Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Barack Obama e il basket
15 feb 2019
15 feb 2019
La lunga storia d’amore di Barack Obama e la pallacanestro.
Dark mode
(ON)

Hawaii, 1971

Un pallone regalato per Natale e una passione che si trasmette di padre in figlio. L’inizio della storia d’amore tra il futuro presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama e il gioco del basket assomiglia a tante altre già viste e sentite. La particolarità del caso consiste tuttavia nel fatto che quella di Obama Sr., brillante intellettuale keniota tornato in patria dopo il fallimento del suo primo matrimonio, sarà la prima e ultima visita che Barack riceverà. Crescendo con la madre, bianca originaria di Wichita, nel Kansas, quel pallone assumerà un valore simbolico, soprattutto perché il bambino che all’epoca ha da poco compiuto dieci anni non rivedrà mai più il padre naturale (Obama Sr. morirà nel 1982 vittima di un cruento incidente stradale).

Non solo: quel pallone in qualche modo spalanca a Barack le porte di un universo tutto nuovo, anche se all’inizio il rapporto con il basket è conflittuale. Giocare gli piace parecchio, tanto da far parte di tutte le rappresentative scolastiche fino al diploma. Il problema è che il basket si trasforma presto nel primo banco di prova per il complicato confronto con la propria identità razziale e con i comportamenti discriminatori altrui. In I sogni di mio padre, lo stesso Obama racconta di come la palla a spicchi abbia rappresentato per lui una prigione e allo stesso tempo una via di fuga dal razzismo.

Una donna bianca, incrociata fortuitamente in un supermercato di Honolulu, gli chiede se per caso giochi a basket. «Ma certo che giochi a basket», è la risposta che la signora elabora in totale autonomia, alludendo in maniera evidente al colore della pelle del ragazzo. Di contro, il campo da basket è forse l’unico luogo dove il colore della pelle conta poco o niente e l’importante è dimostrare di saper giocare. Tra i ferri arrugginiti dei playground dell’isola e sul parquet della palestra della Punahou School, Barack stringe amicizie importanti con ragazzi di ogni etnia, perché «il campo era un luogo in cui l’essere neri non rappresentava uno svantaggio». Col tempo, la passione non lo abbandonerà mai, nemmeno quando l’ingresso nel ristrettissimo club degli uomini più potenti al mondo sarà cosa fatta. Il basket si trasformerà via via in una preziosissima breccia attraverso cui uscire, anche solo per il tempo di una sfida tra amici, dalla bolla artificiale di una vita altrimenti blindata.

North Carolina, 2008

È la primavera del 2008 quando la passione di Barack riaffiora. Dopo dodici anni trascorsi tra il senato dell’Illinois e quello degli Stati Uniti, Obama sta portando a termine una campagna elettorale estenuante. Si tratta delle primarie democratiche, in ballo c’è la candidatura alle presidenziali di novembre e la corsa è tra lui e Hillary Clinton. Contro un pronostico che voleva saldamente in vantaggio l’ex First Lady, più esperta e caldeggiata dall’apparato del partito, Obama sta per compiere quello che in gergo sportivo verrebbe definito un clamoroso upset. Per stemperare un po’ la tensione, ad urne aperte per gli elettori democratici del North Carolina, lui e il suo staff scendono sul parquet dei Tar Heels di UNC per sfidare una selezione dei ragazzi guidati da Roy Williams, con l’allora promettente Tyler Hansbrough in prima fila.

Primi esperimenti di partitella durante le primarie democratiche 2008.

La sgambata porta bene: Obama vince le primarie e il rituale viene ripetuto alla tappa successiva in Iowa, stato in cui il 92% del corpo elettorale è bianco, con il medesimo risultato positivo. Quando poco dopo, in New Hampshire, per motivi meramente logistici non si riesce a giocare, le urne premiano la Clinton. Da lì in poi la partitella diventa una tradizione irrinunciabile, onorata in entrambi gli election day delle presidenziali vinte nel 2008 e nel 2012. (Obama, pur non coinvolto direttamente, indossa pantaloncini e canotta anche nel novembre del 2016, questa volta con scarsi effetti propiziatori).

