Sarebbe davvero cambiato qualcosa se Ben Simmons avesse schiacciato quel pallone invece che passarlo?
Se avete seguito i playoff dell’ultima stagione, sapete già a quale azione mi riferisco: a 3 minuti e mezzo dalla fine di gara-7 contro gli Atlanta Hawks, con i Philadelphia 76ers sotto di due lunghezze, Ben Simmons invece di tirare da solo sotto il canestro passò il pallone a Matisse Thybulle, prontamente mandato in lunetta dalla difesa degli Hawks - tramutando due punti già fatti in un solo tiro libero a segno - e tenendo sotto i Sixers nel punteggio nella volata finale, senza che fossero più in grado di rimettere la testa avanti o pareggiare.
È stato il culmine, o per meglio dire il nadir, dell’esperienza di Ben Simmons con la maglia dei Philadelphia 76ers, e se tutto andrà come vuole lui sarà anche l’ultima immagine con cui verrà ricordato nella Città dell’Amore (poco) Fraterno. Dopo la partita sia Joel Embiid che coach Doc Rivers hanno esplicitamente criticato Simmons, il primo dicendo che quel tiro mancato era stato l’episodio decisivo della partita e il secondo rispondendo «Non so rispondere» alla domanda se l’australiano potesse essere la point guard di una squadra da titolo. Non è usuale vedere un membro della squadra di quell’importanza “gettato sotto il bus” da due esponenti così importanti della franchigia, specie dopo che Rivers per tutta la stagione lo aveva difeso a spada tratta da ogni critica, e per alcuni anche dal possibile inserimento nello scambio per James Harden che poi non si è concretizzato.
Forse davvero se Simmons avesse segnato quel tiro, se i Sixers fossero passati alle finali di conference e poi se la fossero giocata con i Milwaukee Bucks, qualcosa nel rapporto tra Simmons e la squadra che lo ha scelto al Draft nel 2016 sarebbe cambiato per il meglio. Ma più probabilmente qualcosa si era già rotto da tempo, e quel tiro è stato solo il punto di non ritorno di un rapporto che si era già inevitabilmente compromesso.
L’inizio della fine, o la fine e basta.
L’unicità è un’arma a doppio taglio
Se si tolgono le prime due partite della serie contro gli Hawks, Ben Simmons ha tentato solamente un tiro dal campo nei quarti periodi da gara-3 in poi, nei quali è rimasto in campo per 44 minuti complessivi. Ed è pur vero che tirare non è mai stato il forte dell’australiano, ma è la mancanza di aggressività che ha dimostrato ai playoff nella metà campo offensiva è stata deprimente, deteriorando di partita in partita il suo impatto in campo.
Bisogna pur dire che Simmons ha cambiato la serie con Atlanta con la sua difesa su Trae Young, ma non è bastato a compensare quanto ha tolto al resto della squadra nella metà campo offensiva — un discorso che solitamente si fa al contrario, con straordinari giocatori offensivi che azzoppano la squadra in difesa. È uno dei tanti aspetti in cui Simmons si rivela come un giocatore unico in tutta la NBA: non esiste un altro ibrido tra il playmaker e l’ala forte di quelle dimensioni e di quella fluidità di movimento in campo, capace di marcare ogni ruolo avversario e di guidare il contropiede con soluzioni geniali ma anche di passare intere azioni senza mostrare il minimo battito cardiaco in attacco.
L’unicità, a volte, può essere un’arma a doppio taglio: essendo effettivamente unico, bisogna costruire e allenare attorno a Simmons una squadra in grado di esaltarne in pregi e nasconderne i difetti, primo tra tutti una cocciuta e per certi versi ancora inspiegabile ritrosia a tirare in sospensione da qualsiasi distanza (a volte, come abbiamo visto ai playoff, proprio del tutto). Per essere un giocatore convocato per tre volte all’All-Star Game, Simmons è la stella meno “plug and play” della lega: ha bisogno di tiratori e di qualcuno che corra con lui in campo aperto, di un certo tipo di lunghi che sappiano lasciargli spazio nel dunker spot dove va a rifugiarsi quando non ha la palla, e allo stesso tempo di un altro palleggiatore che sappia gestire gli attacchi a metà campo ma che non gli tolga comunque contatto con il pallone, lontano dal quale non è mai migliorato — anzi forse è pure regredito.
