangusta, in altre parole, non suscita nessuna forma di rispetto: però, sa come guadagnarselo.

 

Beto, il rispetto, l’ha guadagnato con questo gol?

 

«Sono un giocatore completo, ma anche incompleto», dice lui. Ride, poi, e lo fa spesso. Sembra molto simpatico, ha un approccio positivo, fuori dal campo, così diverso dalle istantanee che lo ritraggono in campo, dei piccoli dagherrotipi di minacciosità. Quando gli fanno rivedere il suo secondo gol, questo qua sopra, commenta, senza riuscire a nascondere un moto di orgoglio: «Questo è un gol alla Beto».

 

Nonostante fosse l’occupazione che più detestavo alle medie, cercherò di fare la perifrasi di questa affermazione: «Avete visto quella corsa in progressione tremenda, con cui ho preso un metro ai difensori – io, con questo fisico pesante, con questa struttura, alto due metri – e poi la maniera con cui ho saltato il portiere? Ecco: voi non ve lo aspettavate, ma questo è ciò che so fare meglio, e che faccio più spesso».

 

«Un gol alla Beto», detta in quel momento, sarà stato il tono forse, è stata una frase che ha fatto sorridere. Anche perché ora, nel momento in cui la ascoltiamo, ci dobbiamo fidare di Beto Betuncal: i gol che abbiamo visto finora, in Italia, non lo avevano mai rivelato sotto questo punto di vista. Eravamo abituati a fissare un bocciolo, e un bel giorno ci siamo trovati in giardino un’orchidea dischiusa?

 

Pochi minuti prima lo avevamo visto segnare di testa (lo aveva fatto anche con l’Atalanta, e con il Bologna). Di testa, paradossalmente, è stato anche il suo primo gol segnato con la maglia della Portimonense, al Do Dragão, contro il Porto, un gol autorevole, prestigioso in maniera inversamente proporzionale alla grazia con cui, in mezzo tuffo, si era accartocciato. Dico paradossalmente perché il colpo di testa sembra il fondamentale sul quale lo stesso Beto afferma di voler migliorare di più, forse semplicemente per liberarsi dal cliché dell’attaccante alto che segna solo svettando (in effetti, qua con il Nacional, va a prendere con la gamba un pallone che poteva tranquillamente spingere in porta di testa). 

 

Il gol di Oporto succedeva soltanto un annetto fa, e c’è chi dice che da lì sia partita l’ascensione della sua parabola. Guarda la telecamera, con le mani mima una M. Si batte il petto, con rabbia. Per il resto, da noi, non avevamo visto che tap-in piuttosto scontati, come con il Sassuolo, o come con la Samp, la sua prima rete italiana. Anzi: a guardarlo meglio, il gol al Marassi, non è poi così semplice, perché il pallone quando gli arriva incontro è a quell’altezza in cui puoi calibrare male il colpo di sponda ed esporti alla figuraccia. Lisciare il pallone, o mandarlo sopra la traversa, a sbattere contro la rete che protegge la curva. 

 

Per ritrovare «un gol alla Beto» avremmo dovuto aspettare un’altra occasione importante, la sfida contro il Milan primo in classifica a Udine. E Beto si è ripetuto, anche se in una maniera meno eclatante: l’allungo è stato comunque decisivo, poi ha rallentato, e di fatto sbagliato la conclusione. La fortuna dei rimpalli, contro Maignan e Tomori, è forse la cristallizzazione più adamantina dell’assunto che quando sei in stato di grazia la palla rimane attaccata ai tuoi piedi.

 

Forse, con «gol alla Beto», Beto non intende solo quel tipo di gol, ma anche il contesto, che deve essere all’altezza.

 

Beto, come molti giocatori della sua stazza, finisce sempre per risultare un po’ dinoccolato. Ma non del tipo snodabile à la Crouch, à la Kanu, à la Adebayor: Beto, alla lunghezza delle leve, all’apparente interminabilità delle braccia, unisce una struttura muscolare possente, una presenza massiva, importante. Beto non è un servo muto: è un quattro ante. 

 

«Quando è arrivato da noi era goffo», dice l’uomo coi denti gialli. «Aveva poca coordinazione motoria, alto, magro, con poca qualità… però era un ragazzo squisito», continua, mezzo commosso. L’uomo coi denti gialli, intervistato in uno di quei documentari strappalacrime che cavalcano la retorica dell’è-tutto-cominciato-da-qua, è il presidente dell’União de Tires, la squadra di quartiere a metà strada tra Lisbona e Cascais. A Cascais, sulla costa, Beto è cresciuto. A Lisbona, come tutti i ragazzi, ambiva a trasferirsi. A Tires, nel mezzo, ha iniziato a giocare a calcio, e ha poi trovato rifugio ogni volta che il calcio sembrava deluderlo. Quando Beto Betuncal subiva una battuta d’arresto, Tires era il rifugio da cui ripartire dopo aver scontato il peccato di superbia. 

 

Il presidente racconta che quando Beta aveva sedici anni, dopo una stagione passata nelle giovanili del Benfica, si erano incontrati su una spiaggia della costa. «Presidente io voglio tornare da voi», gli aveva detto il ragazzo, deluso. «Non sono meglio degli altri. Sono uguale agli altri». Al Benfica lo avevano respinto, troppo poca qualità nei suoi piedi, troppo poco talento. 

