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Tim Warner/Getty Images
NBA Andrea Beltrama 8 agosto 2019 10'

Conviene fare fallo sulla tripla del pareggio?

Abbiamo chiesto a quattro allenatori professionisti la loro posizione su una questione che tradizionalmente divide Europa e Stati Uniti.

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Sei un allenatore di pallacanestro.
La tua squadra è avanti di tre punti.
Mancano meno di venti secondi alla fine.
Gli avversari hanno la palla.
Cosa decidi di fare?

 

È un dibattito che da sempre divide appassionati e addetti ai lavori. Da una parte c’è l’aspetto tattico, tradizionalmente visto come la scelta tra due opzioni: commettere fallo, concedendo due tiri liberi all’avversario ed evitando così la possibilità di subire un tiro da tre; oppure difendere normalmente, esponendosi al rischio di essere acciuffati con una tripla, ma sottraendosi a una serie di pericolosi effetti collaterali — dal rischio di un fallo in azione di tiro agli imprevedibili sviluppi del tiro libero che gli avversari dovranno necessariamente sbagliare.

 

Dall’altra c’è l’aspetto ideologico. Quello che ci ha portato a vivere questo dilemma come uno scontro tra categorie fondamentali della morale umana: sbarazzini contro sportivi; logici contro ingenui; pensatori flessibili contro schiavi del protocollo. E, ovviamente, il sempiterno Europa contro America, alimentato peraltro anche da frequenti bordate degli addetti ai lavori. Come per esempio la scorbutica risposta con cui Gregg Popovich replicò a una domanda di Massimo Oriani della Gazzetta dello Sport (minuto 0:46) dopo gara-6 delle finali 2013, quando la tripla di Ray Allen mandò la partita al supplementare e tolse agli Spurs un titolo ormai vinto.

 

E così, prima di tornare a dispensare soluzioni assolute su Twitter, abbiamo deciso di provare a capirne di più. Quali sono le possibili strategie difensive in una situazione del genere? Quali aspetti del contesto influenzano la scelta? E fino a che punto c’è davvero uno scontro filosofico tra America e Europa sulla questione? Lo abbiamo chiesto a quattro allenatori di livello assoluto, largamente diversi per formazione, esperienza e lega di appartenenza:

 

— Marco Crespi, ex allenatore della Nazionale Femminile italiana;

 

— Bob McKillop, icona NCAA da 29 anni sulla panchina di Davidson College (di cui tre allenando Steph Curry);

 

— Chris Jent, assistente degli Atlanta Hawks, forte di un titolo NBA con gli Houston Rockets e un ancor più incredibile semifinale Scudetto con la Pallacanestro Reggiana;

 

—  Erdem Can, assistente di Zelimir Obradovic sulla panchina del Fenerbahce, con cui ha vinto l’Eurolega nel 2017.

 

Qual è il vostro approccio a questa situazione di gioco?

 

Marco Crespi: Il punto non è se fare fallo o non fare fallo, è quando e come farlo. L’idea di fondo è quella di avere una difesa pronta a mangiare secondi all’avversario, e poi commettere fallo al momento opportuno.  Ovvero non troppo presto, e soprattutto senza intercettare un’azione di tiro. In questo senso, guai ad aspettare sul perimetro; è il modo migliore per esporsi al rischio. Meglio invece aggredire la palla, con una difesa in cui chiunque può fare un cambio e “spingere dentro” l’avversario. A quel punto, l’occasione per fare un fallo si presenta più facilmente, mentre i rischi vengono ridotti al minimo.