Il grosso problema è che fino a questo momento Simmons con le sue prestazioni ai playoff non ha giustificato che una franchigia si impegni su di lui fino al punto da costruirgli attorno il resto del roster. È la differenza che esiste tra un All-Star e una superstar: Simmons è certamente una stella, non fosse altro perché competerà per il premio di Difensore dell’Anno per il resto della sua carriera, ma non è visto come quel tipo di giocatore intorno al quale vale la pena costruire il resto del roster. O, peggio ancora, per il quale vale la pena sacrificare i propri migliori asset — in termini di giocatori e di scelte al Draft — pur di prenderlo sul mercato. Per capirci: Ben Simmons non è Anthony Davis né tantomeno James Harden, venendo visto come uno che alza il livello minimo della squadra (un cosiddetto floor raiser) ma non come un giocatore franchigia con il quale puntare al titolo. E questo ha reso il lavoro del capo della dirigenza dei Sixers Daryl Morey particolarmente complicato.
Le carte nel mazzo di Daryl Morey
La scorsa settimana il Philadelphia Inquirer ha reso noto al mondo che Ben Simmons non solo ha chiesto di essere ceduto, notizia nota a tutti ormai da mesi, ma di voler forzare la sua cessione promettendo di non presentarsi nemmeno al training camp previsto per fine settembre, anche a costo di essere multato per ogni giorno di assenza non giustificata. Questo ha tolto ai Sixers una carta importante nel mazzo del grande gioco del mercato: quella di mantenere lo status quo. I playoff di Simmons sono stati talmente evidenti nella loro bruttezza da distruggere il suo valore di mercato, facendo quasi dimenticare quanto sia speciale il suo gioco e quanto comunque possa funzionare in un contesto di alto livello.
https://twitter.com/dmorey/status/1423147838528266243
Al momento della conferma di Danny Green, Daryl Morey ha twittato senza commento il differenziale su 100 possessi del quintetto base dei Sixers nella scorsa regular season — di gran lunga il migliore di tutta la NBA. Un quintetto in cui c’è anche Ben Simmons.
A Morey è stata tolta l’opportunità di mostrare di nuovo Simmons in campo nella sua forma migliore, ristabilire il suo valore sul mercato e scambiarlo per quello che lui ritiene il giusto prezzo — che secondo quanto emerso è un pacchetto “stile Harden”, cioè con il controllo su almeno quattro prime scelte al Draft sia direttamente che con un eventuale scambio di scelte, oltre ovviamente a giocatori in grado di completare la squadra attorno a Embiid.
Questo riguarda gli scambi in cui Simmons viene considerato il giocatore più importante, ma c’è un’altra strada che Morey preferirebbe percorrere: usare Simmons come pedina di scambio per un giocatore superiore a lui. Che non sono tanti, visto che comunque parliamo di un All-Star conclamato, ma ci sono: non è un segreto che le situazioni di Damian Lillard a Portland e di Bradley Beal a Washington stiano venendo osservate con attenzione da tutta la lega, in attesa che uno dei due chieda di essere ceduto da squadre che non sembrano in grado di dar loro quello che vogliono per questo momento delle loro carriere, cioè delle squadre per giocarsi il titolo (e non solamente fare i playoff). I Sixers, che dopo aver confermato Embiid con un’estensione di contratto da 196 milioni in quattro anni sono definitivamente in win-now mode, rappresenterebbero un approdo competitivo per entrambe le stelle, ma l’unico modo che hanno per arrivarci è tramite Simmons — il quale però non sembra minimamente intenzionato ad aspettare di essere usato come pedina di scambio per i comodi dei Sixers, con i quali i rapporti sono talmente compromessi da non rispondere alle loro chiamate per settimane.