Una volta entrato nella stanza dei bottoni, Barack non si dimentica certo della palla a spicchi. L’agenda quotidiana si fa sempre più fitta, ma tra impegni istituzionali e viaggi all’estero si trova comunque il modo di infilare qualche ora sotto canestro. Il giardino a sud della Casa Bianca, che durante l’era Bush era stato adattato a capo da tennis, viene riconvertito in playground. A palleggiare e correre con lui sono in primis i più stretti collaboratori come l’assistente Reggie Love (capitano e campione nazionale con Duke nel 2001), l’ex tesoriere dello stato dell’Illinois Alexi Giannoulias e il segretario all’educazione Arne Duncan. Ma l’invito può scattare anche per chi si reca in visita alla residenza presidenziale: può succedere che le Huskies, appena laureatesi campionesse NCAA, vengano colte di sorpresa e di fatto costrette a sfidare il POTUS in tacchi alti e tailleur.

La sfida a sorpresa lanciata alle Huskies campionesse NCAA.

Oppure capita che nell’impeto agonistico sia proprio Obama ad avere la peggio, come quando lo sventurato Rey Decerega, direttore dell’Istituto dei programmi ispanici al Congresso, gli procura una ferita al labbro che richiede dodici punti di sutura e causerà l’ira postuma della moglie Michelle.

Col tempo il presidente matura poi un’affinità elettiva con la NBA e le sue stelle, molte delle quali accettano di sfidarlo alla Casa Bianca. Che si tratti di ex professionisti come Scottie Pippen e Shane Battier o del fresco MVP dei mondiali FIBA 2010 Kevin Durant, fa poca differenza. In questo senso il picco è senza dubbio rappresentato dalla festa per il suo 49° compleanno, ricorrenza festeggiata sul parquet con LeBron James, Chris Paul, Derrick Rose, Carmelo Anthony e molti altri. Ai bordi del campo ci sono anche Kobe Bryant, reduce da un infortunio, Bill Russell e Magic Johnson. Obama mette il tiro che decide l’incontro e si lascia andare a un’esultanza tutt’altro che signorile. Perché a Barack piace giocare, ma forse ancor di più adora vantarsi delle proprie imprese cestistiche.

Scouting for Barry

Prima di accedere al terreno di gioco occorre passare attraverso un metal detector e mentre si palleggia è quasi impossibile non imbattersi nello sguardo severo degli agenti armati fino ai denti, ma per il resto le partitelle in cui è coinvolto Obama non sono poi così diverse da quelle che vanno in scena su qualsiasi campetto di periferia. Ciò nonostante gli invitati non possano evitare le dovute cautele: il tacito accordo tra le parti, infatti, prevede il divieto di elargire trattamenti di favore. Anzi: quando compagni o rivali dimostrano un atteggiamento troppo morbido o indulgente nei suoi confronti, il Presidente va su tutte le furie.

Barack si ritiene un giocatore a tutti gli effetti e riconosce al basket quella sacralità che solo i veri innamorati gli riservano: quando si scende in campo lo si deve fare al massimo delle proprie possibilità, per onorare il Gioco. Le immagini delle sue performance, però, scarseggiano ed è quindi difficile giudicare se l’autostima sia legittima o meno. Non resta quindi che affidarsi ai pareri espressi in via ufficiale o riservata da chi ha affrontato Obama nel corso degli anni.

Definito atleta nella media, dotato di buona apertura di braccia ma di atletismo e mobilità laterale piuttosto limitati, Barack compensa il tutto con pregevole tecnica personale e istintiva comprensione delle situazioni tattiche. Mancino naturale, fatica parecchio quando il marcatore lo costringe a usare l’altra mano, preferendo puntare al ferro piuttosto che chiudere con un tiro dalla media o lunga distanza. La sua meccanica è efficace anche se poco ortodossa, mentre la buona visione del campo gli permette di trovare spesso i compagni liberi con assist millimetrici.

