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Nikhil Jha
Benvenuti nel mondo della pallapugno
21 giu 2023
21 giu 2023
Uno sport che ha origini nel Medioevo.
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Nikhil Jha
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IMAGO / Gabriele Facciotti
(foto) IMAGO / Gabriele Facciotti
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Te l'echeggiante arena e il circo, e te fremendo appella ai fatti illustri il popolar favore; te rigoglioso dell'età novella oggi la patria cara gli antichi esempi a rinnovar prepara.

Giacomo Leopardi, A un vincitore nel pallone, 1821

Mentre si appoggia una nocciola al labbro, Jocao è sovrappensiero. La testa è piena di preoccupazioni: ormai da settimane attende la PEC che gli confermi la nuova cittadinanza italiana. È l’ultima eredità del nonno di Reggio Emilia, emigrato a Sastre, un piccolo paese 600 chilometri a nord-ovest di Buenos Aires. Il piano era chiaro: venire in Italia grazie a un prolungato gemellaggio tra Sastre e Monticello d’Alba, eredità della forte immigrazione piemontese in quella zona dell’Argentina, e di qui avviare le pratiche per la richiesta di cittadinanza. Con quella sarà molto più libero, potrà girare l’Europa, magari andare in Spagna. Fino ad allora, però, senza macchina e con pochi soldi, Jocao non può che restare quieto a Monticello: grande come la sua Sastre, ma con le colline del Roero al posto dell’esasperante pianura dell’estremità settentrionale della Pampa. Non il massimo della vita, per un trentatreenne che vive di musica. Ma pure a Monticello, almeno la domenica, qualcosa si muove. Una combriccola di signori più o meno anziani si assiepa all’ingresso di uno strano campo con un muro che corre alto alto per novanta metri. È lo sferisterio di Monticello, e al suo interno si celebra il rito ultracentenario della pallapugno. Jocao decide di passare lì almeno una parte di quei pomeriggi piemontesi che sembrano non finire più: tiene qualche nocciola in un pugno e un bicchiere di Nebbiolo nell’altro, mentre sente quei signori attorno a sé agitarsi. Non capisce il motivo – le regole di quel gioco gli sono ancora oscure, e tali rimarranno – ma forse capisce il senso. E Monticello d’Alba svela la sua identità. La pallapugno è il linguaggio attraverso cui queste terre parlano della propria storia, delle proprie tradizioni, di chi erano e di chi stanno diventando – in definitiva, di sé. Si esprimono con il lessico di questo rito celebrato nel basso Piemonte e nella Riviera di Ponente, con radici che corrono fino all’Antica Roma, che si espandono fino a Valencia, che si nutrono delle parole spese per loro da Leopardi. Jocao Vaccari queste cose non le conosce, ma forse le percepisce. E le racconta come sa, secondo un ritmo litoraleño che parla di Argentina, ma con un testo che racconta forse l’esperienza più piemontese che ci sia (e forse anche quella più italiana, ma ci arriviamo).