Una posizione resa definitiva quando Simmons insieme al suo agente Rich Paul ha incontrato i piani alti della franchigia, vale a dire Morey, Rivers, il GM Elton Brand e soprattutto il co-proprietario dei Sixers Josh Harris, uno che difficilmente con tutti i suoi impegni prende un aereo da Philadelphia a Los Angeles se non per una questione cruciale per la franchigia (e quindi per il suo investimento). Secondo quanto emerso i Sixers si erano presentati a quell’incontro pronti a “riaccogliere” Simmons, o quantomeno a proporgli un matrimonio di convenienza per qualche mese per restaurare il suo valore di mercato in attesa dello scambio giusto, ricevendo però una chiusura totale da parte dell’australiano e del suo potente entourage, che non ha mancato di far uscire anche la notizia ai media.
Il countdown per la trade di Simmons
Ora tutti sanno che Morey deve scambiarlo in tempi brevi, non tanto perché il valore rischia di diminuire (può davvero essere più basso di così?) quanto perché certamente aumenteranno le pressioni sulla squadra, specie se dovessero cominciare la regular season con un giocatore da 146 milioni di dollari nei prossimi quattro anni lontano dallo stato della Pennsylvania. Per di più costringendo i membri della franchigia, in primis Rivers ed Embiid, a rispondere ogni singolo giorno su una situazione decisamente scomoda su un giocatore che loro stessi hanno contribuito, con le loro parole dopo gara-7, ad allontanare dalla franchigia.
https://twitter.com/JoelEmbiid/status/1433067490481946626
Tra le tante cose scritte su Simmons, c’è anche la voce di un rapporto non proprio idilliaco con il suo compagno di squadra più importante — che su Twitter ha rispedito al mittente ogni accusa, dicendo che ama giocare con lui. Da notare che non ne parla dal punto di vista umano, ma squisitamente cestistico.
Un po’ tutti quelli che hanno scritto della situazione di Ben Simmons nelle ultime settimane sono però stati concordi nel dire una cosa: se c’è un dirigente disposto ad accettare che una situazione complicata si protragga è Morey, che ha sempre privilegiato il talento rispetto alla chimica di squadra e entra in ogni discussione per uno scambio con la necessità di doverlo vincere a tutti i costi, anche per mantenere immacolata la sua immagine di General Manager che non sbaglia un colpo. Morey, insomma, non farà uno scambio solo perché il ticchettio dell’orologio sopra l’innesco della Bomba Simmons si sta facendo sempre più forte. Ma fino ad ora il prezzo che ha tenuto per la sua stella è stato ritenuto esorbitante dalle altre 29 franchigie: per quanto Simmons abbia solo 25 anni e, soprattutto, sia sotto contratto per le prossime quattro stagioni senza possibilità di uscita (praticamente un unicum sul mercato in questo momento), sono ben poche le squadre che metterebbero sul piatto il loro miglior giocatore e/o il loro futuro in termini di scelte al Draft per un All-Star così difficile da incastrare nel proprio roster, anche perché non è detto che Simmons trovi improvvisamente il suo tiro in sospensione una volta lasciata Philadelphia.
https://twitter.com/ProCityHoops/status/1433821999852363792
Nel frattempo sulle tv locali della notoriamente morigerata Philly mostrano le immagini di un sacchetto dell’immondizia in un fiume, descrivendolo come “Ben Simmons mentre lascia la città”
Le squadre che possono arrivare a Ben Simmons
Dopo che la scorsa settimana la notizia della “rottura” è diventata di dominio pubblico, sulla vicenda Simmons è calato un silenzio che fa presagire uno stallo che può protrarsi ancora per settimane. Le altre 29 squadre non hanno interesse in questo momento ad alzare le offerte che hanno già fatto, visto che sono i Sixers a sentire la pressione di dover cedere un giocatore che non ha più intenzione di vestire la loro maglia. Allo stesso tempo Morey però ha capito che dalla cessione di Simmons passano le possibilità di titolo dei Sixers nell’era Embiid (e nella sua era): è possibile che dallo scambio dell’australiano non arrivi un pacchetto in grado da solo di far fare ai Sixers il salto di qualità — a meno che davvero qualcosa cambi nelle situazioni di Lillard e Beal —, ma deve essere in grado di ricevere abbastanza asset per fare in modo di poterli utilizzare sul mercato e rifinire ulteriormente il roster attorno al candidato MVP, ad esempio usando delle scelte al Draft per arrivare a dei veterani. Ma chi può accontentarli?