Barack è anche un difensore scaltro, che non esita a far assaggiare i gomiti all’avversario diretto, con l’obiettivo costante di rubare palla e partire in contropiede. Per quanto ami prendersi tiri importanti, quello che tutti gli riconoscono è la propensione al gioco di squadra, dote mutuata con ogni probabilità attraverso l’esercizio della leadership istituzionale. E se giocare al suo fianco può risultare un’esperienza gratificante, a chi è capitato di trovarsi dall’altra parte della contesa è andata decisamente meno bene. Un altro aspetto del lato competitivo di Obama su cui tutti concordano, infatti, è la sua predisposizione al trash talking prima, durante e dopo le partite. Chris Paul, Paul Pierce e Joakim Noah, non proprio un terzetto d’immacolate educande, sono solo alcune delle vittime bullizzate da Obama, forse le uniche ad aver avuto il coraggio di parlarne.

Quanto ai collaboratori più fedeli, quelli delle improvvisate alla Casa Bianca di cui sopra, pare che il trattamento standard consistesse nell’affissione delle istantanee che ritraevano le migliori azioni del Presidente lungo le pareti dei rispettivi uffici e in estenuanti prese in giro che si protraevano per giorni, a volte settimane, dopo una sconfitta inflitta dal comandante in capo. Vantarsi delle proprie imprese genera quasi più godimento a Obama dell’atto stesso di segnare il tiro decisivo e sconfiggere la squadra rivale. Nonostante questo, o forse proprio per questo, tutte le stelle della NBA, da LeBron James in giù, stringono con Barack un legame di autentica amicizia, riconoscendogli implicitamente di essere il primo Presidente a trattarli da pari e l’unico a poter essere considerato davvero uno di loro.

Basketball Nerd

Quando Obama sbarca a Chicago nel 1985, subito dopo la laurea alla Columbia University, in città da poco meno di un anno c’è un altro ragazzo afroamericano che fa parlare di sé. Durante gli oltre vent’anni trascorsi nella Windy City, avrà modo di godersi tutta la parabola di Michael Jordan, a cui più avanti concederà la più alta onorificenza riconosciuta dallo stato americano, diventando inevitabilmente tifoso dei Bulls. Tra gli impegni come avvocato prima e senatore poi, Barack non si fa comunque mancare frequenti visite al Chicago Stadium e quindi allo United Center dove, mentre è testimone oculare dei due leggendari three-peat, rinsalda il rapporto con la sua antica passione.

E se le partitelle rappresentano soprattutto un modo per scaricare l’immane carico di tensione accumulato, il trasporto di Obama per il gioco dimostra la propria genuinità anche in altre circostanze. Ogni occasione si rivela proficua per mettere in mostra una conoscenza dell’argomento tutt’altro che superficiale. La compilazione del bracket NCAA diventa una liturgia regolarmente ripresa da ESPN (soprannominata per l’occasione “Baracketology”), mentre la consueta visita dei campioni NBA alla Casa Bianca gli regala il palcoscenico ideale per sciorinare il suo acume cestistico che, unito a senso dell’ironia e capacità oratoria non comuni, genera siparietti memorabili.

L’accoglienza ai San Antonio Spurs, una delle più sentite da Obama perché «sono vecchietti, proprio come me».

Barack è un vero basketball nerd e lo dimostra anche quando gli capita di essere intercettato a bordo campo, regalando risposte quanto mai distanti da quelle generiche così abituali per i non addetti ai lavori. Oppure quando si siede allo stesso tavolo di Bill Simmons e accetta di essere intervistato senza filtri, solidificando la nomea di primo Presidente nella storia davvero a proprio agio nei meandri della cultura pop.