***

Ripenso alle regole del gioco, il giorno in cui prendo la direzione di Canale, in provincia di Cuneo, verso la prima partita di pallapugno della mia vita. Rispetto a Jocao ho il vantaggio dell’italiano e di qualche minuto di partita vista su internet, più qualche accenno storico recuperato dalla solida bibliografia sul tema. Per esempio, so che sto per assistere a uno dei più autentici spettacoli d’Italia, dove la palla si prendeva a pugni ben prima che a calci, sul modello degli antichi greci importato dai romani e diffusosi in tutta la penisola dal ‘500 in avanti. Jocao ha ragione: il funzionamento del gioco è ostico, agli inizi. Si gioca su un campo lungo e stretto (90 per 18, più o meno), protetto da un lato da un muro e se necessario da una rete metallica, per un’altezza di almeno 12 metri. L’andamento dei punti è tennistico: 15, 30, 40, gioco. L’obiettivo è colpire il pallone con il pugno (ma va’) e mandarlo più lontano possibile, al volo o al salto (cioè dopo un rimbalzo): se il balon (pronunciato balun) finisce oltre il fondo del campo, si segna un’intra e un 15 diretto. Se invece il pallone esce dai lati senza prima toccare terra, è fallo e si assegna il punto all’avversario. Negli altri casi (intercetto dopo più di un rimbalzo, oppure palla fuori dopo aver toccato terra) si pone un contrassegno (detto caccia) all’altezza di dove si è fermata o è uscita la palla. Quando il numero di cacce in campo è uguale al numero minimo di punti necessari per chiudere il gioco si cambia campo, e si giocheranno le cacce: ovvero ciascuna squadra dovrà intercettare il pallone, o farlo uscire, davanti alla caccia. In quel caso, vincerà il punto. La prima squadra a vincere 9 giochi (nelle finali 11, in passato anche 13) avrà vinto l’incontro. Facile no? Mentre le ruote scorrono su pezze d’asfalto con diverse sfumature di grigio, inizio a percepire una pesantezza dello spazio circostante, un suo spessore. Lunghi rettilinei si alternano a tratti in cui l’ingegno umano ha dovuto piegarsi alla natura, assecondando i rilievi sempre più accentuati che dalla pianura attorno Torino introducono alle colline del Roero, area geografica di cui Canale è capoluogo. Intuisco densità nello spazio che attraverso, la pienezza di quegli spazi vuoti: le colture che non so riconoscere, i territori immobili, intuisco dettagli che mi sfuggono. Mi sento strappato via dallo spazio caleidoscopico della città, dove ogni distanza è virtuale, dove le svolte i palazzi gli incroci cancellano i punti di riferimento, dove il contratto antropologico per la ricerca di uno spazio proprio viaggia sempre sul filo del collasso. Canale appare dietro una curva, i suoi confini ben più netti di quelli sfumati, invisibili ma più familiari, della metropoli. Non c’è periferia che si dirada, l’abitato comincia e finisce con chiarezza. Lo sferisterio potrebbe mimetizzarsi, se non fosse per quell’alta rete metallica che supera i tetti delle case che si affacciano sull’altra parte del parcheggio. Vedo arrivare i primi giocatori, li seguo con curiosità. Li vedo riscaldarsi, fare l’appello davanti agli arbitri, avvolgersi con cura il pugno con una fascia di gomma, entrare in campo salutando il pubblico. Canale e Bormidese si stanno per affrontare per l’esordio stagionale in Serie A.

Pausa tra due punti a Canale

La pallapugno si gioca in quattro: il battitore si dispone alle spalle dei suoi compagni, e ha il compito di gestire tutti i palloni più profondi. Ad accompagnarlo c’è una spalla, che solitamente gestisce i palloni centrali più corti, e due terzini: il primo al muro, il secondo al largo, e cioè dal lato degli spalti. Nonostante ciascun ruolo abbia propri compiti e prerogative, non c’è dubbio che ogni partita giri attorno ai due battitori: il loro scambio continuo è l’architrave di ogni punto, il cui esito permette a una squadra di guadagnare campo, o lo costringe a perderlo. Secondo molti, non c’è squadra abbastanza forte che possa compensare l’inferiorità evidente del proprio battitore rispetto all’avversario. Tanta è la centralità del ruolo che spesso, negli almanacchi, i risultati affiancano i nomi dei battitori prima ancora delle squadre che rappresentano. Anche le regole provano a bilanciare l’abilità del battitore, concedendo metri aggiuntivi in battuta al più debole, oppure costringendo i battitori più vincenti ad accompagnarsi con spalle e terzini con meno vittorie nelle ultime stagioni, o addirittura esordienti in Serie A. Una sorta di salary cap. Quello del battitore è il ruolo più professionalizzato nella pallapugno. Paolo Vacchetto, che rappresenta Alba, mi racconta che durante la stagione (da aprile a novembre, per chi arriva in fondo in campionato) la sua routine si articola secondo cinque giorni di allenamenti a settimana, talvolta doppi, in preparazione della partita. L’offseason parte due settimane dopo la fine della stagione precedente, e assomiglia in tutto e per tutto a quella di qualunque atleta professionista. Altri ruoli, dal minor dispendio atletico, hanno requisiti meno stringenti: Lorenzo Bolla, terzino al muro di Alba, mi racconta che da quest’anno rinuncerà all’allenamento in palestra, mantenendo esclusivamente l’impegno per gli allenamenti tecnici di squadra, due volte a settimana: è l’unico modo per coniugare pallapugno e il lavoro nella sua azienda agricola. Naturale, penso, l’azienda agricola. Ovunque c’è pallapugno, ecco questo legame che ritorna con la terra, con gli elementi, un legame primordiale, non primitivo. Il fondo degli sferisteri è composto da una ghiaia sabbiosa, rimando quasi sfacciato a un tempo contadino antecedente a quello dei borghesissimi prati inglesi, troppo verdi per essere veri in queste terre a un passo dal Mediterraneo. La ghiaia è nemica e alleata: provate a tuffarvi su un pallone vagante, e le vostre ginocchia non vi ringrazieranno. Tiratele un calcetto, e dallo sbuffo potrete vedere dove tira l’aria, un altro dei quattro elemento al centro dei discorsi di pubblico e addetti ai lavori. Massimo, che conosco alla fine della partita di Canale, mi ammonisce sulle difficoltà di andare a giocare in Liguria: i battitori liguri conoscono la Tramontana del Ponente, sanno come farla girare a proprio favore.

La biglietteria all'ingresso dello sferisterio di Canale.

La ghiaia è anche eredità della tradizione pluricentenaria che ha forgiato lo sport, prima come intrattenimento delle classi agiate e poi sempre più popolare. Durante il Medioevo, in ogni paese rimbalza il pallone, una sfera piena d’aria con l’involucro di cuoio, più elastica della pila romana, ma non abbastanza per colpirla con il braccio nudo. Per questo ogni giocatore si accompagna con un bracciale dentato in legno, che caratterizza, appunto, le partite di pallone col bracciale, l’avo più prossimo della pallapugno. Si gioca in ogni via larga, ogni piazza stretta. L’importante è che abbia un appoggio, che siano le cinta murarie, il duomo in piazza, un qualunque palazzo coi suoi balconi, le sue sporgenze, le sue tegole. Quando qualcuno si lamenta dei palloni vaganti, in molte parti d’Italia si fa valere l’istituto dell’Immemorabile: se in una via o in una piazza si è sempre giocato a pallone dacché chiunque ne ha memoria, così dovrà continuare a essere in futuro. Il pallone, in fondo, piace a tutti: ai giocatori e agli appassionati naturalmente, ma anche alle istituzioni civili ed ecclesiastiche. Lo giudicano uno strumento di svago che non arreca danno allo spirito né a Dio, ma che anzi fortifica il corpo ed esprime virtù. All’inizio dell’Ottocento, poi, in Piemonte nasce l’idea di produrre una palla in caucciù, leggera e maneggevole: non c’è più bisogno del pesante e costoso bracciale per colpirla, basta un leggero bendaggio che copra la mano. Il bracciale cede in fretta il passo e resta vivo soltanto in Toscana, ma resta ancora per decenni nella memoria collettiva: tra le 92 statue che circondano lo Stadio dei Marmi del Foro Italico a Roma, una viene scolpita col bracciale sull’avambraccio destro. In Piemonte e Liguria la storia del pallone sfocia in quella del pallone elastico, come era chiamato lo sport che oggi è la pallapugno. Sul campo, intanto, la Canalese soffre, mostrando i limiti di essere una squadra assemblata da poco. È evidente quanto il battitore – e soprattutto, la sua fiducia – incida nell’esito del gioco, ma anche quanto sia importante per la squadra tenere la barra dritta quando la situazione si complica e le distanze si assottigliano. Dopo la pausa, però, la Bormidese si perde («siamo andati in palla», mi dice il suo direttore tecnico Giorgio Caviglia), mentre la Canalese riacquisisce sicurezza e risultato, vincendo d’autorità sotto l’applauso sollevato del pubblico di casa. Da par mio, sono completamente rapito dal gesto con cui il pugno colpisce la palla, paragonabile a un dritto del tennis che scappa verso l’alto invece di chiudersi sopra la spalla. Comincio a mimarlo in soggiorno appena rientrato a casa; la mia ragazza mi becca, con un certo imbarazzo di entrambi.

***

Una partita, però, non mi basta. Dopo qualche giorno mi ritrovo ad Alba, capoluogo delle Langhe, per la sfida tra la squadra di casa e Cuneo. Lo Sferisterio Mermet – dal nome del suo fondatore – dista pochi passi dalla stazione, in pieno centro. È normale, penso, che questo piccolo catino si sia dovuto difendere negli anni dalle mire di costruttori e urbanisti, attratti da un’area così ampia, così appetibile sul mercato immobiliare. Quando è stato costruito, i rapporti di forza erano ben diversi: era un fiore all’occhiello avere un tale impianto incastonato nel cuore della città. Il Mermet arriva dall’epoca d’oro del pallone, quando la popolarità del gioco costringeva le municipalità di mezza Italia a dedicargli spazi appositi.

L'ingresso dello sferisterio Mermet di Alba

Gli sferisteri sono ancora oggi onnipresenti in Italia. Spesso sono nascosti dall’evoluzione dello spazio che li circonda, ma pur sempre lì, come una piccola cicatrice sul ginocchio di un bambino, che non andrà più via. Altrove vengono gloriosamente riconvertiti: è il caso dello Sferisterio di Macerata, che ancora mantiene il suo nome pur se oggi è un meraviglioso teatro all’aperto. Gli elementi fondativi sono ancora tutti lì – l’alto muro, il rettangolo allungato del campo di gioco, i palchi per gli spettatori che sembrano, quelli sì, davvero nati per il teatro. Guardarlo stimola domande vertiginose: che cosa sarà la Bombonera tra duecento anni, quando forse il calcio non interesserà più a nessuno? Proprio a Macerata Giacomo Leopardi assiste a una partita di Carlo Didimi, il miglior atleta dell’epoca, e gli dedica la poesia A un vincitore nel pallone. Prima d’ogni altro sport in Italia, il pallone lega gli strati bassi e quelli alti della società, regala ai suoi migliori interpreti fama e ricchezza e li consegna a una narrazione mitica che ambisce all’eternità. Con attitudine medioevale, ogni sferisterio conserva peculiarità e piccoli difetti, crepe da cui trasuda la storia di ciascuno. Non è approssimazione, ma rifiuto della standardizzazione: ad Alba, la rete metallica non corre uniforme per tutta la lunghezza del campo, ma è inframezzata da parti di muro stesso, elemento di congiunzione con le case circostanti. Poco dopo la metà campo, una gobba – detta pupa – nel muro ne rompe la linearità, e introduce un elemento di disordine fastidioso per i battitori ospiti. In Liguria, la battuta avviene tenendo il muro alla propria destra, in Piemonte il contrario. Se il battitore di casa è mancino, però, le coordinate si ribaltano: sempre che ci sia spazio, nello sferisterio, per una seconda area di rincorsa.

Vista del campo e del muro ad Alba.

Sono differenze che a volte fanno chiedere a un novizio: “Ma questo vale?”. Sempre ad Alba, dopo la pupa la rete non si alza a filo con il muro, ma qualche centimetro più dietro, lasciando un piccolo cornicione di spazio dove il battitore più smaliziato può far correre il pallone a una dozzina di metri di altezza, costringendo gli avversari impotenti ad arretrare. Certo che vale: al Mermet si fa così. Ad Alba ritrovo molte facce che avevo già visto a Canale. Non c’è un vero e proprio tifo, nella pallapugno. La squadra di appartenenza è spesso secondaria: spesso ci si divide sui campioni, prima ancora che sui paesi che rappresentano. Oppure, ogni giorno, si studia la partita più interessante, si prende la macchina, e tra una collina e l’altra ci si ritrova, stesse facce stesso sferisterio stesso bar. «Che vuoi che faccia, sono in pensione», mi racconta un signore che – sussurrano – nei suoi anni da imprenditore ha saputo divertirsi molto con le donne e con l’erario. Vizi e virtù sono di dominio pubblico, come in ogni paese, e il pubblico della pallapugno sembra un paese a sé, o meglio una Babele del basso Piemonte: da Canelli, da Santo Stefano Belbo, da Monteu Roero, ogni sabato e ogni domenica la riunione si aggiorna e si trasferisce di sferisterio in sferisterio. «Domani a Ceva» aggiunge il mio nuovo amico, in un tono che miscela sollievo e rassegnazione. Il mormorio è costante, la partita passa spesso in secondo piano. Ci si ritrova come in un salotto all’aperto, con gradoni in pietra come divani e seggiolini in plastica come sedie. Qualcuno resta fermo a scambiare chiacchiere sul posto, qualcun altro si aggira tra i vari capannelli: un saluto affettuoso qui, una stretta di mano là. Se le due chiacchiere diventano quattro e poi otto e poi sedici, allora si tirano verso di sé i faldoni della giacca e ci si accomoda – le gambe incrociate, il petto verso l’amico, la partita al proprio lato. Gli occhi si dividono tra l’interlocutore e le parabole del balon, mentre la conversazione procede interrompendosi solo per le giocate più spettacolari, ma comunque sempre ritrovando il filo del discorso. Mica si parla soltanto di pallone, anzi. Ascolto qualcuno rievocare le sedute spiritiche di Romano Prodi durante i giorni convulsi del rapimento Moro, qualcun altro riflette sulle capacità di Skriniar di impostare l’azione dal basso – meno che scolastiche, a suo parere. Le opinioni si rincorrono, sempre declamate con sicurezza ma grande garbo, perfino eleganza. E spesso in piemontese stretto, ahimè privandomi degli strumenti basilari della comprensione. Ma non è soltanto una questione di dialetto: la vera chiave d’interpretazione della lingua franca di questa Babele piemontese sta nella punteggiatura dei suoi silenzi. Ogni conversazione contiene momenti di vuoto che nascondono una comune comprensione delle cose del mondo, a cui solo la condivisione di radici ed esperienze dona l’ingresso. Le frasi hanno un ritmo tutto loro, si interrompono all’improvviso ritrovandosi un po’ più in là. Le parti sembrano non accorgersi della discontinuità, come quando, guardando una fila di tetti dall’alto, la prospettiva cancella una strada che li separa. Tra quelli che camminano di più c’è un signore piuttosto anziano, con una giacca sportiva dal tessuto grezzo, dalla cui tasca interna estrae tre taccuini. È lo scommettitore, erede di una tradizione che era il pilastro su cui si reggeva il pallone elastico, prima di rischiare di diventarne il principale fattore di declino. Chi oggi si appassiona alla componente sportiva della pallapugno non ama parlare delle scommesse e anzi prova a ignorarle, ma la loro presenza è pervasiva – seppur contenuta. Non ci sono quote, ogni scommessa (un tempo traversa) è un testa a testa: qualcuno propone una giocata, e il Nebo (così lo chiamano) l’appunta sul proprio taccuino. Si scommettere su chi vincerà la partita, ma anche sui giochi che riuscirà a guadagnare questo o quel battitore. “Sette otto Battaglino”, dice uno: se il battitore di Cuneo farà almeno otto giochi o più vince lui, a sette pareggio. Il Nebo allora si attiva e comincia ad aggirarsi tra gli spalti, senza fretta ma senza sosta. Non trasmette carisma, ma sa il fatto suo. Si intrattiene con gruppetto, e quasi per caso presenta a uno dei componenti le puntate da raccogliere. Se quello accetta, il Nebo estrae taccuini e portafoglio, segna tutto, e allunga la mano per ricevere le banconote, anche quelle con tre cifre stampate sopra. Lui – ça va sans dire – tratterrà una percentuale.

Gabbiotto in un angolo dello sferisterio di Alba utilizzato un tempo come totalizzatore, ovvero come posto

Oggi, mi rassicurano, non è niente in confronto a quello che succedeva una volta, diciamo fino alla fine degli anni ’70. In un’epoca senza sponsor, l’unico modo per i giocatori di guadagnare dalla pallapugno era prestarsi al gioco: si scommetteva anche sull’esito del singolo punto – questo me lo racconta Massimo, quello della Tramontana ligure – mentre i terzini al largo, quelli dal lato degli spettatori, raccoglievano nei calzettoni le monetine che venivano appositamente lanciate nello sferisterio, assicurandosi di fare del loro meglio per favorire le scommesse. Nel tempo l’influenza delle scommesse (sul gioco e sugli spettatori) è andata scemando, e oggi è solo l’ennesimo pretesto per stare insieme, una perpetua tombola di Natale. “Senza scommesse, io me ne resto a casa”, ribadisce qualcuno. La partita scorre veloce: Cuneo ha perso 9-1, e con loro chi ha scommesso sugli otto giochi di Battaglino. Lo sferisterio si svuota lentamente, mentre i giocatori si avvicinano agli spalti e salutano amici, familiari, e quelli che a furia di vederli una settimana sì e una no sono diventati un po’ gli uni e un po’ gli altri. Gli estranei come me, d’altronde, sono pochi: la linfa della pallapugno scorre attraverso il passaparola, soprattutto dentro le famiglie. Quelli che non hanno ereditato la passione dal padre, l’hanno presa dallo zio, o dal fratello – non è uno sport a trazione femminile, anche se la federazione organizza campionati assoluti e giovanili di entrambi i generi. In pochi si appassionano alla pallapugno da fuori, e questo ad oggi è forse il maggiore pericolo che grava sullo sport: quando in un paese una squadra si estingue, è difficile farla rinascere con nuove leve. Per questo, l’attività della pallapugno si articola a macchia di leopardo, e a paesi dove la tradizione è forte e viva si alternano, sull’altro versante della collina, luoghi in cui il gioco è semisconosciuto. “Si era fatto qualche anno fa un progetto con le scuole che aveva funzionato bene. Bisognerebbe ricominciare”, suggerisce un giocatore che preferisce non entrare in polemica con la federazione. Lo Sferisterio, sito dedicato alla pallapugno e dintorni, trasmette una partita su YouTube a settimana. C’è un app per seguire i risultati in tempo reale. “Con più risorse si potrebbe fare molto di più”, mi dice Luca Giaccone, che de Lo Sferisterio è il responsabile web. Nel tentativo di non soccombere al presagio di morte, gli appassionati si aggrappano alla sua ripetitività: in fondo sono settant’anni che si grida alla sua fine, ma – tutto sommato – la pallapugno è ancora lì, e le sue difficoltà economiche e di partecipazione non sono estranee alle altre realtà dello sport dal vivo (escludendo la Serie A di calcio), vasi di coccio tra i vasi di ferro dell’intrattenimento contemporaneo. Il tramonto del pallone comincia verso la fine dell’Ottocento, e cioè da quando dall’Inghilterra alcuni marinari hanno portato questa moda passeggera di prendere il pallone a calci, invece che a pugni. Il pallone appariva sempre più vecchio, la sua lucentezza rinascimentale ossidata, il duello rusticano tra battitori oscurato dai collettivi del calcio. La pallapugno è così finita in periferia, ma non nel dimenticatoio. Uscito dal Mermet, Fabio Gallina de Lo Sferisterio mi accompagna nel centro di Alba, mi indica lo storico bar in piazza del Duomo che ha condiviso il proprietario col Mermet per lunga parte del Novecento, prima di evolvere in un bar da aperitivo come milioni nel mondo. Poco più in là, al centro di un’altrimenti anonima rotonda, sta la statua di Augusto Manzo, leggenda di Alba, nell’atto di preparare la battuta.

La statua di Augusto Manzo in piazza Monsignor Grassi ad Alba

Manzo ha vinto otto scudetti nel secondo dopoguerra – e sarebbero stati ben di più se non avesse deciso, a un certo punto, di trasferirsi in Toscana per giocare al bracciale, più remunerativo. È considerato il più grande giocatore della storia, anche se negli ultimi anni l’ascesa di Massimo Vacchetto, fratello del Paolo che ho presentato prima, il miglior giocatore del presente, sta smuovendo un paragone tanto impossibile quanto divertente. Scovare nella statua di Manzo tracce di un Eden perduto è facile, e anche giusto: forse la pallapugno farà in tempo a estinguersi prima che un altro giocatore venga scolpito e issato al centro di una rotonda qualunque. I tempi degli sferisteri pieni, e ancora più indietro delle poesie di Leopardi, sono finiti. E probabilmente neanche le visite del Gabibbo aiuteranno a far esplodere la pallapugno nel mondo. Eppure in questa dimensione – nuova nell’orologio della storia d’Italia, consueta per noi contemporanei – il pallone conserva ancora le sue funzioni: custode della tradizione, salotto a cielo aperto, compagno di vita. Parla la lingua delle sue terre, che si capisce pure se siete un musicista argentino o un torinese confuso. Terre di vino, nocciole e colline, dove ogni giorno rimbalza il balon.

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