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Marco Gaetani
Lo screzio tra Basso e Bitossi a Gap 72
03 ott 2018
03 ott 2018
Racconto di un Mondiale di ciclismo dominato dagli italiani, con una faida finale.
(di)
Marco Gaetani
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C’è stato un periodo durante il quale Stefano Accorsi

e si limitava a mettere in scena quelle degli altri. Salito alla ribalta con il celebre

, dopo il boom di Jack Frusciante è uscito dal gruppo venne scelto da Luciano Ligabue per impersonare il protagonista del suo primo film, Radiofreccia. Sul set, Accorsi divenne Ivan Benassi detto Freccia, ruolo che gli permise di vincere il David di Donatello come migliore attore protagonista. In uno dei tanti flashback del film, il Freccia adulto si ritrovava tra i suoi amici bambini, durante una classica partita a biglie, con i ciclisti più ambiti all’interno delle palline. E mentre gli altri si dividevano i vari Gimondi e Anquetil, il protagonista si impuntava: «Voglio Bitossi. Se non ho Bitossi non gioco».

 

Franco Bitossi da Carmignano non era uno come gli altri. Non c’era nulla di preparato a tavolino nel suo modo di correre, e non solo per la tachicardia che lo ha attanagliato nel corso di tutta la sua incredibile carriera. Ha vinto tanto e in tanti modi, passando da scalatore a finisseur per assecondare quel cuore matto che lo faceva impazzire. Eppure, nonostante le 171 vittorie in carriera, è entrato nella leggenda per una sconfitta. Gap 1972, Mondiali di ciclismo.

 




 

I mesi iniziali del 1972 italiano sono densi di avvenimenti. Il primo Governo Andreotti, che ha chiuso la V Legislatura, è durato meno della metà di un Giro d’Italia: un monocolore democristiano rimasto in piedi per nove giorni, non riuscendo nemmeno a ottenere la fiducia del Senato. Le elezioni anticipate, le prime dopo la burrasca del Sessantotto, hanno nuovamente proiettato il Divo Giulio al ruolo di Presidente del Consiglio, in un esecutivo che torna a vedere la partecipazione chiave dei liberali.

 

Alla Pubblica Istruzione è andato Oscar Luigi Scalfaro: a distanza di vent’anni, avrebbe soffiato proprio ad Andreotti la possibilità di diventare Presidente della Repubblica, in una circostanza

da Paolo Sorrentino in una delle più celebri scene de Il Divo. Il grande cinema italiano ha trionfato all’estero – Oscar per Il Giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica, vittoria ex aequo a Cannes per La classe operaia va in paradiso e Il caso Mattei, entrambi con un sontuoso Gian Maria Volonté – ma il mondo dell’arte è sotto shock: Laszlo Toth, geologo australiano di chiara origine ungherese, ha deturpato con quindici colpi di martello la Pietà di Michelangelo, urlando alla sorveglianza di

risorto dal mondo dei morti.

 

Nel ciclismo, invece, c’è un solo dominatore. Quando si corrono i Mondiali sono passate solamente due settimane dalla vittoria di Eddy Merckx al Tour de France, ultimo acuto di una stagione clamorosa dopo aver già vinto Milano-Sanremo, Freccia del Brabante, Liegi-Bastogne-Liegi, Freccia Vallone e Giro d’Italia. Il Cannibale si era presentato da favorito alla sua quarta Grande Boucle e l’aveva fatta finire esattamente come le tre precedenti: trionfando. Una prova di forza sconcertante, con quasi 11 minuti dati in classifica generale al secondo, il nostro Felice Gimondi, all’ultimo podio in carriera al Tour de France. Il belga vuole bissare il titolo iridato dell’anno precedente. Per gli azzurri, al netto del piazzamento d’onore di Gimondi, è stato un Tour malinconico. Una sola vittoria di tappa, firmata da Ercole Gualazzini. A Gap serve l’Italia migliore, la stessa capace di controllare perfettamente la corsa quattro anni prima, a Imola, nel giorno del capolavoro di Vittorio Adorni.