Una volta smessi i panni presidenziali, la passione non si smorza affatto, anzi: nel 2017 Obama include nella lista dei libri che ogni anno compila e rende pubblica titoli cult come Basketball And Other Stories di Shea Serrano e Coach Wooden & Me di Kareem Abdul-Jabbar. Nella veste di conferenziere, ai margini della sua partecipazione all’annuale Sloan Conference, sente il bisogno di rivelare a Zach Lowe, forse il giornalista NBA più quotato dei giorni nostri, come si ritenga un grande fan della sua rubrica “10 things I like and don’t like”. Svincolato dalle pressioni della carica pubblica, l’ex Presidente sente a maggior ragione di poter dare sfogo al suo amore per il basket. Amore che, a quanto pare, ultimamente si limita per forza di cose alla veste di appassionato e spettatore. L’età e gli acciacchi, infatti, hanno imposto negli ultimi due anni una graduale transizione verso il golf, passatempo meno impegnativo dal punto di vista fisico. Almeno per quanto riguarda l’attività agonistica, quindi, la storia tra Obama e il basket sembra essere giunta la termine.

Nelle sue stesse parole, citando guarda caso Kobe Bryant: Obama out.

L’eredità di Barack

Man mano che il distacco temporale rende più nitido il quadro complessivo, l’opera di storicizzazione dei due mandati di Obama trova terreno sempre più fertile. Lo stesso vale, con le dovute proporzioni, per il rapporto tra l’ex Presidente e il basket. Nel suo libro The audacity of hoop, trasposizione nemmeno troppo originale della prima biografia di Obama The audacity of hope, Alexander Wolff, firma storica di Sports Illustrated, indaga nel profondo della connessione tra il gioco e la costruzione della figura pubblica. La tesi perorata da Wolff consiste in breve nel considerare il basket come pietra angolare dell’esperienza coltivata alla guida del paese, ipotizzando un legame diretto tra lo stile mostrato sul campo e la quotidiana pratica politica. Wolff chiosa sostenendo che lo sport, e il basket in primis, siano stati usati da Obama con luciferina malizia per raccogliere e orientare il consenso verso le decisioni prese dalla sua amministrazione.

Per quanto plausibile, la teoria avanzata appare posticcia, forse figlia di un feticismo che a meno di due anni dall’insediamento del suo successore dice molto del sentimento di precoce nostalgia che pervade buona parte dell’opinione pubblica statunitense. Di certo c’è che, anche per quanto riguarda il basket, l’eredità lasciata dalla presidenza Obama ha riflessi evidenti nel ruolo pubblico e politico che l’NBA e i suoi uomini simbolo recitano ormai a viso aperto. Difficile credere che la lega, nella persona del commissioner Adam Silver o delle sue stelle più popolari come James e Curry sarebbe giunta a questo livello d’influenza e sensibilità sociale senza l’appoggio continuo e concreto della più alta carica dello stato.

Il presidente e Steph al lavoro insieme tra le mura della Casa Bianca per promuovere l’iniziativa “My brother’s keeper”.

E il lascito risulta ancora più evidente se paragonato per contrasto a quanto è ormai diventato consuetudine, dal boicottaggio della visita alla Casa Bianca per i campioni NBA - evenienza impensabile fino all’avvento di Donald Trump - allo scambio non proprio amichevole di tweet tra i campioni più in vista e il Presidente eletto.

Ma l’eredità cestistica di Barack ha anche risvolti molto più privati, che sconfinano abbondantemente nella sfera familiare. L’amore per il basket è infatti tramandato alla figlia Sasha, permettendo al padre d’improvvisarsi allenatore e realizzare il sogno di molti genitori.

Qui in veste di allenatore di Sasha: il basket è parte della famiglia al pari, sembra, della testardaggine.

E in fondo, al di là delle sofisticate analisi sul valore simbolico esercitato dallo sport durante la sua ascesa politica, la vera radice dell’instancabile passione di Obama risiede proprio lì: nel fatto che il basket, praticato o commentato, abbia rappresentato l’unico ambito in cui il primo Presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti, icona destinata a entrare nei testi di storia, si sia sentito libero di essere soltanto se stesso.

Semplicemente Barack, un ragazzo innamorato del gioco.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura