Uno dei miei primi ricordi d’infanzia è quello di mio zio che indica il poster di Roberto Baggio, poi indica mia sorella neonata, e mi domanda: «a chi vuoi più bene?». Era la primavera del 1990, Baggio doveva ancora tradire la Fiorentina per la Juve, ed era il giocatore più amato dai tifosi fiorentini. Risposi: «a lei». Se, soltanto qualche anno dopo, mi avessero fatto la stessa domanda a proposito di Batistuta avrei dato la risposta giusta.
Il primo coro che ho imparato allo stadio diceva: “mi innamoro solo se / vedo segnar Batistuta / correre alla bandierina / bomber della Fiorentina”. Ma mentre apprendevo che era mio dovere innamorarmi di lui, e mentre il calcio si innamorava di lui, mi sono reso conto che lui non era innamorato del calcio.
Batistuta racconta che cominciò col calcio perché le squadre scolastiche di basket e pallavolo erano già piene di giocatori più bravi di lui. Il suo primo soprannome fu El Gordo, perché era anche piuttosto grasso. Questa, però, non è la storia di una passione tardiva, magari frustrata dalla cattiveria di qualche compagno o dalla cecità di un insegnante insensibile. Né quella di un bambino sudamericano costretto dalla povertà a giocare per strada con un pallone fatto di stracci e qui notato da un mecenate calcistico (la famiglia di Batistuta non era ricca ma neanche poverissima, il padre Osmar fa l’allevatore, qui c’è un suo discorso in qualità di presidente della società rurale di Reconquista). Né quella di un’epifania liberatoria rispetto a una disciplina autoimposta: «devo studiare legge, non posso fare il calciatore».
È uno degli aspetti più indecifrabili di Batistuta se non si vuole credere alla spiegazione più semplice. La spiegazione più semplice è che Batistuta abbia fatto il calciatore come si fa legge: realizzando gradualmente di essere capace, molto capace, a giocare a pallone senza che a questo si accompagnasse una passione vorticosa per il gioco. Per tanti di noi è difficile concepire questa distinzione: quando ci chiediamo «cosa ci piacerebbe fare da grandi» diamo per scontato che ciò che ci piace è ciò in cui siamo bravi. “Talento”, in italiano, vuol dire entrambe le cose (“i peccator carnali / che la ragion sommettono al talento” è la descrizione che Dante fa dei lussuriosi).
Un vano tentativo di far dire a Batistuta che è innamorato del calcio, che è sempre stata la sua passione. Qualche minuto prima ha raccontato che non aveva mai pensato di fare il calciatore. Gli chiedono: «e poi ti è piaciuto giocare?», «beh, quando capii che potevo sopravvivere di calcio, sì: presi il calcio come un lavoro», che non è esattamente quello che intendeva la domanda. Nel passaggio qui sopra racconta: «giocai a calcio perché all’inizio fu un’entrata economica importante, e successivamente perché mi avrebbe dato la possibilità di vivere tranquillo per tutta la mia vita». L’intervistatore non si dà per vinto e domanda: «e la passione? La passione quando arrivò?» Batistuta risponde quasi senza capire: «beh, la passione venne fuori quando mi resi conto che questo poteva essere il mio lavoro, e quindi ci misi tutto».
Newell’s Old Boys e divagazioni
Questo mese Batistuta ha compiuto 46 anni. Quando arrivò in Italia, nell’estate del 1991, ne aveva 22. A Firenze andò a vivere proprio nella casa che era stata di Roberto Baggio, sostituendolo anche sulle pareti di tante case fiorentine. Non arrivò giovanissimo alla Fiorentina, del resto aveva cominciato tardi a giocare. Entrò in una squadra a sedici anni, ben oltre la scuola calcio; due anni dopo, già diciottenne, venne chiamato nella Primavera del Newell’s Old Boys, che gioca nella Primera División argentina. Per avere un termine di paragone, Lionel Messi - che è anche il secondo marcatore della storia dell’Argentina, dopo Batistuta - fu tesserato per la prima volta a cinque anni, e arrivò al Newell’s Old Boys a otto.
Per questo la carriera di Batistuta è stata relativamente breve. Ha cominciato tardi, quando era troppo forte per non giocare, e ha finito presto, quando ha smesso di esserlo. Il suo primo allenatore al Newell’s Old Boys fu Marcelo Bielsa, che è tuttora riverito come uno dei migliori tecnici sudamericani (lo stadio degli Old Boys oggi si chiama “Estadio Marcelo Bielsa”). Batistuta ha smesso già da dieci anni.
In diverse interviste Batistuta fa la figura del bravo ragazzo, quasi da libro Cuore, raccontando l’inizio della sua carriera calcistica. La sua priorità è lo studio: «ho sempre avuto paura di fare il calciatore perché avevo paura di non potere studiare». E ancora: «quando andai al provino con il Newell’s lo feci più per senso del dovere che per un vero desiderio, perché così potevo continuare a studiare, dato che il club aveva promesso di pagarmi gli studî». Sui suoi anni successivi dirà: «da giovane giocavo tanto per giocare, ora lo faccio anche per divertirmi, ma soprattutto per mandare avanti una squadra. (…) Noi dobbiamo fare del nostro meglio, siamo professionisti, siamo pagati, e quindi dobbiamo impegnarci facendo anche qualche sacrificio se necessario».
Batistuta esordì da titolare con il Newell’s Old Boys in una semifinale di Coppa Libertadores, la Coppa Campioni sudamericana. Gli Old Boys erano una squadra che aveva appena vinto il campionato, con giocatori provenienti solo dal proprio vivaio: Batistuta andò a sostituire Abel Balbo, passato a metà competizione al River Plate, che successivamente diventerà suo amico e compagno in diverse squadre. In quella squadra ci sono Sensini e Gerardo Martino, attuale commissario tecnico dell’Argentina. Giocherà anche il ritorno di quella semifinale, facendo gol grazie a una deviazione di un difensore, e le due finali, perse.
Anche in un gol così rocambolesco, di un Batistuta neopromosso in prima squadra, non riesco a non riconoscere quell’eleganza statuaria di Batistuta che si coordina per tirare. La verità è che non so dire se quella cosa lì sia davvero eleganza, perché probabilmente per me “essere elegante” vuol dire essere come Batistuta.
Viareggio e divagazioni
Tre mesi dopo Batistuta viene per la prima volta in Italia. Il Newell’s Old Boys lo manda in prestito al Deportivo Italiano, piccola squadra fondata da emigranti italiani in Argentina, per partecipare al Torneo di Viareggio. La sua squadra gioca quattro partite: tre 0-0 e un 4-0. Nel 4-0 Batistuta fa una tripletta che gli basta per diventare capocannoniere del torneo. Durante quel viaggio lo portano per la prima volta in uno stadio italiano: l’Artemio Franchi, quello che per tanti anni diventerà il suo; a vedere Fiorentina-Roma, partita fra le due squadre importanti della sua carriera. Finisce 2-2, con doppietta di Borgonovo, l’attaccante a cui soltanto due anni dopo Batistuta ruberà il posto.
Un Fiorentina-Roma 2-2 d’altri tempi, per il modo di giocare, per il dilettantismo del commentatore, per la schiettezza delle interviste. Gli allenatori sono entrambi svedesi, Eriksson e Liedholm. Fa uno strano effetto, guardando il video, immaginare un giovane Batistuta da qualche parte nelle tribune che, ancora ignoto, guarda per la prima volta una partita del calcio italiano. (Ma quanto è più piacevole una cronaca in cui il commentatore non fa finta di stupirsi ed esaltarsi, come fosse in diretta, per azioni che conosce già?).
A vederlo sembra ancora molto giovane, molto lontano da quello che arriverà in Serie A di lì a un paio di anni. Vale la pena scorrere qualche foto di quella sua prima esperienza italiana: la prima bisogna scorrerla per davvero, due o tre volte, prima di riconoscerlo nella foto di squadra. Poi c’è lui, in singolo, con un abbozzo di dentoni alla Fonseca e quello stemma italiano sul petto (quanti problemi di coscienza mi avrebbe risolto poter tifare per l’Italia e per Batistuta ai Mondiali). Infine c’è l’incontro, probabilmente a margine di un Pisa-Napoli all’Arena Garibaldi, in posa da foto-e-autografo con l’idolo di qualunque ragazzo argentino, Diego Armando Maradona. Batistuta racconta che la spinta definitiva a giocare a calcio era stato un poster di Maradona regalatogli da un amico. Sembra la parabola del predestinato: comincia a giocare alla luce di un poster del suo idolo; tre anni dopo, da giovane promessa, lo incontra e ci si fa una foto assieme; tre anni dopo diventa titolare nel campionato in cui Maradona è diventato leggendario; tre anni dopo supera Maradona come massimo marcatore nella storia dell’Argentina. La degna conclusione è ciò che Maradona dirà di lui qualche anno dopo: «Batistuta è stato il più grande goleador che ho visto in tutta la mia vita».
River Plate e divagazioni
Dopo quella esperienza Batistuta passò a una delle due grandi d’Argentina, il River Plate, dove andò nuovamente a sostituire Balbo, partito per l’Italia. Al River cominciò facendo diversi gol (notevole questo), ma la squadra non andava bene. A metà stagione fu eletto un nuovo presidente che diede l’incarico di allenatore a Daniel Passarella. Passarella era stato una bandiera del River Plate, e dopo aver giocato per diversi anni in Italia – prima alla Fiorentina, poi all’Inter – era tornato al River per chiudere la carriera. Si era ritirato da pochi mesi quando fu richiamato per sostituire Merlo e Alonso, la coppia di allenatori che avevano voluto Batistuta: era la sua prima esperienza da allenatore, e Batistuta cominciò subito a non andargli a genio.
Passarella è stato di gran lunga il minor estimatore di Batistuta nel mondo del calcio, anche da commissario tecnico dell’Argentina, finì spesso per non chiamarlo (non lo chiamò per quasi un anno, neppure per la Copa América del ’97: Batistuta era stato due volte capocannoniere e una volta vice-capocannoniere nelle tre edizioni precedenti). Maradona disse che solo grazie a tutto il trambusto che fecero lui e gli altri sostenitori di Batistuta Passarella si arrese a convocarlo per Francia '98, competizione di cui Batistuta fu capocannoniere fino all’eliminazione dell’Argentina ai quarti.
Il perché di questa idiosincrasia non è mai stato chiaro. Al tempo si parlò del lato militaresco di Passarella: del fatto che costrinse Batistuta a tagliarsi i capelli per essere convocato in Nazionale (altri tempi, eh?). Di Batistuta, Passarella disse che «aveva i piedi quadrati, e una tecnica in tono». È un tema discusso. Molti giocatori ne hanno parlato in termini simili, c’è quasi un filone di ex compagni che parlano del primo allenamento con Batistuta e di come si sono poi ricreduti. Massimo Orlando racconta come tutta la squadra pensava che Batistuta fosse tecnicamente inadeguato. Anche Brian Laudrup, nel mettere assieme il suo 11 ideale (Batistuta è il centravanti), raccontò: «al mio primo allenamento con lui alla Fiorentina ero in uno stato di shock: era proprio scarso!». Poi anche lui ebbe l’epifania: «qualcuno dello staff mi disse di aspettare che si rimettesse in forma. Lo feci, e scoprii un finalizzatore chirurgico. Era spietato davanti alla porta e forte come un toro. Semplicemente, non gli potevi togliere il pallone».
Fiorentina-Ancona 7-1. Segnano sia Orlando che Laudrup (doppietta). Non segna Batistuta. Il commentatore dice: «Batistuta, superstar all’Olimpico, oggi concede tutta la ribalta ai compagni». Oscar Ruggeri, storico difensore della Nazionale Argentina, racconterà che prima di quella panchina l’allenatore dell’Ancona - Vincenzo Guerini, oggi club manager della Fiorentina - gli aveva detto «tu marca Batistuta» e lui aveva risposto «va bene, però marco solo Batistuta».