 

Bob McKillop: Ogni partita presenta una situazione diversa. Preferisco essere pronto ad adattarmi al contesto, piuttosto che avere una strategia universale. Quello che decido di fare dipende da molte variabili. Di che livello sono i tiratori avversari? Stiamo giocando contro una squadra che esegue bene nel finale? Come stanno giocando questa sera? Ad esempio, possiamo decidere di fare fallo se vediamo che la nostra squadra sta faticando in difesa, o se l’avversario è in un momento particolarmente felice in attacco. Ma possiamo anche decidere di difendere a uomo normalmente se vediamo che abbiamo energia, o se pensiamo che sia importante lanciare un messaggio alla squadra. A tal proposito, infatti, ci si dimentica spesso di una cosa: nulla carica i giocatori come arrivare all’ultimo timeout e dire “ragazzi, mi fido di voi, difendiamo duro e vinciamo la partita”. Per esperienza, è una delle strategie migliori per compattare il gruppo e spingerlo a rendersi pienamente conto del proprio potenziale. È vero, si corre il rischio di finire al supplementare, ma è un momento che va ben al di là della singola partita e che può avere benefici su un’intera stagione. Se anche dovesse andare male nella fattispecie, resta una strategia per vincere la guerra, più che la singola battaglia.

 

Chris Jent: Tendenzialmente vogliamo commettere fallo. Però è fondamentale che sia fatto all’interno della linea del tiro da tre: nella NBA certi giocatori sono velocissimi a trasformare una ricezione in un tiro, e ogni volta che ci si trova fuori dall’arco dei tre punti si è dunque sempre a rischio di regalare tre tiri liberi. Per questo è essenziale cercare di spingere l’avversario verso l’interno del perimetro. Ad esempio cambiando su qualsiasi blocco, e usando l’uomo che marca la rimessa per disturbare le linee di passaggio esterne, lasciando invece più scoperte quelle verso l’interno. In ogni caso, la difficoltà più grande nel gestire questa situazione non è tanto la decisione che si prende, ma convincere i giocatori ad eseguirla. Commettere un fallo in quel momento della partita richiede tempismo, ma anche fermezza. Molti giocatori esitano, non si sentono sicuri. E così facendo possono pregiudicare la riuscita della giocata difensiva. Per questo è fondamentale allenarsi allo sfinimento su queste situazioni speciali: per capire cosa fare, ma soprattutto per sentirsi sicuri di quello che si deve fare.

 

Erdem Can: L’idea del nostro staff è quella di fare fallo, almeno nel 90% dei casi. Come e quando farlo, però, dipende molto dal contesto. La situazione più pericolosa è quando l’attacco può partire da una rimessa. Lì c’è sempre il rischio di un movimento integrato di ricezione e conclusione, che ci espone a un altissimo rischio di far fallo in azione di tiro. La nostra idea è quella di mettere il giocatore più grosso che abbiamo a disturbare la rimessa; gli altri quattro devono negare la ricezione ai tiratori di liberi migliori, lasciando spazio per ricevere a quello che ha le percentuali peggiori dalla lunetta. Infine, l’ideale è invitare la ricezione il più lontano possibile dal canestro. Se si riesce a forzare una ricezione all’altezza della metà campo, si riescono a mangiare un po’ di secondi, il che ovviamente va tutto a vantaggio della difesa.

 

Forse il caso di non-fallo più famoso della storia?

 

Ci sono circostanze particolari e che richiedono dunque aggiustamenti speciali? 

 

Marco Crespi: L’eccezione è quella in cui l’avversario ha una stella designata e nessun altro che offre reale pericolosità da fuori. In quel caso sono anche disposto a raddoppiare, ma non è una situazione che capita di frequente. Un’altra situazione particolare è quella in cui l’avversario può rimettere nella metà campo offensiva. Qui bisogna stare attentissimi e cercare di togliere ogni linea di passaggio sul lato della palla, nell’area compresa da dove si fa la rimessa e l’angolo. Se un attaccante può ricevere e tirare in questa zona, lo fa con un movimento unico, che rende un fallo prima del tiro sostanzialmente impossibile.

 

Bob McKillop: Come detto sopra, per noi ogni situazione è speciale, diversa e unica nel suo genere. Ci sono partite in cui abbiamo fatto fallo; in cui ci siamo messi a zona; in cui abbiamo raddoppiato; o in cui siamo rimasti a uomo. Non vogliamo essere prevedibili, ma adattabili al contesto. E per farlo servono diversi ingredienti: conoscenza dei numeri, istinti, esperienza, abilità di leggere la situazione. Le statistiche possono anche suggerire che, a livello probabilistico, convenga fare fallo. Ma bisogna ricordarsi che fare fallo nei finali di partita è facile a dirsi, ma difficile da eseguire —non sai mai come viene giudicato dagli arbitri, e che scenari può aprire dopo i tiri liberi.

