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Gli Stati Uniti sono di nuovo la squadra da battere
09 ago 2021
09 ago 2021
Come Durant e compagni hanno conquistato l’oro contro la Francia.
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10 min
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Dal momento in cui, dopo le delusioni di Indianapolis nel 2002 e Atene nel 2004, veniva effettuato il reboot del progetto USA Basketball, la domanda che ha accompagnato Mondiali e Olimpiadi è sempre stata la stessa: chi sfiderà gli americani in finale? Ai due estremi dell’arco temporale della quasi ventennale gestione Colangelo ci sono le brucianti sconfitte contro Grecia e Francia ai Mondiali (rispettivamente 2006 e 2019), ma anche tre ori olimpici e due Coppe del Mondo. Si tratta di vittorie ottenute in modo perentorio dalle varie incarnazioni della nazionale a stelle e strisce, con l’eccezione delle due tiratissime finali olimpiche contro la Spagna.

Vuoi per la scottatura rimediata al mondiale cinese appena due anni fa, vuoi per un percorso di avvicinamento ai giochi rivelatosi ben più difficoltoso del previsto, quella stessa domanda aveva finito per essere tutt’al più sussurrata alla vigilia di Tokyo 2020. I pronostici più accreditati vedevano gli USA favoriti, certo, ma con un vantaggio davvero minimo rispetto al gruppo di candidate alla medaglia che comprendeva Australia, Francia, Slovenia e Spagna.

E il torneo, al netto di qualche prestazione individuale stellare, ha seguito i pronostici in maniera abbastanza lineare. A decidere l’approdo in zona podio sono stati i piazzamenti ai gironi e il successivo sorteggio, rituale che ha aggiunto un pizzico di casualità alla costruzione del tabellone a eliminazione diretta. Casualità che ha curiosamente finito per generare forse la risposta più logica alla domanda di cui sopra - chi incontreranno gli Stati Uniti in finale - producendo un nuovo capitolo di quella che comincia ad avere tutti i crismi di una vera e propria rivalità.

Una classica, o quasi

Fin dalla fase a gironi la Francia di Vincent Collet aveva dato l’impressione di essere la squadra più solida tra quelle atterrate a Tokyo. Forte di un nucleo storico abituato a giocare insieme dal 2014, Collet si è confermato abilissimo nel saper amalgamare veterani NBA come Batum, Gobert e Fournier a stelle dell’Eurolega come de Colo e Huertel. La combinazione di fisicità e atletismo, poi, ha consentito alla Francia di controllare quasi sempre il ritmo delle partite, soprattutto in difesa dove i francesi hanno dimostrato una capacità unica di sporcare le linee di passaggio e di cambiare su ogni avversario (chiedere agli azzurri - annichiliti nelle fasi decisive del quarto di finale - per conferme). Non che Gobert e soci, forti del terzo posto ai mondiali cinesi due anni prima, avessero bisogno di dimostrare alcunché, tantomeno di un’ulteriore iniezione di fiducia, ma non c’è dubbio che la roboante vittoria all’esordio proprio contro Team USA abbia rappresentato un trampolino di lancio notevole.

La sconfitta contro la Francia all’esordio, che arrivava dopo due sconfitte subite in amichevole con Nigeria e Australia, aveva invece addensato nuvole nere sopra Popovich, che vedeva materializzarsi la prosecuzione di un incubo iniziato con il fallimentare 7° posto maturato al Mondiale cinese di tre anni prima. Invece dopo quella partita, il Team USA si era messo rapidamente in sesto, concedendo giusto qualche brivido contro la Spagna ai quarti e l’Australia in semifinale. I campioni olimpici in carica davano l’idea di poter accendere e spegnere l’interruttore a piacimento e, di fatto, decidere il risultato delle singole gare con parziali di pochi minuti, in cui una difesa aggressiva e coesa produceva palle recuperate, rimbalzi e punti facili in contropiede. Una tendenza che gli è stata sufficiente per arrivare in finale, ma che poteva potenzialmente essere pericolosissimo contro un’avversaria esperta e determinata come la Francia.

Una finale in loop

Ed effettivamente la finale è stato un lungo elastico, con gli Stati Uniti avanti nel punteggio e la Francia a resistere ai vari tentativi di fuga della squadra di Popovich.

Dopo l’iniziale 10-4 francese – frutto della pigrizia difensiva statunitense e dello 0/7 da tre per Lillard e soci -, la gara si è infatti trasformata in una sorta di loop in cui la sequenza “strappo Team USA-recupero Francia” sembrava doversi ripetere all’infinito. La pazienza e la voglia di cercare l’extra-pass, insieme agli accorgimenti tattici di Collet – tra cui spiccava l’inconsueta scelta di mandare in campo una coppia di lunghi pescata dal trio Gobert-Fall-Poirier allo scopo di punire i quintetti americani con Green da small-ball five – pagavano buoni dividendi in attacco.

Circolazione di palla che avrà fatto salivare anche Popovich sulla panchina avversaria.

Non di meno, però, la coperta francese si dimostrava troppo corta, evidenziando la letalità di ogni passaggio a vuoto o errore di comunicazione in difesa prontamente puniti da un sontuoso Kevin Durant, deus ex machina di un attacco disciplinato ed efficiente (prima palla persa, da Holiday, con 3:35 da giocare nel secondo quarto).

Gobert in leggero ritardo sul close out, Durant esiziale dall’angolo.

Il contro-parziale di 13-5, animato dalla capacità attoriale dei francesi – che in fin dei conti hanno pur sempre inventato il cinema - e coadiuvato da un metro arbitrale ondivago nel valutare i contatti, portava all’intervallo lungo sul 44-39 per Team USA.

Un terzo quarto contraddistinto dalla masterclass difensiva di Holiday, bravo a pressare fin dalla linea di metà campo ora Fournier, ora de Colo, e da due palle perse consecutive di Huertel vedevano l’allungo degli USA, capaci di arrivare a un vantaggio di 14 punti (71 a 57) quando mancavano 1:14 sulla sirena del terzo periodo.

Lezione di pick and roll e lettura dei cambi difensivi firmata Adebayo-Durant.

Sembrava l’allungo decisivo, ma due triple di Luwawu-Cabarrot – tra i migliori dei suoi anche in finale – e Batum riportavano in linea di galleggiamento la Francia, pur senza dare l’impressione che gli uomini di Collet avessero una chance concreta di ribaltare il risultato nell’ultima frazione.

La tripla che ad un certo punto sembrava essere un segno del destino per la Francia.

Due eventi del tutto impronosticabili come la tripla di Ntilikina che riportava la Francia a un possesso di distanza sul 73-70 con 5:35 sul cronometro e i due liberi sbagliati da Lillard – al netto dei problemi fisici rivelati dopo il fischio finale forse il più deludente tra le stelle a disposizione di Pop – sull’85-78 a 23 secondi dalla fine, inframezzati dalla consueta tendenza americana ad alzare troppo presto le mani dal manubrio, riuscivano a tenere la partita in bilico fino alla tripla dall’angolo mandata malamente per aria da Batum sull’ultimo possesso francese.

Sorpasso mancato

Per quanto il campione statistico sia limitato in quantità (sole 6 partite complessive) e in qualità (Iran e Repubblica Ceca nel girone non rappresentano test credibili), rimane il fatto che Team USA ha segnato 107,75 punti di media contro gli altri avversari e solo 81,5 nelle due gare contro la Francia. La difesa costruita da Collet attorno al perno Rudy Gobert, non a caso tre volte difensore dell’anno NBA, ha funzionato, risultando la migliore del torneo per media punti concessi a partita (77,6). Per compiere l’impresa, alla Francia è mancato il miglior Batum arrivato con il serbatoio vuoto al termine di tre mesi che, tra playoff NBA e Olimpiadi, l’hanno visto giocare a livelli altissimi dopo un periodo in cui la sua carriera sembrava alle battute finali. Certo rimarrà come uno dei momenti dell’Olimpiade la sua stoppata su Prepelic che ha regalato la finale alla Francia.

Di certo alla squadra di Collet è mancata la lucidità necessaria nei possessi decisivi, come la tripla tentata e sbagliata da metà campo da Fournier sul 78-84 o l’incomprensibile amnesia difensiva sulla rimessa che ha mandato Durant in lunetta a segnare gli ultimi due punti della finale olimpica. Le 20 palle perse – spina nel fianco che ha accompagnato i transalpini per tutto il torneo – e i punti subiti in contropiede – 20 contro i soli 12 segnati – hanno indirizzato una partita in cui la Francia ha sempre avuto la targa di Team USA nel campo visivo senza però mai riuscire ad azzardare davvero il sorpasso.