 

Nei pronostici della vigilia, l’Italia è vista come la nazionale che ha il compito di movimentare la corsa per rendere più difficile il bis di Merckx. Il belga è tesissimo, e le ragioni non sono legate esclusivamente al Mondiale. Sta per nascere il suo secondo figlio, si chiamerà Axel e diventerà un ciclista, alle prese con un cognome troppo ingombrante per un talento nella norma. Ha dei pessimi presentimenti, il Cannibale. «Si lamenta Gimondi, e ha ragione: la squadra azzurra non è stata impostata su di lui, domani riceverà ben poco aiuto dai compagni. Ma cosa dovrei dire io, che i nemici forse li ho in casa? Sono stati lasciati liberi di fare la propria corsa e temo che nel finale saranno lì, alla mia ruota, e diventeranno avversari veri, come tutti gli altri». Merckx si riferisce a Godefroot, Verbeek e De Vlaeminck. Non lo sa, ma ha previsto il finale giusto, sbagliando soltanto i colori.

 

Il percorso non è dei più duri, e questo non gioca a favore del campione in carica. «So benissimo che in volata c’è chi può battermi, anche se l’arrivo è in leggera salita. Il percorso è più facile di quello di Mendrisio, non si presta a una grossa selezione. Può vincere anche uno sprinter on buone doti di fondo. L’ho detto più volte e lo ripeto: per assegnare la maglia iridata ci vorrebbero tre prove, non una soltanto. Così è una lotteria». Gli azzurri si presentano al via con Basso, Bitossi, Boifava, Cavalcanti, Dancelli, Gimondi, Motta, Panizza e Polidori. Non sembra una corazzata, se non fosse per la presenza di Gimondi. «Ci si affida, per necessità e non certo per libera scelta, a vecchi campioni che hanno un brillante passato ma il cui presente ha la consistenza dell’aria fritta: si fa credito ai vari Bitossi, Motta, Dancelli e Basso per il prestigio del loro nome, per il desiderio di riscossa che anima soprattutto quelli fra loro che figurano nella lista dei disoccupati per la prossima stagione, non certo perché esistano risultati confortanti a giustificare una ventata improvvisa di ottimismo», scrive Gianni Pignata sulle pagine de La Stampa presentando i quasi 273 chilometri del circuito di Gap, 15.143 metri da ripetere 18 volte. Merckx teme l’arrivo in volata e indica in Basso e Godefroot i possibili vincitori, mentre il danese Ritter non ha dubbi: «Il favorito è Bitossi. Se giunge con i primi sotto la rampa finale, inchioda tutti con il suo scatto bruciante».

 

Il 1972 di Marino Basso, prima del Mondiale, non è stato da incorniciare. Due semitappe al Giro di Sardegna – e la classifica generale della corsa – più il successo alla Coppa Bernocchi, oltre alla prima tappa del Giro d’Italia poi dominato da Merckx. È appena passato alla Salvarani dopo quattro anni di successi alla Molteni, dove aveva messo in mostra le sue innate doti da velocista: quattordici tappe tra Giro e Tour in quattro stagioni, con la ciliegina della classifica a punti della corsa rosa nel 1971. Un profilo molto più solido e decisamente meno incline all’epica rispetto a quello di Bitossi. Passato professionista nel 1961, il toscano vive tre anni di carriera in penombra, incapace di arrivare al traguardo in quasi tutte le occasioni che contano. Colpa di quella tachicardia che lo colpisce a tradimento nelle circostanze più attese. «

, magari ero in fuga da solo e dovevo scendere di sella, appoggiarmi a un albero o sostare seduto, in attesa che la tachicardia passasse.

 

Al Giro sembrava una maledizione, gli episodi cardiaci si verificavano sempre nelle prime tappe, per cui perdevo troppo terreno per ambire alla maglia o a buoni risultati. Per quattro edizioni consecutive del Lombardia, quando arrivavo al ponte di Lecco, mi veniva un attacco e dovevo fermarmi». Un disturbo di origine probabilmente emotiva: «Quasi tutti i medici mi parlavano di tensione emotiva in eccesso. Quella mi causava il problema e a poco serviva che ci fosse chi mi esortava a non farci caso». Il 1964 è l’anno dell’esplosione. Vince quattro tappe al Giro d’Italia e la maglia di miglior scalatore della corsa, che manterrà anche nelle due edizioni successive.

 

Nel 1965 trionfa al Giro di Svizzera, due anni più tardi sfata il tabù del Lombardia e vince anche il Laigueglia e la Tirreno-Adriatico. È uno dei corridori più in vista in Italia in Europa, ma per imporsi in una grande corsa a tappe serve anche un’andatura di livello eccelso a cronometro, e Bitossi non ha il passo giusto per le lunghe sfide contro il tempo previste dai calendari dei grandi giri. «Su distanze fino ai 20 chilometri mi difendevo, anche se non ero uno specialista.

