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Redazione
Bentornato, Mancio?
21 nov 2014
21 nov 2014
Quattro domande su Roberto Mancini, neo-allenatore nerazzuro, tra dubbi e grandi speranze.
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È una bella domanda. Se con "allenatore forte" si intende un allenatore capace di plasmare un club a propria immagine o di portare undici giocatori a superare i loro limiti, facendoli rendere più di quello che valgono, allora Mancini non è un allenatore di quel livello. Non è nella stessa conversazione a cui appartengono i Guardiola, i Mourinho e i Ferguson di questo mondo. La sua carriera è lì per dimostrarlo. Quando ha vinto i trofei pesanti della sua bacheca, Mancini lo ha sempre fatto guidando la squadra più forte della competizione per distacco. Lo era l'Inter del dopo-calciopoli, una squadra fortissima che, rispetto al livello di quella Serie A, diventava illegale per il solo fatto di schierare Ibrahimovic. Lo era, seppure in un campionato molto più duro, il Manchester City che ha vinto la Premier all'ultimo secondo dellla stagione 2011/2012. E, oltretutto, nessuna di queste due squadre dimostrava sul campo un'impronta manciniana tale da farci mettere tra parentesi la qualità superiore dei loro organici (che è il "trucco" che riesce a Guardiola). Ciononostante, a Mancini (e ad Oriali) qualunque interista deve riconoscere la bontà di alcune intuizioni di mercato che hanno creato l'ossatura dell'Inter del Triplete, in particolare Cambiasso e Maicon, due giocatori arrivati quasi in sordina che si sono rivelati dei fenomeni. Detto ciò, finché Mancini ha allenato un'Inter normale in un campionato italiano competitivo, non si è particolarmente distinto per i risultati (ricordo una stagione di pareggite acuta) ma neppure per l'incompetenza. Anzi, rispetto a chi lo aveva preceduto, a quanto ricordo Mancini era comunque riuscito a dare una blanda parvenza di organizzazione e carattere a una squadra e a una società che all'epoca erano del tutto deficitarie sotto questi aspetti. Poi, appunto, è arrivata Calciopoli e da lì sono arrivati gli scudetti e con gli scudetti in Italia è arrivata la chiamata in Premier alla guida di un progetto sontuoso. Quindi diciamo che Mancini ha anche avuto "fortuna" in quel periodo. Una "fortuna" che ha in parte "dopato" la sua carriera e la percezione che ne abbiamo. Ed è così ci troviamo nel 2014, otto anni dopo Calciopoli, con il dubbio se Mancini abbia avuto solo culo o se quel culo se lo sarebbe comunque meritato altrimenti. Insomma credo che qualunque giudizio sulla carriera di Mancini sia inevitabilmente troppo condizionato dall'anomalia "calciopoli" e dalle sue conseguenze per poter dire con certezza a che categoria/fascia di allenatori appartiene oggi o apparterebbe al netto di quell'anomalia; e, in un certo senso, questa opportunità che gli si presenta ora di rilanciare un'Inter mediocre potrebbe essere proprio quello che serve a tutti noi per chiarirci un po' le idee sulla questione.

 



 