 

Chris Jent: Cerchiamo di applicare il nostro approccio a prescindere dal contesto specifico. Ma va detto che nella NBA c’è molta variazione da squadra a squadra nel modo di gestire questa situazione. Alcune squadre si mettono a zona per togliere il più opzioni possibili sul “lato forte” (quello in cui si trova la palla). È un modo per chiudere le linee di passaggio, o almeno per rendere il meno trasparenti possibile. Altre squadre cambiano sistematicamente su ogni blocco, usando anche il difensore in marcatura su chi effettua la rimessa. Diciamo che al momento il 50% delle squadre non ricorre al fallo; ma è una percentuale destinata a scendere sempre di più.

 

Erdem Can: Bisogna sempre tenere conto del conto dei falli dei propri giocatori. In genere, seguiamo l’approccio descritto sopra in tutte le situazioni; ma se c’è il rischio che fare fallo costringa un nostro giocatore importante a uscire, tenere il giocatore in campo può avere la precedenza.

 

Ci sono episodi che sono risultati particolarmente istruttivi nel  tuo approccio a queste situazioni?

 

Marco Crespi: Due in particolare. Una volta, quando allenavo Casale in Serie A2, affrontavamo Soresina in una partita di playoff. Uno dei miei giocatori esitò e non commise fallo quando poteva farlo. Risultato: tripla di Filloy, supplementare, partita persa. Quando tornammo a guardare l’azione, lui mi disse che credeva che il momento buono fosse passato; io gli feci vedere che in realtà avrebbe ancora potuto farlo. Un’altra volta, sempre a Casale, ma questa volta eravamo in Serie A1. Giocavamo contro Cantù e Garrett Temple fu bravissimo a togliere loro la possibilità di ricevere e tirare sul lato forte. La sua difesa li mandò in confusione, e riuscimmo a vincere la partita. Quello che mostrano questi episodi è che si tratta di situazioni di grande pressione, che richiedono rapidità eccezionale nelle letture. E un allenamento paziente, incentrato sui dettagli. Non sono le idee di per loro a fare la differenza, ma come vengono eseguite.

 

L’episodio citato da Marco Crespi 

Bob McKillop: Più che le partite che ho allenato, ricordo le partite che ho guardato. Da allenatore ne vedi tutte le sere. Vedi quello che può succedere. Ogni partita vista diventa una lezione che può influenzare il tuo modo di pensare alle situazioni di gioco speciali, inclusa questa di cui stiamo parlando. Ogni volta che credi di avere una convinzione — fallo, non fallo, ecc. — succede qualcosa di insensato che ti costringe a ricrederti. Ho perso il conto ormai.

 

Chris Jent: La sconfitta interna con i Bulls nella scorsa regular season, dopo quattro supplementari. Una serata in cui abbiamo giocato bene in attacco, ma abbiamo commesso tutti gli errori possibili in difesa. Tra cui anche la giocata sul possesso alla fine dei tempi regolamentari: Otto Porter riceve, tira, subisce fallo, segna i tre liberi, allunga la partita. L’errore è stato del nostro difensore sulla rimessa [Dewayne Dedmon, ndr]. Volevamo che disturbasse le linee di passaggio ai tiratori, come spiegato sopra; invece è rimasto incollato alla palla, finendo con il commettere fallo proprio su Porter – ovvero il giocatore che più temevamo in questa situazione. Credo sia una buona dimostrazione di come spesso ci sia una differenza importante tra decidere qualcosa dalla panchina ed eseguirlo effettivamente sul campo. Le scelte le facciamo noi, ma a metterle in pratica sono i giocatori. Ed è questa la parte veramente difficile.