 

Ma ci tengo a dirlo, non andavo piano». Nel 1968, ultimo Tour prima dell’era del terrore imposta da Merckx, si ritrova a soli 58 secondi dalla maglia gialla alla vigilia della cronometro decisiva: Bitossi, che chiude la Grande Boucle con la maglia della classifica a punti – in quell’occasione rossa e non verde a causa del robusto finanziamento della SIC, azienda produttrice di soda - scivola all’ottavo posto della generale. «

di ogni traguardo e trascurai la generale, per esempio nella tappa di Grenoble avrei potuto accontentarmi di un piazzamento di rincalzo e conservare le forze che il giorno dopo mi avrebbero forse consentito di mettere la maglia gialla. Quando arrivai alla cronometro che avrebbe deciso la corsa avevo già speso tutto e persi molti minuti. Inoltre, non avevo le caratteristiche per essere competitivo nelle cronometro lunghe e non mi sono mai sentito a mio agio mentalmente nelle corse contro il tempo, mi capitava facilmente di innervosirmi e di perdere il ritmo giusto». Il cuore, quello sì, con il passare degli anni ha trovato il ritmo giusto. «Merito del dottor Falai che mi ha seguito dal 1966, scelse lui i medicinali giusti, e poi di mia moglie. Con il matrimonio la mia vita si riequilibrò e il cuore non fece più capricci».

 


Nella sera di sabato 5 agosto, nel quartier generale italiano si presenta il commendator Trapletti, uno dei dirigenti della Chiorda, che ha da qualche settimana ha assorbito la Bianchi. Ha un’idea meravigliosa: arruolare Felice Gimondi. I due parlano per diverse ore, il campione è tentato dall’offerta anche se dal punto di vista economico rischia di andare a rimetterci. Per questo motivo, prova a sparare alto su un altro fronte. Vuole con sé il direttore sportivo Adorni, alcuni suoi gregari in forza alla Salvarani e, soprattutto, Marino Basso. Trapletti dice sì, Gimondi pone la firma su un biennale da cinquantacinque milioni di lire e la Bianchi, senza averne la più pallida idea, mette sotto contratto anche il futuro campione del mondo.

 

Nei primissimi giri del circuito di Gap, Gimondi capisce che non è aria di imprese. E allora si mette a tallonare Merckx, l’obiettivo è non far partire l’azione solitaria del fuoriclasse belga. Scortare Basso in un arrivo ristretto vorrebbe dire avere buone chance di vittoria, il vicentino ha ancora la frustata giusta nonostante una stagione difficile. Il commissario tecnico Ricci manda in avanscoperta Boifava, seguito da Porter e Spahn. L’azzurro è solo al nono giro, praticamente a metà corsa. È un tentativo esplorativo, la cui ambizione è limitata allo smuovere le acque nelle retrovie. Quattordicesimo giro, tocca a chi sogna l’iride. Merckx impone un ritmo tremendo, gli avversari cadono come mosche. Si rimane in dieci: il Cannibale con i connazionali De Vlaeminck e Verbeeck, il francese Guimard, l’olandese Zoetemelk, il danese Mortensen e ben quattro azzurri. Altro che Italia in disarmo. Dancelli, Panizza, Basso e Bitossi sono nel gruppo che conta. Prima di mollare, Gimondi si avvicina a Basso per incitarlo.

 

Il gruppo di testa si è assottigliato a sette unità e Guimard, che pure potrebbe dire la sua in volata, si lancia in un’azione che non ha efficacia grazie al lavoro di Bitossi, subito alla ruota del francese. All’altezza dell’attraversamento di Gap, Bitossi parte. In molti aspettavano la sua stoccata, ma non così presto. Lo si attendeva ai piedi dello strappetto finale, invece Cuore Matto saluta la brigata e vola verso il titolo mondiale in largo anticipo. «Ho pensato: Merckx è un amico, non mi seguirà. Basso e Dancelli faranno gioco di squadra, Guimard è stanco, Mortensen e Zoetemelk potrebbero rincorrermi ma sono in minoranza.