Roberto Mancini è un ottimo allenatore perché ha vinto molto (13 trofei in 13 stagioni) ed ha vinto in ogni squadra che ha allenato (anche con Fiorentina e Lazio). C'è da chiedersi: avrebbe potuto vincere di più? Probabilmente sì, soprattutto con Manchester City e Galatasaray, e soprattutto nelle competizioni europee. E' vero che gli effetti di Calciopoli rendono molto difficile valutare la sua bravura, ma mentre l'Inter di Mancini si faceva eliminare per due volte consecutive negli ottavi, il Milan vinceva una Champions League e la Roma arrivava due volte ai quarti di finale (con una rosa molto meno ampia e ricca). Qualche dubbio sulle sue qualità è più che fondato.
Mancini non è un allenatore "speciale", su questo concordo pienamente con Cesare: non vedi mai il suo marchio sulle squadre che allena, e passa senza rimpianti tra gli stessi giocatori (non ho mai letto di un giocatore che rimpiangeva Mancini, a parte alcuni suoi fedelissimi). E' il classico allenatore gestore, secondo la famosa categorizzazione di Sacchi: le sue squadre sono un insieme di grandi giocatori, ma nulla di più.
Eppure è strano, perché la sua carriera era iniziata in modo diverso. La sua prima Fiorentina era in effetti una squadra molto rinunciataria (e la finale di Coppa Italia contro il Parma fu emblematica al riguardo, ma quando si vince si ha sempre ragione, almeno così dicono), ma con la Lazio, questa impressione sembrò affievolirsi: nonostante (anche in questo caso) le precarie condizioni societarie, sembrava puntare su una solida organizzazione di gioco. Non era di certo il totaalvoetbal, ma un buon collettivo organizzato, tanto da qualificarsi in Champions League ed arrivare in semifinale di Coppa Uefa nella prima stagione, e vincere la Coppa Italia nella seconda. Poi, con il passaggio all'Inter, il lento ma progressivo abbandono del gioco collettivo, che culminerà con il "palla lunga ad Ibrahimovic" delle ultime partite della stagione 2007-2008.
Mancini aveva iniziato un po' per caso ad allenare: aveva smesso con il calcio dopo aver vinto lo scudetto nella Lazio di Eriksson, di cui divenne vice per la stagione successiva. In fondo anche il suo mentore svedese, dopo aver centrato il triplete con il Goteborg con un calcio basato sull'importanza dell'organizzazione di gioco e della supremazia del collettivo sull'individuo, aveva progressivamente abbandonato questa impostazione per affidarsi alla gestione dei talenti. Forse Mancio l'ha conosciuto troppo tardi. Era il suo vice, ma a metà dell'opera, però, decise di andare al Leicester in Premier League, da giocatore: dopo appena un mese e 4 partite giocate, ritornò sui suoi passi per andare ad allenare la Fiorentina (con grandi polemiche sull'assenza del patentino e non solo). Voglio sottolineare che Mancini non era neppure troppo sicuro di fare l'allentore, ecco.
Il suo Manchester City non riuscì mai a schiodarsi da uno scolastico 4-2-3-1, che a volte diventava 4-3-1-2, e che puntava molto sulle linee di passaggio per vie centrali, con grandi difficoltà nell'impostazione iniziale di gioco. Ci furono diversi tentativi con la difesa a 3, non di grande successo, soprattutto perché i giocatori non ne erano affatto convinti. Come giustamente sottolineavamo, in Europa il Manchester City non è riuscito ad andare oltre gli ottavi di finale di Europa League, sempre eliminato nei gironi (seppur con l'attenuante della scarsa esperienza e del sorteggio di conseguenza difficile), mentre il Chelsea vinceva una Champions.
È vero che il City di Pellegrini non sembra troppo distante da quello di Mancini, ma fossi in lui non me ne farei proprio un vanto: l'allenatore cileno potrebbe essere prossimo all'esonero, sebbene stia almeno provando a dare un'identità alla propria squadra, cosa che prima sembrava mancare completamente.
Di sicuro, il ritorno di Mancini all'Inter ci permette di valutare meglio le sue capacità: con poche grandi individualità, e con molti giovani di grande prospettiva, il ruolo dell'allenatore non può confinarsi a quello di semplice gestore di risorse. A quanto pare, ha iniziato a lavorare da subito al 4-3-1-2, e forse vedremo un Vidic almeno decente e non il fantasma di questi mesi. All'Inter mancano forse i terzini: Dodò (che in qualche modo potrebbe ricordare Maxwell per eleganza) nella difesa a 4 della Roma creava sempre un vuoto alle sue spalle, e Jonathan sulla destra sembra troppo offensivo. È probabile che D'Ambrosio avrà molto più spazio (ha giocato nel Toro con la difesa a 4, sia a sinistra che a destra) e forse anche Nagatomo. Nei tre di centrocampo vedremo molto più spesso Guarin, unico vero interno in rosa, e se Mancio avrà coraggio forse Hernanes, oltre all'interno (un po' statico) potrebbe fare persino il regista. In realtà, temo che finirà per contendersi il posto da trequartista con Kovacic, lasciando così eternamente irrisolto il dubbio sul suo ruolo, dietro le due punte Palacio e Icardi.
Tutto sommato, è un modulo che può ben adattarsi alla qualità della rosa, nonostante qualche problema: ed in fondo, il 3-5-2 di Mazzarri, dopo più di un anno sembrava non essere ancora assimilato dai giocatori, se non persino rigettato. Questa squadra ha più qualità di quanto si sia visto finora, adesso sta a Mancini tirarla fuori e riportare l'Inter in rotta con gli obiettivi stagionali.

 



 


Credo vada chiarito da subito un punto fondamentale: il Galatasaray di Mancini non sarebbe dovuto essere, nelle intenzioni di inizio stagione, il Galatasaray di Mancini - perché era il Galatasaray di Fatih Terim. Non so quanto possa avere influenzato i risultati ottenuti a fine campionato, però a noi interessa nella misura in cui è un po’ la stessa situazione in cui si trova oggi Mancini andandosi a sedere sulla panchina ancora intiepidita dalla presenza di Mazzarri; lo stesso scenario in cui si era già trovato a Firenze nel 2001 - anche allora era subentrato a Terim a stagione in corso.
(Ho un aneddoto personale su Terim. Nel 2009, poco dopo la sconfitta con il Belgio per colpa della quale la Turchia ha visto sfumare la qualificazione ai Mondiali sudafricani, ero a pranzo in un locale fighetto nei pressi del Gran Bazaar a Instanbul, e pochi tavoli più in là c’era lui che sorseggiava un çai con altre tre persone. Evidentemente il tavolo che aveva occupato era già prenotato, visto che il cameriere si è avvicinato - visibilmente imbarazzato - per chiedergli di lasciare gentilmente il posto. Però è una scena che ho visto mentre pagavo il conto, quindi non so come l’abbia presa né se al suo posto, al tavolo, si sia seduto poi, che ne so, Roberto Mancini).
Ci si potrebbe chiedere: è capace, Mancini, di prendere le redini di una squadra

e guidarla al successo? Intendo dire: senza preparare la lista della spesa prima dell’inizio della stagione. Con la Fiorentina era arrivato a vincere una Coppa Italia. E in Turchia? Vediamo.
Mancini veniva da un addio velenoso al Manchester City, in estate era stato accostato con insistenza, tra le altre, alla panchina della Roma (che ha poi scelto di virare su Garcia). Forse aveva già fatto le prove allo specchio con una sciarpa giallorossa, ed effettivamente - con buona pace dei tifosi romanisti - gli donava; dev’essere per questo (oltre che per i dollari promessi da Ünal Aysal) che ha accettato la sfida e si è trasferito sotto il ponte di Galata.
I turchi, sotto la guida di Terim, avevano vinto solo una gara su cinque di campionato ed erano stati sconfitti con un flamboyante 1-6 dal Real Madrid.
Terim giocava con un 4-4-2 abbastanza canonico: Mancini non è uomo da rivoluzioni tattiche, e non ha fatto che confermarsi, come hanno già sottolineato Cesare e Emiliano, gestore. Forse con poco mordente, o almeno poco rispetto alle abitudini che hanno laggiù a Costantinopoli. Specie nelle gare di Champions League (che sono poi quelle in cui ho avuto modo di vedere all’opera il Galatasaray) spesso si è affidato a un prudentissimo 4-5-1, con esterni di difesa che sembravano avere due nastri esplosivi legati alle caviglie pronti a detonare laddove avessero superato la tre quarti campo avversaria, due mastini a centrocampo come Felipe Melo e Inan e tutto il fardello del gioco lasciato alla fantasia e all’ispirazione di Wes Sneijder o alla vena da cecchino di Didier Drogba. Eppure per funzionare, almeno in Europa, alla fine della fiera ha funzionato: il Galatasaray è riuscito a qualificarsi agli ottavi - eliminando la Juventus nella famosa gara sospesa e ripetuta per via della neve - e si è piegato, dopotutto con onore, solo davanti al Chelsea di Mourinho.
Certo, non si può dire che Mancini a Istanbul abbia funzionato tout court: al traguardo finale è riuscito a far mettere i nastrini giallorossi solo sui manici della Coppa di Turchia, non su quella della Süper Lig, e gli affezionati dell’Ali Sami Yen hanno tagliato gole (in senso lato, s’intende) per molto meno.