La verità è che ciò che si è sempre detto di Inzaghi, cioè che avesse dei limiti tecnici notevoli a cui sopperiva con uno strepitoso “senso del gol”, non si è mai potuto dire di Batistuta perché Batistuta aveva un tiro pazzesco (come fai a dire che uno che la mette sotto l’incrocio da 40 metri non ha tecnica?). Però Batistuta non era né un palleggiatore, né un velocista, né un dribblomane: se andava via all’uomo lo faceva di potenza. E il suo tiro portentoso era un’arma anche quando non tirava: Batistuta che finta il tiro è molto più persuasivo degli altri. Batistuta ha le due caratteristiche che un difensore deve temere: sai che potrebbe farlo davvero e che non bisogna lasciarlo tirare perché sarebbe pericoloso. Per fare un parallelo con due giocatori di oggi, Guarin è uno che gioca sull’Al Lupo! Al Lupo! del proprio tirare in continuazione e spesso riesce a saltare un giocatore a quaranta metri dalla porta fintando il tiro: è Guarin, potrebbe farlo. Pirlo ha l’altra caratteristica: al contrario di quanto si crede, non tira molto da fuori (in tutto il campionato dello scorso anno è il 153° giocatore della Serie A, assieme a Sestu (!), per numero di tiri da fuori area: 0,43 a partita. Diamanti, il primo, ne ha 2,53 a partita) però è Pirlo, sarebbe pericoloso farlo tirare, ed è in questo modo che mette spesso a sedere i giocatori avversari. Tutti abbiamo presente il «palla tagliata, messa fuori, c’è Pirlo, Pirlo, ancora Pirlo, Pirlo di tacco» (se ci fate caso, in quell’azione Caressa nomina solo Pirlo, e per quattro volte. Non nomina “palla tagliata” Del Piero che batte l’angolo, non nomina “tiro” Grosso che segna). Batistuta aveva entrambe queste componenti: potrebbe tirare da ovunque, e se lo facesse sarebbe pericoloso. In un vecchio ritratto su Robert Pirès, Daniele Manusia distingueva fra i gol di cui ci si chiede “ma come ha fatto?” e quelli di cui ci si chiede “ma come gli è venuto in mente?”. Batistuta era un giocatore che dava una risposta a queste due domande: rispettivamente “è Batistuta” e “sa di essere Batistuta”.
Su YouTube c’è una serie di video come questo di gente che fa gol spettacolari a Winning Eleven, l’antenato di Pro Evolution Soccer, spesso da dietro centrocampo. Batistuta è il giocatore scelto per questo tipo di tentativi perché è l’unico giocatore del gioco ad avere il massimo (9) in “potenza” e “precisione”, le due caratteristiche legate al tiro.
Boca Juniors e divagazioni
Al mondo c’è un Clásico, fra Real Madrid e Barcellona, e un Superclásico, fra River Plate e Boca Juniors. Batistuta, messo fuori squadra in un River Plate che vince il campionato, passò al Boca Juniors. Complice l’inattività dei mesi precedenti, non comincia bene: viene schierato da "numero 7”, sulla fascia destra, e fa solo un paio di gol. Il Boca Juniors arriva soltanto ottavo nel campionato di Apertura, che si disputa per la prima volta. Nel gennaio del '91 l’allenatore del Boca diventa Óscar Wáshington Tabárez. Tabárez mette Batistuta al centro dell’attacco e lui fa 11 gol in 19 partite, diventando capocannoniere del torneo di Clausura, che il Boca Juniors stravince senza sconfitte. Perde però contro gli Old Boys nella finalissima (abolita l’anno dopo), fra le vincitrici dei tornei di Apertura e Clausura. Fino al 2013, quel Boca Juniors sarà l’unica squadra ad aver vinto un campionato argentino senza essere proclamato campione nazionale.
Nei fatti, Batistuta vince un campionato senza fare nulla per la squadra, e ne perde uno facendo un sacco di gol ed essendone il giocatore simbolo: la seconda cosa capiterà molto più spesso della prima nel resto della sua carriera che, lui stesso dice, comincia realmente qui. Questa sarà la prima di undici stagioni consecutive in cui Batistuta risulterà il miglior marcatore della propria squadra.
Quello che già si riconosce essere l’abbozzo di un gol “alla Batistuta”. Stop al limite dell’area, palla a seguire sull’interno, e pallone sull’angolo opposto. In questa partita, Boca Juniors-Huracán, ne segnò due: anche il secondo non è male.
Batistuta conserverà sempre un forte legame con i tifosi del Boca Juniors, che era anche la squadra per cui tifava da bambino. Durante la sua vita da calciatore ha detto spesso che avrebbe chiuso la carriera al Boca e poi si sarebbe ritirato nella tenuta di famiglia. È una risposta particolare quella di dire di non essere interessato a una carriera nel calcio, tanto meno a fare l’allenatore, perché ci sono troppe pressioni. È una risposta tanto inconcepibile che chiunque l’abbia intervistato negli anni gliela ripropone, e ultimamente Batistuta sembra vacillare.
Però rimane sempre Batistuta, quando gli parlano di avere qualche incarico di rappresentanza, più d’immagine che effettivamente tecnico, dice: «Non vengo a fare qualsiasi cosa, pur di essere nel mondo del calcio». È un fatto raro, sono pochi i giocatori a dire, e praticare, una cosa simile.
L’esordio in Nazionale e divagazioni
A giugno di quell’anno Batistuta riceve la prima convocazione. Si gioca un’amichevole Argentina-Brasile in preparazione alla Copa América del ’91. Il CT Alfio Basile lo schiera subito titolare. La settimana successiva Batistuta esordisce in una competizione ufficiale con una doppietta nel 3-0 al Venezuela. Due giorni dopo l’Argentina batte 1-0 il Cile padrone di casa, segna ancora Batistuta. Nella terza partita ne fa un altro. Nel girone finale segnerà nella vittoria contro il Brasile e in quella contro la Colombia. L’Argentina vince la coppa, Batistuta è capocannoniere con 6 gol in 6 partite. Con soli 6 mesi di grande calcio alle spalle, lo compra la Fiorentina.