 

All’ultima curva vedo che ho trecento metri di vantaggio, so che manca più di un chilometro». È a mille metri dal sogno e nulla sembra poterglielo togliere. Bitossi spinge sulla breve discesa che preannuncia la leggerissima salita conclusiva, cambia il rapporto. «Ne metto uno più leggero, ma mi sembra troppo leggero e commetto l’errore fatale: ne metto uno più duro, e mi pianto». I metri diminuiscono così come il vantaggio sul gruppetto degli inseguitori. Guimard è il più attivo, è lui a suonare le trombe per lo sprint. Bitossi cerca di proteggersi sul lato della strada ma è scavato dall’ansia, la gamba non va più, lo striscione del traguardo pare allontanarsi invece di avvicinarsi. Si volta, in un tic che è presagio nefasto. Alle sue spalle volano.

 

La pedalata di Franco è sempre più sofferta, il corpo scomposto in un gesto che perde pulizia al semplice trascorrere dei secondi. Un breve lampo, sottolineato da Adriano De Zan: «Forse ha ritrovato la condizione necessaria!», urla il cronista. Bitossi si volta ancora e nel farlo perde la traiettoria giusta, si porta verso il centro della strada. È l’ennesimo errore di un finale che ha i contorni di un horror. Il protagonista apre la porta che non dovrebbe e va verso morte certa. «Mi giro, ma le auto del seguito mi impediscono di vedere gli inseguitori, allora mi porto al centro della strada e mi investe il vento contrario.

 

Sento la folla che rumoreggia, che accompagna il recupero forsennato del gruppetto che ormai mi è alle costole». Eppure di metri ormai ne mancano quindici, basterebbe pescare l’ultima pedalata buona dal fondo delle energie rimaste per scoprire quanto sono belli i colori dell’arcobaleno. Bitossi passa sulla prima scritta dello sponsor, ce ne sono due a ridosso del traguardo, ed è ancora in testa da solo. Lo è anche quando supera la seconda, e allora è cosa fatta, il titolo è suo. Ma alle sue spalle, per evitare una beffa transalpina, si è mosso il suo compagno di squadra. Marino Basso riversa sui pedali tutta la frustrazione di un 1972 da dimenticare, in un’azione di rara potenza, fisica ed emotiva. Lo affianca quando al traguardo mancano sì e no due biciclette. E vola verso l’iride, con le braccia al cielo, mentre sullo sfondo c’è lo sguardo sgomento di Bitossi, che non può credere a quello che ha appena visto. È arrivato secondo al Mondiale di Gap, e a sfilargli il sogno della vita è stato un suo connazionale.

 

Nel giro di 250 metri, Marino Basso stravolge il paradosso di uno sport individuale che si corre con dei compagni di squadra. Ha visto il titolo mondiale a portata di volata e se l’è preso, lasciando che per una volta a prevalere fosse l’istinto, la voglia di vincere che ogni atleta cova nel profondo, e non la logica del lavoro per il compagno. «

prima dell’attraversamento di Gap, con una di quelle sue proverbiali sparate. Al momento pensai che fosse finita, addio Mondiale. Io non potevo tirare, Dancelli era a pane e pesce. Merckx mi provocò: “Ormai ha vinto Bitossi, sono proprio contento”. Non l’avesse mai detto. Ho visto Guimard che parlottava con Zoetemelk e nel centro abitato, dopo che la tv se ne era andata, girammo tutti in testa, pancia a terra e via. Sapevo che una volta ripreso Bitossi avrei stravinto la volata. A 500 metri ero convinto di vincere, temevo soltanto di scattare con troppa forza fino a rompere i raggi».

 

Bitossi tradito non solo da Basso, quindi, ma involontariamente anche dall’amico Merckx. Una parola di troppo a infiammare lo spirito del velocista, e uno scatto deleterio per le speranze di Cuore Matto. «Avevo già calcolato che avrei dovuto fare una doppia volata. Un solo sprint lungo, su quel rettilineo in leggera salita mi avrebbe fatto esplodere il cuore. Pensavo di partire ai 250, di respirare ai 150 e di ripartire ai 100 metri. Facevo tutti questi calcoli quando è partito Merckx. Lo avrei baciato. "Ecco il mio uomo", ho pensato, "Ecco il mio salvatore". Dovevo aspettarmelo, dovevo saperlo, che Eddy non rinunciava, mai. Così mi sono messo dietro al Cannibale e Merckx mi ha letteralmente tirato la volata e mi ha consentito di fare un solo travolgente sprint. Rapporto pieno, 53x13, e via. Mi sono tolto di ruota Guimard e quando ho passato Bitossi mi sembrava che fosse fermo. Non pensavo nemmeno che riuscisse ad arrivare secondo».