Nel corso del suo incontro con i piani alti dei Sixers, Simmons ha espresso il desiderio di essere scambiato a “una delle tre squadre della California”, vale a dire Lakers, Clippers o Warriors (i Kings non sono neanche stati presi in considerazione, pur essendo Sacramento la capitale amministrativa dello Stato… per dire del rispetto nei confronti dei Kings). Le prime due però non hanno modo di costruire dei pacchetti interessanti per i Sixers, mentre Golden State — secondo quanto scritto da più fonti — ha delle visioni discordanti al proprio interno per quanto riguarda il fit tecnico di Simmons con Draymond Green (due non-tiratori dalle caratteristiche offensive simili) e, a quanto pare, la proprietà ha messo il veto sulla cessione di James Wiseman e di Jonathan Kuminga, considerati come i “ponti” per i Prossimi Grandi Warriors del Futuro.
La squadra che maggiormente è stata avvicinata a Simmons sono i Minnesota Timberwolves, che però non metterebbero sul piatto né Karl-Anthony Towns né tantomeno Anthony Edwards (i due migliori giocatori della squadra), ma non vorrebbero nemmeno cedere D’Angelo Russell (grande amico di KAT) e rimarrebbero quindi con un pacchetto formato da comprimari come Malik Beasley, Jaden McDaniels, Taurean Prince e scelte al Draft. Non esattamente un pacchetto con il quale Gersson Rosas, capo della dirigenza dei T’Wolves, possa provare a convincere il suo ex datore di lavoro Morey, del quale è stato braccio destro per 15 anni agli Houston Rockets — giusto per aggiungere anche una dinamica personale ad una situazione già piuttosto ingarbugliata di suo.
Il problema per i Sixers è che non c’è un’offerta molto più allettante di quella, almeno per quello che sappiamo ora. Non è chiaro se Portland sia davvero interessata a mettere sul piatto CJ McCollum, anche se uno scambio tra lui e Simmons funzionerebbe senza intoppi dal punto di vista salariale; lo stesso vale con Indiana e Malcolm Brogdon, sulle cui condizioni fisiche è lecito avere dei dubbi. Si è parlato dei Toronto Raptors, che però dovrebbero cedere Pascal Siakam (e siamo sicuri che sia un fit con Embiid e Tobias Harris migliore rispetto a Simmons?); i Kings stanno provando a liberarsi di Buddy Hield ormai da mesi e lo stesso vorrebbero fare con Marvin Bagley, ma due giocatori che non hanno mai giocato per una squadra vincente cambierebbero davvero le prospettive dei Sixers? Lo stesso vale per Cleveland, che metterebbe sul piatto Collin Sexton (da estendere subito o rifirmare il prossimo anno), Cedi Osman e Lauri Markkanen (che non può essere scambiato fino al 27 ottobre) — ma tre giocatori del genere basterebbero per giocarsela ai playoff contro Brooklyn o Milwaukee nell’immediato?
Quando si passano in rassegna tutte le scarse opzioni nelle mani di Morey, è facile capire perché si è arrivati fino a questo punto morto nella situazione di Ben Simmons. Il giocatore ha provato a scuoterla, agitando lo spettro della mancata partecipazione al training camp, ma presto potrebbe arrivare alla conclusione che rifiutarsi di giocare finirà per fare più male che bene a lui e alle sue chance di lasciare Philadelphia, prima ancora che ai Sixers verso i quali, abbastanza comprensibilmente, sente di non dovere più nulla, dopo che hanno provato a scambiarlo già nella scorsa stagione per arrivare ad Harden.
Lo scenario migliore per tutte le parti coinvolte potrebbe essere una soluzione-ponte di qualche mese nel quale Simmons gioca talmente bene da ristabilire il suo valore sul mercato, portando le altre squadre — che nel frattempo potrebbero essere in situazioni diverse rispetto alle attuali, per infortuni, ambizioni rinnovate o necessità di dare una scossa all’ambiente — a migliorare le offerte per Philadelphia. Tutto sta nella volontà delle parti di convivere con una posizione inevitabilmente scomoda. Al momento non sembra esserci, ma spesso nella vita si finisce a fare qualcosa che non si vuole davvero per cause di forza maggiore.