 



 


La nuova Inter di Mancini

con il trequartista dietro le due punte e la difesa a quattro. Ora che lo sappiamo, riconosciamo che sbirciare le amichevoli e gli ultimi allenamenti sia in assoluto l’operazione più noiosa e nociva per l’entusiasmo attuale e ritorniamo ad usare la fantasia. A me, ad esempio, piacerebbe che l’Inter giocasse con il 4-2-3-1, perché così giocava il Galatasaray di Mancini, e a me piaceva il Galatasaray di Mancini e le somiglianze, a volerle trovare, ci sono.
Un problema evidente dell'Inter di questi anni è stata l’incollocabilità connaturata ad alcuni giocatori-chiave, schiacciati poi dalla sovrastruttura dello schema di Mazzarri. Un leitmotiv delle analisi sulle difficoltà dell’Inter

. Un

, nel glossario dei fallimenti sportivi, è un giocatore da cui ci si aspettava un certo tipo di cose e che per qualche motivo misterioso si trova a farne delle altre. Vidić dovrebbe stamparselo sopra il suo numero 15.
Mancini al Gala è riuscito a inserire in mediana un giocatore

come Felipe Melo e sulla sinistra un giocatore

come Sneijder in un sistema che poggiava sul moto perpetuo del trequartista

Selçuk İnan. Il giocatore

dell'Inter è Guarín, la cui aggressività incosciente può essere vitale (in un sistema, però, che ne riduca i rischi): l’azione che conduce al

che decide la finale Coppa di Turchia nasce da un break di Melo che palla al piede dalla propria area si proietta nell’altra metà campo tirando dritto, una breccia tra le linee avversarie che mi ha ricordato l’azione di Guarín che precede il 2-2 di Palacio contro il Torino (

a 3:17, purtroppo solo a metà). Un augurio che mi faccio è non vedere mai più il

con due a scelta tra Medel, M’Vila e Kuzmanović: rimettiamo Guarín al centro del villaggio. Il nostro

invece è Hernanes, manifesto dell’incollocabilità, che sulla sinistra potrebbe soffrire meno l’aggressività che trova negli spazi centrali, sfruttare le sue

, e se possibile rientrando fare

. È stato un investimento importante, non ne sono mai stato convintissimo, ma tenerlo fuori è impensabile. Infine, il trequartista

è Kovačić, i cui problemi a mio modesto avviso finiranno il giorno in cui ci si smette di domandarsi come farlo rendere al meglio e si prova a insegnargli cosa fare per rendere al meglio, in questo caso evitare di tornare indietro a rubare il pallone dai piedi dei compagni di squadra e cercare spazi (urge attaccargli all’armadietto un

firmato Xavier Hernández).
Sempre per ragioni di sovrastruttura, questa squadra difetta gravemente di esterni, ed è probabilmente questa la ragione principale per cui Mancini sta pensando di giocare senza.

 

Adesso devo dire una cosa forte: come nei film horror c'è sempre qualcuno che consiglia ai protagonisti di allontanarsi il prima possibile dalle case infestate (consiglio mai ascoltato), anticipando l’imminente strage, proverei ad applicare questa strategia su Palacio, allontanandolo dalla porta (in questo caso il fantasma, il poltergeist, è quello del

). Riuscisse a riproporre

con una certa frequenza, e in ogni caso sarebbe grasso che cola, Palacio potrebbe essere l’esterno destro che manca.
Concludo con un accorato e personalissimo appello: con la premessa che Pablo Zabaleta prima di incontrare Mancini non era

, ovvero un giocatore sempre sul podio dei miei oggetti di venerazione, rimane il problema che se a sinistra giochi con Dodô sulla destra un minimo di velleità difensiva vuoi garantirtela. Allora rilanciamo Hugo Campagnaro. Devo valorizzare la maglietta che comprai con il suo nome, io ne sono innamoratissimo. Lo sono anche di Mancini.
Bentornato Mancio.

 

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