 



 

Basso, Bitossi, Guimard. Il podio finale di Gap 1972 vede Merckx, quarto, a bocca asciutta. «Gli italiani sono stati bravissimi a mettermi in trappola, hanno fatto un ottimo gioco di squadra. L'avevo previsto: su un tracciato così, erano favoriti i velocisti. Basso ha fatto il succhiaruote per quasi tutta la corsa, prima in gruppo e poi nel drappello di testa. Non voglio farmi dei nemici e dire che non è degno del titolo, dico soltanto che lo invidio perché è un uomo fortunato». Al momento di salire sul podio, Bitossi fatica a parlare. È frastornato, distrutto. «Quando sono arrivato dietro al palco della premiazione – racconta Basso – ho temuto che il mio gesto fosse malinteso. Piangevano tutti. Ho pensato: “Qui mi menano”. Mi sono messo a piangere anche io, appena ho visto Bitossi l’ho abbracciato calorosamente. Lui era in piena crisi, non mi ha detto una sola parola. Non mi ha parlato per un lungo periodo, forse perché quel simpaticone di Merckx gli disse che nell’attraversamento di Gap avevo tirato come un matto anche io». Nessun gioco di squadra per proteggere l’attacco di Bitossi, soltanto la voglia di agguantare un titolo mondiale ancora possibile. Poco importa al commissario tecnico Ricci, raggiante al traguardo: «Quando ho incluso Basso in squadra, molti mi hanno accusato di aver sbagliato, c’era tanta gente convinta che Marino non sarebbe nessuno arrivato al traguardo. Quello che è successo dimostra che avevo ragione io».

 

Basso ha effettivamente un crollo emotivo a ridosso della premiazione, come testimoniano le telecamere della Rai. Si tiene il volto con entrambe le mani in lacrime mentre De Zan cerca di intervistarlo. «Nessuno aveva fiducia in me perché al Tour non avevo vinto nemmeno una tappa. Tutti dicevano che Basso era finito e invece ho dimostrato che non è così». Piange a dirotto anche Bitossi, che fatica a stare in piedi e deve lasciare la postazione Rai per il dolore dopo qualche parola. Nel tono della voce c’è la disperazione di chi ha visto passare il treno atteso per tutta una vita: «Stavo per alzare le mani, quando ho visto passare Basso ho provato la più grande delusione della mia vita». I due salgono insieme sul podio, per qualche istante Basso abbraccia Bitossi, sta con lui sul secondo gradino, il sorriso di Bitossi è forzato.

 

Il gelo tra i due dura qualche mese. «Quando ci incontrammo di nuovo, Franco mi guardò e mi disse: “Sei un cane randagio. Ma proprio tu dovevi venire a prendermi? Non potevi aspettare un po’?”. Poi recuperammo, ricordo che una sera ci trovammo alla Domenica Sportiva, dopo aver visto più volte il replay della volata ci abbracciammo». Bitossi riesce quindi a dimenticare lo sgarbo, pur riconoscendolo: «Dietro non mi hanno aiutato. Sarebbe bastato che Basso e Dancelli spezzassero qualche cambio, con un normale gioco di squadra avrei comunque tagliato il traguardo per primo. Ormai sono abituato a essere ricordato per quella sconfitta. Ogni volta che mi invitano a una festa ciclistica ripropongono il finale di quel Mondiale.

 

All’inizio era un pugnale che affondava nella ferita, ora invece mi viene da ridere. Rido per come pedalavo, non avevo più forze, spingevo la bici con le spalle, con la testa, con i gomiti, ma senza andare avanti. Dopo l’arrivo ebbi una crisi di nervi ma non ho mai dato la colpa a basso, sono rimasto suo amico. Ho chiuso la carriera alla Gis, in squadra con lui, e gli ho anche tirato una volata in una tappa al Giro del Mediterraneo. Penso, immagino, anzi so che lui ha fatto quello che poteva per venirmi a prendere e ha cercato tutti gli aiuti possibili per chiudere il buco. Ma è qualcosa che ha a che fare con la sua coscienza. Io non ho avuto rancore, mai».

 

 

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