 

Beto ai tempi dell’União. Molte falcate difficili da catturare anche per la telecamera, ma anche una certa mediocrità tecnica che, insomma, direste che quel Beto potesse diventare un professionista? 

 

Gli dicevano macaco. Ne*ro. Schiavo. «Ma non mi hanno mai fatto né caldo né freddo: rispondevo con i gol». Perché Beto, per segnare, segnava, anche se la qualità del suo calcio, le abilità tecniche non fossero proprio spiccatissime. Per aiutarlo ad affinare la tecnica, Luis e Bruno Lopes, i suoi allenatori all’União, lo facevano allenare con delle palline da tennis: gliele lanciavano e lui doveva controllarle, tirare, segnare. Il concetto di base è che se fosse riuscito a farlo con le palline, con la sfera non avrebbe più avuto problemi.

 

Montijo è un paese che s’allunga, spianata di case basse, sul Tago. Beto si trasferisce là nel 2018: l’Olimpico gioca in terza serie, e non nutre particolari ambizioni. Sa di avere delle lacune: proprio come Beto. E si impegna per migliorare: proprio come Beto. Nella sua stagione a Montijo, segna 21 reti. Sommate alle 13 che metterà a segno con la Portimonense, e alle 6 con l’Udinese, fanno 40 reti, tonde tonde. Un po’ poche, per definire un canone. Come sarebbe, quindi, esattamente, un “gol alla Beto”?

 

In questa compila di reti segnate col Montijo: autotreni pieni di pickup dietro la porta avversaria; qualche bel colpo di testa; un tiraccio dal limite che diventa un assist. Qualche corsa a leve spiegate.

 

La verità è che un canone vero e proprio, forse, non c’è, e “un gol alla Beto” è più una categoria filosofica: un gol ottenuto grazie all’impegno, alla perseveranza, a una costanza nel processo di automiglioramento che ti porta a fare qualcosa per cui il pubblico sente di doversi alzare in piedi, e applaudire. Se c’è qualcosa che ha imparato a Tires, e poi a Montijo, Beto, è la resilienza. «Se volevo restare nel mondo del calcio non potevo continuare a essere me stesso, dovevo cambiare. E i gol sono arrivati con le partite, con gli allenamenti, con l’evoluzione». Il corsivo di “evoluzione” è mio: in cosa, precisamente, Beto dice che doveva cambiare? Forse nel ridimensionare il suo ego? Nello scendere a patti con la necessità, a volte, di un bagno di umiltà?

 

«Sono un attaccante che ha le capacità per fare tutto. E imparare a fare tutto. Gioco profondo, gioco di supporto, sono alto, veloce e forte», dice di sé Beto, presentandosi ai tifosi della Portimonense. E credo che la verità più importante non sia la prima, quanto la seconda: la sua completa dedizione all’apprendimento.

 

Credere in se stessi è la prima e fondamentale mossa del pedone per andare a perseguire lo scacco matto dell’autorealizzazione. Nel club dell’Algarve, Beto sembra già qualche passo più avanti nella consapevolezza di sé: è veloce, certo, e non è scontato, per un calciatore della sua stazza. Quando parte in progressione ha quella rapidità inattesa, e un po’ inquietante, degli struzzi che ti sorpassano mentre guidi per una strada sterrata della savana. Ma soprattutto, nonostante siano passate una manciata di settimane, di mesi, ha acquisito un certo peso specifico: è diventato il cestista dell’NBA che prende la rincorsa per andare a schiacciare a canestro.

 

L’essenza di Beto è nell’ordinarietà del repertorio da attaccante con un po’ tutto al posto giusto, ma mai eccezionale. La mezzarovèga volante contro il Tondela, però, è molto bella, forse proprio perché insospettabile.

 

Nel gotha dei suoi modelli svetta Eto’o, anche se – dice – «il mio gioco non è simile al suo, ma voglio imitare la sua capacità di impegno, il lavoro». Per il resto gli piacciono Lukaku e Diego Costa. I carri armati, insomma. Quello che lui, in fin dei conti, è senza esserlo davvero del tutto. «Ho velocità, forza, tecnica; ma un po’, un po’, un po’».

 

In questo elogio dell’incompiutezza, che non è tanto un’ammissione di incapacità quanto piuttosto una preghiera quotidiana, propellente al miglioramento, c’è forse tutto Beto Betuncal. Che anche quando esulta col «the silencer» di LeBron, alla fine della fiera, lo fa con discrezione, umilmente, ammettendo di appropriarsene solo quando pensa che quel gol possa essere decisivo.

 


Non lo sappiamo se Beto Betuncal diventerà mai quel tipo di giocatore che domina in mezzo ai difensori avversari, con l’allure del bulletto di quartiere che si infila nella partita dei dodicenni brutalizzandone il divertimento. Per adesso ci accontentiamo della sua semplicità, della sua ordinarietà, del suo essere struzzo – esotico, eppure familiare – che si gode il momento, senza a tutti i costi dover vestire, ogni settimana, i panni del basilisco. 

 

 

Tags : betoudinese

Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.

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