In quella Argentina giocano, oltre a Batistuta, Diego Latorre e Antonio Mohamed. Saranno tutti coinvolti nell’ enorme garbuglio del passaggio di Batistuta alla Fiorentina. Mohamed è un giovane attaccante dell’Huracán, che avrà una carriera anonima. Latorre, numero 10 dall’ottima tecnica e dagli inevitabili paragoni con il Diego più quotato, è il compagno d’attacco di Batistuta al Boca Juniors: è esploso l’anno precedente e la Fiorentina l’ha già acquistato per la stagione a venire. Vittorio Cecchi Gori, allora vicepresidente, racconta di essersi messo a guardare la Copa América per conoscere il prossimo acquisto della sua squadra ed essere invece rimasto folgorato da Batistuta. La Fiorentina, già proprietaria di Latorre, si accorda con il Boca Juniors per avere Batistuta a partire dall’anno successivo e nei giorni della finale di Copa América annuncia l’affare. Ma Cecchi Gori ci ripensa: vuole Batistuta immediatamente. Il Boca, al contrario, non vuole privarsi subito dell’attaccante, perciò si arriva a un accordo ancora più complicato. Il Boca Juniors ottiene: altro denaro, la permanenza di Latorre in prestito, e Mohamed in prestito, comprato dalla Fiorentina e girato al Boca per rimpiazzare Batistuta. La Fiorentina ottiene: soltanto Batistuta.
Mohamed, Batistuta e Latorre. Tre giocatori acquistati (e stipendiati) dalla Fiorentina, quell’estate a Firenze arriva solo Batistuta. L’anno dopo Latorre giocherà due partite prima di essere ceduto, Mohamed neanche una. L’affare, nelle battute dei tifosi, diventa noto come “l’1 x 3 di Cecchi Gori”, paghi tre e prendi uno. Quell’uno, però, è Batistuta. Nei primi mesi di campionato, in cui Batistuta non carbura, la confusionaria trattativa sarà spesso oggetto di ironie e critiche spietate: Batistuta è “un nuovo Dertycia”? Conosco un tifoso della Fiorentina che conservava in una sorta di teca un articolo (di Franco Rossi) che definiva Batistuta il «bidone dell’anno, forse del decennio o addirittura del secolo». È divertente pensare che, nonostante tutto, questa si sia rivelata la migliore operazione di mercato della storia della Fiorentina.
Gli inizî con la Fiorentina e divagazioni
Anche a Firenze Batistuta ebbe bisogno di un periodo di ambientamento: nel girone d’andata segnò 3 gol in 17 partite, tutti con la Fiorentina già in vantaggio. Poi arrivò Fiorentina-Juve, la partita che ogni tifoso viola aspetta, specie in quegli anni di magre. Dopo 7 minuti Carobbi mette un pallone in area che Batistuta anticipa di testa in rete. È da lì che Batistuta diventa Batigol.
Nelle due partite successive fa 5 gol, in tutto il girone di ritorno ne fa 10. Nella classifica marcatori di quell’anno ha davanti: van Basten, Baggio, Baiano e Careca (senza rigori sarebbe secondo). Il terzo di questi raggiungerà Batigol a Firenze, e ne diventerà il compagno d’attacco per quattro stagioni. Inizialmente le gerarchie non sono ben definite: anzi, quando ci sarà da scegliere un nuovo capitano per la Fiorentina, Ranieri sceglierà Baiano e non Batigol. Sarà Baiano stesso, alla fine di quella stagione, a decidere di consegnare la fascia di capitano a Batigol. Fra i due non ci fu mai una vera rivalità, come ha spiegato lo stesso Baiano: «con Bati sono stato intelligente. Ho capito di avere a che fare col più grande centravanti del mondo, e mi sono messo a disposizione».
Oltre a Baiano arrivano Effenberg e Laudrup, campioni di livello europeo: la Fiorentina comincia con ambizioni da zona Uefa, ma dopo un buon inizio turbato dall’esonero di Gigi Radice, crolla. Finirà in Serie B. Batigol fa 16 gol, anche stavolta senza rigori sarebbe a 3 gol dal capocannoniere, Signori. Questo, dei calci di rigore non tirati, sarà un tema che tornerà assillante per tutta la sua carriera, con Batigol che perderà diversi titoli di capocannoniere per la scelta di non tirarli. Quando batterà il record di Pascutti, la madre non lo vedrà esultare perché «ogni volta che tiro un rigore si chiude in bagno». In realtà, inizialmente Batigol era considerato un tiratore, poi cominciò a sbagliarne talmente tanti - una stagione ne sbagliò 4 di fila - che decise di smettere completamente di tirarli. È un paradosso che un giocatore con una simile abilità balistica, e una freddezza dimostrata in numerose circostanze, fosse così scarso a tirare i rigori. E il paradosso è ancora maggiore perché Batigol è stato un grandissimo tiratore di calci piazzati: soprattutto di potenza, ma anche di precisione. Nei momenti di maggiore prolificità Batigol segnava quasi tutte le punizioni che tirava. Era il tempo in cui la curva accompagnava la rincorsa di un calcio di punizione di Batigol con l’ "oooooh” tipico della battuta dei rigori.
Quando Batigol cominciò a sbagliare molti rigori, a Firenze si iniziò a ironizzare sulla necessità di lamentarsi con l’arbitro al contrario, in caso di fallo al limite: «era fuori area, fuori area!». L’ironia sul fenomeno si unì a una curiosità sperimentale: «ma se gli fai battere un rigore e gli piazzi la barriera davanti, lui segna perché la considera una punizione, o lo sbaglia perché lo considera un rigore?». Qualche anno dopo, su questa punizione a due in area, arrivò la risposta.
La stagione in Serie B è abbastanza in discesa: Batigol salta anche un terzo delle partite, finendo a 16 gol, ma la Fiorentina domina un campionato cadetto pieno di grandi attaccanti. Nei primi dieci posti della classifica cannonieri di quell’anno finiscono: Bierhoff, Batigol, Chiesa, Inzaghi e Vieri. Tutta gente che farà più di 100 gol in Serie A.