 

Erdem Can: Ci sono state varie situazioni in cui ci aspettavamo un fallo dall’altra parte, non è arrivato, e ne abbiamo approfittato. La volta più clamorosa, forse, è quando Bogdanovic segnò un tiro da tre allo scadere, tirando prima della metà campo. Eravamo sotto di 2, non di 3, per la precisione. Con quel tiro vincemmo la partita.

 

Davvero esiste una differenza filosofica tra Nord America ed Europa nel gestire questa situazione?

 

Marco Crespi: Una volta poteva forse anche esserci. Adesso la divisione culturale tra basket europeo e NBA mi sembra superata. D’altra parte, è pure superata quella tra destra e sinistra. 

 

Bob McKillop: Più che culturale, la differenza è tecnica e regolamentare. In particolare, l’interpretazione di un fallo come quello che si fa per evitare un tiro da tre — un fallo che a tutti gli effetti è intenzionale — cambia molto tra Europa, NBA e NCAA. In Europa tradizionalmente c’è molta più tolleranza che in America. Si vede anche in altre situazioni come i falli commessi per fermare situazioni di contropiede o transizione. Quelli che in Europa sono generalmente considerati falli di gioco in NBA rischiano di essere interpretati come “clear path to the basket“, e in NCAA come falli intenzionali — in entrambi casi si paga con due liberi e palla all’avversario.  La verità è che, almeno a livello di college, ci si muove sempre in uno stato di incertezza su come vengano giudicati certi tipi di falli. E questo ha sicuramente portato allo sviluppo di approcci difensivi diversi rispetto all’Europa.  

 

Chris Jent: Storicamente, è vero che in Europa si è sempre stati più inclini al fallo che in America. Ma la differenza si sta restringendo sempre di più. Come detto sopra, credo che il 50% delle squadre NBA vogliano fare fallo, o almeno prendano seriamente in considerazione l’idea. La differenza rimane invece marcata sulle tempistiche. Mi è capitato in Europa, quando giocavo, di vedere dei falli quando c’era più di un possesso da giocare, addirittura a 50-55 secondi dalla fine. In NBA il fallo si fa solo se manca meno di un possesso. In ogni caso, credo che la differenza tra i due approcci sia dovuta a vari fattori, non solo culturali. Ad esempio, in NBA in queste situazioni il gioco parte quasi sempre da una rimessa nella metà campo offensiva. In una situazione così aumenta esponenzialmente il rischio di commettere un fallo in azione di tiro. In Europa, invece, l’avanzamento della palla non esisteva fino a pochissimo tempo fa, e comunque non si può chiamare timeout con la palla viva. E così, capita più spesso che una squadra debba partire ad attaccare dalla propria metà campo, spesso senza nemmeno interrompere il gioco. E questo rende molto più facile commettere fallo in maniera sicura.

 

Erdem Can: Credo di sì. In Europa, o almeno in Turchia, un approccio del genere è visto come quello più logico. So che in America, invece, l’idea di fare fallo rimane ancora abbastanza marginale. Credo che sia una questione di cultura. Ce ci pensiamo bene, ci sono tante situazioni di gioco che vengono affrontate diversamente. Ad esempio, in Europa non si fa quasi mai fallo tattico sugli avversari che tirano male i liberi (il cosiddetto Hack-A-Shaq); in USA invece si vede più spesso. Un altro esempio: avere l’ultimo tiro è sacro in Europa, ma non al di là dell’Oceano. Da noi capita spesso di vedere una squadra che fa fallo anche quando è avanti di 1-2 punti, o è pari, per poter avere l’ultimo tiro. In USA, invece, non succede quasi mai: si fa fallo solo se si è sotto nel punteggio. 

Tags : basketnbatiro da 3

Andrea Beltrama nasce a Sondrio, Valtellina County, e vive a Costanza, al di là delle Alpi. Università a Bologna, poi sette anni a Chicago, dove consegue, tra una partita dei Bulls e l’altra, un dottorato di ricerca. Vorrebbe scrivere un reportage di basket su ogni college di Division I NCAA, e pure un reportage di pesca su ogni porto di Lake Michigan. Mentre pianifica, inganna l’attesa seguendo l'hockey svizzero.

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