Il senso di una medaglia

Il processo di crescita costante che ha portato la Francia ad essere una presenza stabile nel gotha del basket mondiale sembra ben lontano dall’essersi esaurito e il futuro, garantito da centri d’allenamento di assoluta eccellenza, si prospetta ricco di ulteriori soddisfazioni. Dietro al gruppo di senatori che ha guidato fin qui la squadra, infatti, nei prossimi anni si affacceranno alle competizioni con la nazionale maggiore talenti come Killian Hayes, Theo Maledon e il chiacchieratissimo diciassettenne Victor Wembanyama.

L’argento olimpico, quindi, potrebbe essere un punto di partenza e nulla vieta di ipotizzare che la rivalità con gli Stati Uniti possa proseguire. Per quanto riguarda Team USA la vittoria in finale tiene aperta una striscia di quattro ori olimpici consecutivi, impresa che non riusciva da oltre 50 anni. Per alcuni dei protagonisti del successo alla Saitama Super Arena, inoltre, il trionfo ha un significato particolare. Per Gregg Popovich, innanzitutto, che di quel reboot citato in apertura poteva far parte fin dall’inizio, quando gli fu preferito Mike Krzyzewski nel ruolo di head coach, e che invece è riuscito a sedersi sulla panchina americana solo nel 2017. A 72 anni, Pop appare molto vicino alla conclusione di un percorso iniziato nel lontano 1973 come assistente sulla panchina della squadra dell’Aeronautica Militare, proseguito con 5 titoli NBA e a cui difettava solo una soddisfazione sul palcoscenico FIBA (palcoscenico di cui, tra l’altro, è stato uno dei primi a riconoscere il valore).

L’esperienza olimpica chiude il suo quadriennio al timone di Team USA e l’addio celebrato dal gradino più alto del podio, per Popovich, è il coronamento di una carriera leggendaria.

Anche per Kevin Durant, che ha chiuso il torneo andando molto vicino ad una media da 50-40-90 club, l’avventura in terra giapponese ha risvolti che non è azzardato definire storici. La medaglia vinta a Tokyo, il terza al collo dell’ala dei Nets, a cui andrebbe aggiunta la vittoria – da MVP della competizione - al mondiale 2010, gli ha permesso di agganciare Carmelo Anthony in testa alla classifica dei cestisti con il maggior numero di ori olimpici. Lo stesso Anthony che Durant, con i 23 punti segnati alla Repubblica Ceca, ha superato diventando il miglior marcatore della storia di USA Basketball.

Non solo, a prescindere dalla portata storica delle sue imprese olimpiche, Durant è stato molto semplicemente la differenza tra una spedizione a forte rischio di una débâcle, non molto diversa da quella dei mondiali cinesi, e la medaglia d’oro. E se il picco della carriera di Durant è rappresentato probabilmente dal triennio trascorso ai Golden State Warriors, non c’è dubbio che queste Olimpiadi ne abbiano certificato il ritorno alla piena forma dopo il lungo stop per la rottura del tendine d’Achille e, nonostante la riluttanza a farsi da parte di James e la forte ascesa di Antetokounmpo e Doncic, lo status di miglior giocatore di pallacanestro sul pianeta terra.

L’ampiezza dell’oceano

Quanto all’annosa questione del gap tra la pallacanestro americana e il resto del mondo, tema di dibattito da ormai quasi trent’anni, queste Olimpiadi non hanno fornito spunti particolarmente significativi. Posto che, per ovvi motivi, il metro di valutazione non può e non deve essere la vittoria o meno degli Stati Uniti, azzardare sentenze definitive significa ignorare la complessità e l’incostanza del processo di globalizzazione che ha investito il mondo del basket dall’inizio degli anni ‘90. Le differenze nel regolamento e nel metro arbitrale, al pari di quelle solo in apparenza più banali relative alle dimensioni del campo e del pallone e di durata complessiva della partita sono – e rimarranno – fattori di cui tenere conto.

L’impressione è che USA Basketball, il cui programma passa ora in mano al nuovo direttore Grant Hill, disponga ancora di un cospicuo sovrappiù in termini di talento e profondità del roster, non sufficiente però a dare per scontato il dominio sugli avversari. Team USA dovrà affrontare gli impegni futuri con la giusta determinazione, magari contenendo la tendenza a trasformare i raduni in una sorta di zona franca dal tampering in cui pianificare scelte contrattuali e mosse di mercato, pena il ripetersi di copioni già visti e di ferite profonde all’orgoglio di chi la pallacanestro l’ha inventata.

E questa, da amanti del gioco, che vi piaccia la NBA o che preferiate il basket di area FIBA, non può che essere una prospettiva allettante.

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