Il palcoscenico mondiale e divagazioni
Nonostante la retrocessione Batigol rimane il centravanti della Nazionale argentina che partecipa alla Copa América del 1993. L’Argentina non domina come due anni prima, ma vince ancora il torneo. La finale è contro il Messico. Finisce 2-1 con doppietta di Batigol, che vince quindi la sua seconda Copa América. Anche durante la stagione in Serie B Batigol rimane titolare nella preparazione al Mondiale di USA '94. L’Argentina ha vinto gli ultimi due Mondiali giocati nel continente americano, ed è molto quotata. Per Batigol è il primo palcoscenico veramente internazionale e il primo Campionato del mondo.
Se questa fosse l’altra storia, quella del bambino che ha sempre sognato di giocare un Mondiale e finalmente arriva ad afferrare il proprio sogno, dovremmo parlare dell’emozione, di come regge la pressione, di quanto è difficile presentarsi agli esami che contano. Ma non è quella storia. Per Batigol la pressione non è mai stata un problema, perché reggerla era semplicemente uno dei compiti del mestiere che aveva scelto.
È la prima partita di Batigol in un Campionato del Mondo, Argentina-Grecia 4-0, con sua tripletta. Uno in contropiede, con una corsa di 40 metri e un tocco in anticipo. Uno “alla Batistuta”: pallone ricevuto al limite dell’area, stop a seguire per il tiro, pallone all’incrocio dei pali. L’ultimo su calcio di rigore. In mezzo c’è l’ultimo gol in Nazionale di Maradona: azione molto bella, scambio nello strettissimo Balbo-Redondo-Maradona-Redondo-Caniggia-Redondo-Maradona, tiro a girare di sinistro, corsa verso il bordo del campo e celebre urlo alla telecamera.
L’Argentina vince le prime due partite del girone, ma prima della terza partita Maradona viene trovato positivo all’antidoping e squalificato. Così perde con la Bulgaria e poi agli ottavi con la Romania, venendo eliminata. In questa partita Batigol segna su rigore e finisce il Mondiale con 4 gol. Quello che sembrava essere cominciato come il Mondiale di Batigol e dell’Argentina finisce per essere ricordato come la grande occasione mancata: in Argentina sono ancora tutti convinti che senza la squalifica di Maradona quella squadra avrebbe vinto il Mondiale. Anche Batigol “non ha dubbî” però, e qui c’è molto di lui, è contrario a “usarla come scusa per la sconfitta”. Qualunque aspetto autoassolutorio, anche se considerato reale, deve essere escluso: è un tratto, quello della schiettezza e della mancata ricerca di alibi, che si nota fin dalle primeinterviste.
I primi successi individuali e divagazioni
La stagione successiva al Mondiale è quella della consacrazione di Batigol, per lo meno da un punto di vista personale. A Firenze arriva Rui Costa, che per tanti anni sarà il suggeritore di Batigol, e la Fiorentina comincia bene, perdendo una sola volta nelle prime undici partite. In ciascuna di queste partite Batigol riesce a segnare almeno un gol, battendo il record di gol consecutivi che Ezio Pascutti deteneva dai tempi della televisione in bianco e nero. Nel girone di ritorno, però, la Fiorentina cala e finisce decima. Batigol conclude il campionato a 26 reti, è capocannoniere della Serie A. La stagione termina con la Copa América del ’95 in cui l’Argentina viene eliminata ai quarti di finale, Batigol è comunque il capocannoniere della competizione.
Lacrime 1. Batistuta eguaglia il record di Pascutti, va verso la bandierina per esultare alla sua maniera, ma finisce per inginocchiarsi e piangere. La domenica successiva supererà il record. È tuttora imbattuto.
È probabilmente questo il momento in cui Batigol è costretto a misurarsi con i mezzi eccezionali che ha: le sue qualità calcistiche non sono soltanto sufficienti a renderlo economicamente indipendente o a vivere una vita agiata; può aspirare a essere uno dei giocatori più forti del mondo. È qui che si genera una tensione fra ciò che gli dice il campo - che ce ne sono pochi come lui - e quello che dice la testa, che non si lascia mai andare. Quando, per la centesima presenza in Serie A, i tifosi della Fiorentina porteranno allo stadio una statua che lo raffigura, si dirà estremamente sorpreso, quasi caricato della necessità di sdebitarsi (e segnerà una doppietta).
Batigol non si è mai sentito il migliore: «Ho un carattere che non è consigliabile avere, perché vivi sempre arrabbiato con te stesso». Ma, lo ribadisce più volte, è questa insoddisfazione permanente che gli ha permesso di migliorarsi, di non accontentarsi del livello che aveva raggiunto: «per questo quando terminai la carriera non ero quello del Boca Juniors». Più avanti dice: «ho sempre lavorato molto...», si mette a ridere, «credo che gli allenatori siano stati molto fortunati con me! Potevano chiedermi tutto e io lo facevo, perché così potevo migliorarmi». Questo fatto lo sottolineano in molti, Walter Zenga spiega che: «Batistuta è in assoluto il più forte giocatore straniero che è venuto in Italia perché quando è venuto non era così forte, si è migliorato di anno in anno» (sì, la logica del concetto non è proprio ferrea, ma la valutazione sul progresso graduale rimane).
È strano per un numero 9 avere questo spirito lavoratore e guerriero, fra l’operaio e il leader. Eppure non si può dire che Batigol non abbia convinzione in sé, né che non abbia carisma. «Batigol ha la personalità e il carisma del leader senza averne la presunzione», dice per presentarlo uno di quei documentari apologetici tipici degli Anni 90. È come se il termine di paragone della propria convinzione fosse solo sé stesso, in un misto di orgoglio e umiltà - le due qualità più banalmente rivendicate nel mondo calcistico - che trasmette sicurezza, non entusiasmo; potenza, non genio; agonismo, non euforia. Il personaggio Batigol non è uno scapigliato come Cuadrado che manifesta la propria gioia di giocare a calcio; non è neanche Mourinho, bastian contrario che ha costruito la propria identità sprezzante sulla violazione delle varie istituzioni calcistiche (come “ho grande rispetto per l’allenatore avversario” o “non ci sono partite facili”). Ma non è neanche uno sbruffone come Ibrahimovic, che il calcio non lo esalta né lo svilisce, semplicemente lo concepisce come il proprio oggetto. Batistuta non è un personaggio, non ne ha uno. Batistuta è grintoso, combattivo. È forte-coraggioso-e-leale, come nel più dozzinale stereotipo cavalleresco.
La statua di Batigol nella sua tipica posa post-gol alla bandierina. L’incisione recita: «Guerriero mai domo, duro nella lotta, leale nell’animo». Non si parla di classe, di genialità, di tecnica. Sembra la didascalia per un mediano: sopra non potrebbero starci né van Basten né Ronaldo, Damiano Tommasi sì.
I primi successi di squadra e divagazioni
Nel 1995/96 la Fiorentina arriva terza in campionato e Batigol segna 19 gol. Ma il suo primo trofeo è la Coppa Italia: la Fiorentina arriva facilmente alle semifinali, che vince entrambe, per poi vincere anche entrambe le finali. Risultati e marcatori sono i seguenti: 3-1 (Batistuta, Batistuta, Batistuta), 0-1 (Batistuta), 1-0 (Batistuta), 0-2 (non Batistuta, Batistuta). In questi 7 gol ci sono anche due pallonetti in anticipo su Pagliuca, e una botta dal limite che sembra una prova di quella dell’anno successivo al Camp Nou.
La vittoria in Coppa Italia permette alla Fiorentina di accedere alla Coppa delle Coppe, prima competizione europea per Batigol, e di giocare la Supercoppa italiana. È il secondo trofeo italiano per Batigol che a San Siro segna due gol contro il Milan del suo vecchio allenatore Tabárez.
Un altro celebre urlo alla telecamera, questa volta è Batigol che grida «te amo Irina» a sua moglie. Ma il primo gol è uno dei più belli di Batigol, aggancio al volo fra Maldini e Baresi, sombrero a Baresi, ed esterno destro in rete.
La stagione 1996/97 è quella con il minor numero di gol in campionato per Batigol, ad accompagnare un anonimo nono posto della Fiorentina: ne fa comunque 13. Bisogna anche tener conto che il calcio in cui giocava Batigol era un calcio molto più difensivo: negli undici anni che Batigol ha giocato in Serie A la media realizzativa per campionato è stata di 797 gol, negli ultimi undici anni la media realizzativa è di 985 gol a campionato. Questo, oltre alle diverse regole di assegnazione degli autogol e alla decisione di smettere di tirare i rigori, dànno una diversa misura al numero di gol segnati, costantemente, da Batigol nell’arco degli anni. Questa straordinaria continuità si deve alla condizione fisica, ma anche a un tratto caratteriale distintivo: l’applicazione, la risolutezza, la capacità di mettere a fuoco.
Quando gli chiedono quale sia la sua migliore abilità non dice “il tiro” o “il colpo di testa”, ma “la concentrazione”. «Io credo che il livello di concentrazione che avevo durante le partite...» qui fa una pausa in cui sembra pensare “era il migliore di tutti”, poi conclude «era superiore al normale». «Ti annoiavi se non ti arrivava il pallone?», gli domanda l’intervistatore: «mai», risponde. «Beh, ci sono attaccanti che si assentano dalla partita, che si annoiano...», Batigol continua la frase «sì, oppure vanno a cercare il pallone perché hanno bisogno del contatto... io potevo stare fuori dal gioco per 90 minuti». Qui Roberto Perfumo, difensoraccio argentino degli anni 60 e 70, si rivolge al presentatore e dice: «questi sono i peggiori da marcare, i peggiori». Batigol termina il concetto: «io giocavo sulla sorpresa: la partita ha sempre molti alti e bassi, non è mai perfetta».
Il ‘97 è comunque la stagione della partecipazione alla Coppa delle Coppe: la Fiorentina arriva alle semifinali dopo aver battuto il Benfica con un grande gol al volo di Batigol. Qui incontra il Barcellona di Ronaldo, grande favorito. Nella partita di andata va in vantaggio il Barça, ma Batigol pareggia con uno dei suoi gol più celebri. Rimedia anche un giallo discutibile che gli farà saltare la partita di ritorno: a Firenze vince 2-0 il Barcellona.
Il gol al Camp Nou. L’esultanza non vuole “zittire” lo stadio del Barcellona, come si dice spesso: quello l’ha già fatto il gol. Batigol sta più che altro mimando, facendo il verso, a uno stadio di centomila persone che si ammutolisce d’un tratto. È un gesto entrato nell’iconografia calcistica.
La consacrazione e divagazioni
Batigol è ormai riconosciuto come uno degli attaccanti più forti del mondo ed è chiaro che andando a giocare in una squadra più importante potrebbe vincere di più. L’estate del ’97 è la prima nella quale la prospettiva di andare via dalla Fiorentina diventa davvero concreta: nelle interviste dice la verità, che c’è la possibilità che se ne vada. I tifosi rimangono dalla sua parte, e alla presentazione di Edmundo cominciano a cantare cori per lui. Dopo mesi di tribolazioni, Batigol si presenta in ritiro. Poi, alla prima di campionato, fa una tripletta.
La Fiorentina è sotto 2-1 a Udine, a due minuti dalla fine Batigol segna con una punizione da 30 metri. Nei minuti di recupero segna questo, che è il terzo gol (mi piacerebbe dire di non aver mai visto segnare in rovesciata da fuori area, ma l’ho visto fare a Mauro Bressan contro il Barcellona). Malesani corre a esultare in shorts sotto lo spicchio dei tifosi della Fiorentina, per questo sarà destinatario dello striscione “non porta i pantaloni con le penze, ma ha portato il calcio a Firenze”.
La Fiorentina gioca un bel calcio offensivo, e Batigol lega con Malesani. L’allenatore comincia però ad avere rapporti difficili con la dirigenza, e questo rinfocola le voci di mercato. A maggio il presidente Cecchi Gori espone sulla balaustra della tribuna d’onore uno striscione che dice “Batistuta è incedibile”. A fine stagione la Fiorentina otterrà un buon quinto posto, Batigol segnerà 21 gol, ma Malesani andrà comunque via. Ricomincia un’altra estate in cui non si sa se Batigol rimarrà a Firenze.
Il ’98 è anche l’anno del Mondiale. Memorabile è la partita di presentazione del torneo, fra Europa e Resto del Mondo, che si gioca nel dicembre precedente. L’Europa ha una squadra molto più forte, il Resto del Mondo ha Batigol e Ronaldo in attacco. Finisce 5-2 per il Resto del Mondo, con doppietta di entrambi. La Coppa del Mondo è un’altra occasione di soddisfazioni individuali e non collettive. Segna quattro gol nel girone - ed è tuttora l’unico giocatore ad aver segnato delle triplette in due Mondiali diversi - e resta capocannoniere con 5 gol fino all’eliminazione della propria squadra. L’Argentina esce con l’Olanda, in un quarto di finale in cui Batigol prende un palo interno con un sinistro dal limite.
L’ultima Fiorentina e divagazioni
È il nuovo allenatore, Giovanni Trapattoni, a convincere Batigol - per l’ennesima volta - a restare a Firenze. La Fiorentina va presto in testa alla classifica, vincendo tutte le partite in casa. La coppia che forma con Edmundo sembra molto forte e ben assortita (Trapattoni racconterà di aver “passato le notti” a parlare con i due per farli coesistere), e la Fiorentina si laurea campione d’inverno. Cecchi Gori arriva ad annunciare che Batigol gli succederà come presidente della Fiorentina. Dopo 16 vittorie consecutive, la prima partita casalinga che la Fiorentina non vince è quella contro il Milan: Batigol si infortuna in uno scontro di gioco, esce dal campo per qualche minuto, riceve i cori d’incitamento dei tifosi, decide di rialzarsi e continuare. Quando si rialza prende l’ovazione del pubblico, la testimonianza della grinta sempre dimostrata, è anche per questo che uno dei suoi soprannomi è il banale “Re Leone”.
Questa volta, però, lo spirito di sacrificio è eccessivo: a pochi minuti dalla fine, nel rincorrere il pallone su un lungo lancio dalla difesa, Batigol crolla a terra. Non ho mai sentito un silenzio simile, in uno stadio, durante un’azione di gioco: dall’esaltazione per la pericolosità dell’azione di gioco (quella stagione Batigol ha segnato spesso così) al silenzio completo nel vederlo cadere. Batigol si presenta in stampelle in conferenza stampa, Edmundo torna in Brasile per il carnevale, e la Fiorentina sprofonda: finirà terza, a 14 punti dal Milan. È un’altra stagione senza vittorie per Batigol, che anche quell’anno, nonostante l’infortunio, segna 21 gol (senza rigori), uno meno del capocannoniere Amoroso (7 rigori).
La stagione successiva è l’ultima alla Fiorentina, ed è la prima in cui Batigol gioca la Champions League, a quasi trent’anni. Dopo un brutto inizio, con due pari e una sconfitta, la Fiorentina riesce a ribaltare i pronostici vincendo a Wembley contro l’Arsenal e pareggiando con il Barcellona. Così facendo accede al secondo girone, nel quale succede l’inverso: la Fiorentina comincia bene, batte Manchester United e Valencia, ma poi perde le partite di ritorno ed esce.
È difficile scegliere fra il gol che Batigol fece a Wembley, e quello che fece contro il Manchester United. Sono entrambi dei gol molto caratteristici di Batigol, ed entrambi molto belli. Opto per quello a Wembley per l’importanza che ebbe e perché mostra non soltanto il tiro, ma anche il suo classico modo di andare via di potenza.
L’ultimo campionato con la Fiorentina è l’epitome di tutte le stagioni in viola: tante soddisfazioni individuali, poche di squadra. Anche stavolta Batigol arriva secondo nella classifica cannonieri, con 23 gol (senza rigori) a un gol da Shevchenko (che segna 8 rigori). Verso primavera diventa chiaro a tutti che in estate andrà via, i tifosi fiorentini espongono uno striscione per lui e Rui Costa che dice “se i destini si divideranno, grazie di tutto”. Dopo nove stagioni alla Fiorentina, Batigol ha scalato la classifica dei marcatori nella storia della Fiorentina in Serie A. Ha superato il secondo posto di Montuori (72 gol) già quattro anni prima, ma il record che Kurt Hamrin (151 gol) detiene da quarant’anni è considerato inarrivabile. A metà campionato gli mancano ancora 15 gol, a tre giornate dalla fine gliene mancano 5. Arriva all’ultima giornata di campionato a 149 gol, due in meno di Hamrin. Batigol segna con un sinistro dal limite, poi con una punizione delle sue, è il gol che tutti si erano preparati a festeggiare come l’eguagliamento del record (come il massaggiatore Luciano Dati, che era sceso in campo con una maglia numero 151). A otto minuti dalla fine arriva il terzo gol, il sorpasso a Hamrin.
Lacrime 2. Chiesa lancia Batigol sul filo del fuorigioco, lui con un esterno destro in anticipo la mette sul secondo palo. Accenna una corsa per esultare sotto la curva, poi devia, a braccia larghe va verso la porta. Entra in rete come fosse un secondo pallone, e si butta contro la rete che lo rimbalza per terra. Sta già piangendo. Rimane così, spalmato sul prato a braccia larghe, per qualche secondo. Poi si volta verso il terreno e si chiude sui propri avambracci per continuare a singhiozzare. Sa che non giocherà più con la Fiorentina.
Roma e divagazioni
Batigol si trasferisce alla Roma, squadra con grandi ambizioni di classifica. Lui ha detto più volte durante la carriera di non essere voluto andare al Real Madrid o alla Juventus perché vincere lì era troppo facile e non dava stimoli; al tempo stesso, in età già avanzata, riconosce di non avere molto più tempo, di dover puntare sul cavallo giusto per vincere qualcosa. La Roma è probabilmente la soluzione che mette assieme le due cose. Quell’anno, oltre a lui, arrivano anche Emerson e Samuel. Inoltre ritorna nella capitale anche il suo amico Balbo, che - in un’inversione delle parti avute a inizio carriera - è stato il suo sostituto nell’ultimo anno alla Fiorentina.
La Roma comincia con tre larghe vittorie, perde la quarta, e alla quinta giornata incontra il Brescia. È una trasferta tosta, quel Brescia arriverà 7° in campionato, ma le cose si mettono bene: al 13° minuto Candela porta in vantaggio la Roma. Qualche minuto dopo, però, pareggia Bisoli, e nonostante ad attaccare sia la Roma, a pochi secondi dalla fine del primo tempo il Brescia ottiene un rigore discutibile, che Hübner trasforma. La Roma attacca ma non riesce a segnare, è una di quelle partite che cominciano a preoccupare, che la Roma non è abituata a gestire a livello nervoso. Dopo l’euforia delle prime tre vittorie, perdere due partite consecutivamente potrebbe incidere pesantemente sul morale e sull’ambiente. Siamo al 60' e un tiro di Zago finisce sul palo, Batigol è il primo sulla ribattuta e segna. 2-2. Marco Delvecchio, suo compagno d’attacco, va per abbracciarlo ed esultare per il pareggio raggiunto. Batigol lo dribbla, raccoglie il pallone in rete e corre verso il centrocampo con la palla in mano per riprendere a giocare il più velocemente possibile. Batigol è il primo ad arrivare sul pallone, ed è il primo a riportarlo sul dischetto di centrocampo per ricominciare a giocare. La partita finirà 2-4 con tripletta di Batigol.
Lacrime 3. All’ottava giornata all’Olimpico c’è la Fiorentina, la vita di Batigol degli ultimi dieci anni. All’inizio della partita, corre sotto il settore degli ospiti a salutare e applaudire i suoi vecchi tifosi. Anche i tifosi della Roma comprendono il momento e applaudono. La partita rimane ferma sullo 0-0 fino agli ultimi minuti, poi una palla rimbalza al limite dell’area Batigol si coordina con la sua perfezione, e la sua bordata finisce sotto la traversa. Non esulta, viene abbracciato dai compagni, quando lo si intravede spuntare nella mischia di teste che lo avvolgono è chiaro che sta piangendo. L’abbraccio di gioia dei compagni si trasforma in un abbraccio di consolazione. Alla fine della partita dirà: «Io dovevo fare il mio lavoro, ma avrei preferito una vittoria contro la Fiorentina senza un mio gol».
Batigol sarà il miglior marcatore di quella Roma che vincerà lo scudetto, unico trofeo importante della sua carriera. Avrebbe certamente meritato di vincere di più, e avrebbe certamente potuto farlo. Penso che il modo migliore per dare la misura a quel senso di ingiustizia percepito sia ammettere che io fui contento (!) per la vittoria della Roma. Ma è un pensiero che sembra turbare più gli altri che lui: «delle volte mi dico che non è giusto che non ho vinto questo trofeo o quell’altro; ma la fortuna che ho avuto è che ho sempre dato quello che potevo, non mi sono mai concesso il lusso di finire una partita pensando: “se avessi fatto questo o quello, avrei ottenuto qualcosa in più”». In quel sostantivo “fortuna” c’è tutto Batigol.
Rimane un altro anno e mezzo alla Roma, accusando diversi problemi alla caviglia e giocando poco. Sarà la prima volta in dodici anni che non è il capocannoniere della propria squadra. Gioca la Coppa del Mondo del 2002, da titolare, segnando all’esordio. Ma poi l’Argentina perde la seconda partita, e non va oltre il girone pareggiando la terza con la Svezia. È la sua ultima presenza in Nazionale e in quella indossa la fascia di capitano della Selección. Va poi per sei mesi all’Inter, dove racconta che non c’era già più fisicamente, ma pensava «di poterlo superare con la testa». Finisce la carriera in Qatar, come altri campioni del tempo, per mettere da parte un po’ di soldi, segnando - quasi senza correre - più gol del numero di partite che gioca. Nei fatti, non era già più Batigol.
La verità è quella che dirà successivamente: «io ero pronto a lasciare il calcio già da tre anni», all’indomani della vittoria dello scudetto. Anche qui non dice che non l’ha fatto perché il calcio era la sua passione, o perché si divertiva a giocare, ma perché il dolore al ginocchio che aveva era sparito. Come a dire: ero un professionista, e potevo ancora fare il mio lavoro.
La fine e divagazioni
Chiusa la carriera, per diversi anni non si seppe più nulla di Batistuta, se non voci che lo davano malatissimo e non in grado di camminare; oppure gossip come quello della truffa ai suoi danni in cui dei finti tifosi gli chiesero un autografo e con quella firma andarono a incassare un assegno da 65mila euro (posso vantare di essere un mago del crimine, perché con lo stesso metodo feci firmare a Idris Sanneh un foglio che diceva “Juve merda”).
Lacrime 4. Questo inverno Batistuta è stato introdotto nella Hall of fame della Fiorentina e si è commosso, commosso di gratitudine. In particolare per le singole persone che l’hanno aiutato, ma in generale per il tifo e l’accoglienza riservatagli ancora dieci anni dopo, si dirà più volte stupito. In questa occasione si nota un Batistuta stranissimo, sotto pressione come non si è mai visto, impacciato e irrequieto. Alla fine dice «Lo sapevo. Mi sono preparato, ho respirato, e niente», scuote la testa a dire: non ce la faccio a non piangere.
Chiunque abbia amato il calcio ha amato Batistuta, che per parte sua ha sempre amato la gente, ma non il calcio. Anzi, in più di una circostanza si è sorpreso dell’amore dei tifosi, con un atteggiamento che sembrava dire «ma in fondo io faccio solo il mio lavoro». Talvolta si è addirittura mostrato imbarazzato, quasi dispiaciuto, di quell’amore cieco degli appassionati che facevano cose come dedicargli una stella appena scoperta. È la preoccupazione, raccontata spesso, per il fatto che i tifosi: «mi avrebbero fatto fare qualunque cosa».
Il calcio l’ha amato, lui è stato grato di questo amore. Ma come qualunque adolescente sa, la gratitudine non è la stessa cosa dell’amore. Un amore non corrisposto.