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Bandiera a tutti i costi
24 apr 2015
24 apr 2015
Hamsik ha sempre deciso di non andare via da Napoli, ma è stata una scelta giusta per la sua carriera?
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«Adesso mi sento bene e spero di continuare così. Non è vero che è cambiata la mia posizione in campo, Benitez mi ha chiesto di fare sempre le stesse cose». Queste sono le parole di un capitano che difende il suo allenatore nel momento cruciale di un’intera stagione. Nulla di straordinario, se non fosse che il secondo ha messo in discussione e instillato più di qualche dubbio nella testa del primo, nelle ultime due stagioni. Marek Hamsik è il volto più riconoscibile del Napoli targato De Laurentiis, fin da quando arrivò appena diciannovenne dal Brescia di Corioni. Dal 2007, ogni anno lo slovacco ha avuto richieste dai club più prestigiosi d’Europa ma non ha mai colto l’occasione per andare via. L’ultima estate, quella 2014, è stata l’unica di bonaccia, dopo una stagione travagliata per un lungo stop (una microlesione al metatarso del piede sinistro lo ha tenuto due mesi lontano dal campo) e per una serie di prestazioni sottotono. Fino a fargli ammettere: «Non sono più quello di prima, non mi riesce nulla di quello che una volta riuscivo a fare con semplicità».

Nel dibattito che è cresciuto intorno al capitano del Napoli, viene spesso sbandierato un dato, tra le statistiche quella più visibile e più semplice da registrare: ovvero che le medie realizzative di Hamsik sono in calo. Una discesa costante, iniziata già con Mazzarri e solo proseguita sotto Benitez. Alla fine della stagione 2009/10, Hamsik contava un gol ogni 271 minuti; quest’anno i 6 gol segnati nei 2165 minuti giocati gli valgono una media di 361 minuti. For the records, la sua media con la Nazionale slovacca è anche peggiore: un gol ogni 418 minuti.

Nel leggere questa statistica bisogna però ricordare che, al contrario delle prime stagioni in forza al Napoli, Hamsik non è più il rigorista designato da quando una serie di errori, a cavallo tra le stagioni 2011/12 e 2012/13, fecero precipitare le sue quotazioni dal dischetto.

Gli anni passano e la media dei minuti che intercorrono tra un gol e l’altro di Hamsik si alza.

Quello che non è cambiato col trascorrere degli anni è il modo in cui Hamsik arriva al gol: lo slovacco ha un’intelligenza tattica superiore alla media ed è micidiale quando può partire in progressione e far perdere le proprie tracce al diretto marcatore.

Un esempio è il gol del momentaneo 1-0 nell’ultimo Napoli-Inter: Inler e David Lopez rubano palla a Shaqiri sulla trequarti difensiva, Hamsik in quel momento si trova poco più avanti, ai limiti del cerchio di centrocampo; lo slovacco sente la pressione di Medel, si volta a guardarlo già prima di ricevere il pallone dai compagni, tocca di prima verso Callejon, quindi si gira e supera Medel con tre falcate. A quel punto la progressione dello slovacco si fa sghemba, discontinua sia per direzione che per intensità. Sembra quasi che il capitano del Napoli conti i passi per restare equidistante sia da Medel che da Juan Jesus. In effetti nessuno dei due interisti va a prenderlo, e Hamsik si ritrova libero di incornare di testa ai limiti dell’area di porta avversaria.

Hamsik in gol contro l’Inter al San Paolo.

Guardate anche i gol contro il Cesena o contro l’Hellas; o anche il gol in Nazionale contro la Bielorussia, tutti segnati nella stagione in corso. Le azioni sono simili tra loro, con Hamsik che inizia la transizione difesa-attacco della propria squadra e che poi va a ricercare i buchi nello schieramento avversario lontano da dove gira il pallone, salvo poi ricomparire in area di rigore libero da marcatura. Hamsik è un calciatore moderno perché capisce l’importanza dello spazio: tanto più brilla quanto più può prenderne. Nella partita di andata contro il Wolfsburg, Hamsik galleggiava tra i due mediani prendendo tutto lo spazio che gli veniva concesso per andare ad attaccare la linea difensiva. Passava davanti a Luiz Gustavo e Guilavogui per offrire una sponda ai suoi compagni e un attimo dopo si buttava alle loro spalle.

Quando gli spazi gli vengono negati, e il gioco fluisce più in orizzontale che in verticale, ecco che Hamsik va in sofferenza. Ci tengo a sfatare il luogo comune più utilizzato nei ragionamenti sul caso Hamsik: il peggior alleato del centrocampista azzurro non è Rafa Benitez. Forse invece lo è, inconsapevolmente, Gonzalo Higuain, un centravanti determinante come pochi nel panorama europeo, ma radicalmente diverso da Edinson Cavani. L’uruguaiano era solito correre, nella ricerca della profondità, tra i due centrali difensivi. La sua azione spingeva in basso le difese e creava spazi alle spalle dei centrocampisti, terra di conquista prediletta dello slovacco. Inoltre Cavani offriva comunque un riferimento sul quale appoggiarsi per liberarsi del pallone e poter correre attraverso le maglie della difesa. Higuain invece è un attaccante che ama allargarsi per cercare di sfilarsi alle spalle del terzino o uno dei difensori centrali (come fece con Radu in Lazio-Napoli). In queste occasioni Hamsik è costretto ad affrontare palla al piede la difesa schierata oppure ad agire egli stesso da riferimento. Per far giocare meglio Hamsik, Higuain dovrebbe diventare meno istintivo, addirittura snaturarsi e potrebbe addirittura non bastare.

Le difficoltà nel calcio posizionale

È innegabile che il contesto nel quale Hamsik oggi si accende a corrente alternata è prodotto da un allenatore differente. Il gioco di Mazzarri si fondava su ripiegamenti e ripartenze (la capacità di ribaltare l’azione di Lavezzi, Hamsik e Cavani era seconda al mondo forse solo a quella di Reus, Lewandowski e Błaszczykowski). Quello di Benitez è un sistema che ricerca la supremazia territoriale, ponendo d’assedio la metà campo avversaria con il maggior numero di uomini possibile. L’allenatore spagnolo chiede al trequartista centrale di muoversi orizzontalmente, come un pendolo, da una fascia all’altra, per creare superiorità numerica nel triangolo che ha nel terzino e nell’ala gli altri due vertici. Un lavoro oscuro, l’essenza del calcio posizionale, nel quale un giocatore tecnicamente non ineccepibile, dal moto perpetuo come de Guzman sta brillando.

Tanto è bravo Hamsik a individuare i buchi nello schieramento avversario, quanto lo è l’olandese a leggere i movimenti dei propri compagni e a scegliere per sé la posizione migliore da occupare in campo. De Guzman sembra anche più lucido in fase di non possesso, i suoi ripiegamenti profondi aiutano i due mediani a scalare correttamente le marcature. Oggi Hamsik riceve spesso palla tra i piedi, nelle pieghe del centrocampo avversario e con la difesa che accorcia sulle discese di Higuain. Gli spazi si comprimono e il primo controllo in tali casi è tutto e Hamsik, in questo fondamentale, non è al livello di centrocampisti come Pjanic o Isco, tanto per fare dei paragoni. In fase di non possesso, Hamsik sembra più interessato ad avvantaggiarsi sul marcatore, restando alto per guidare la transizione offensiva. Hamsik è più forte di de Guzman, ma l’olandese in certe partite serve di più a Benitez. Lo stesso allenatore lo precisò dopo l’ultimo Chievo-Napoli: «Jonathan è un giocatore che capisce quello che deve fare. Qualche volta sbaglia delle occasioni, se comincia anche a segnare parliamo di un giocatore da 30 milioni di euro. Permette agli attaccanti di giocare bene ed è diverso da Hamsik».

Nessun miglioramento

Questa osservazione apre ad uno spunto di riflessione: guardando i vecchi filmati sembra quasi che negli anni napoletani lo slovacco non sia migliorato molto. Al di là di un irrobustimento fisico, Hamsik è oggi lo stesso calciatore che era nel 2007, con gli stessi pregi e gli stessi difetti. Il diciannovenne Marek era bravo nella lettura della partita, migliore dei compagni più esperti; aveva una grande capacità di calcio con entrambi i piedi, che gli consentiva di aprire il gioco su entrambi i lati o di calciare verso la porta con forza e precisione; aveva un primo controllo difettoso, al punto che spesso preferiva lasciar sfilare il pallone e iniziare a girarsi, orientando subito la corsa verso la porta avversaria.

Nei periodi peggiori delle ultime due stagioni, Hamsik ha aggiunto una crisi di fiducia: è stato frettoloso nell’ultima rifinitura, che spesso ha finito per sbagliare; non è stato aggressivo nella marcatura e gli è capitato di arrivare in ritardo quando si trattava di affondare il tackle.

Progressione e tiro da fuori di destro e di sinistro: l’essenza di Marek Hamsik.

Volontà di identificazione

Hamsik era già un giocatore forte nel 2007, quando alla fine della prima stagione in Serie A aveva collezionato 9 gol in 37 presenze e aveva attirato l’interesse di Juventus, Manchester United, Chelsea, Real Madrid e Barcellona. Se Hamsik si fosse confrontato con centrocampisti di calibro superiore e con un altro campionato, il livello del suo gioco sarebbe salito ancora?

Lo slovacco non ha mai ceduto alle lusinghe, mostrando dal primo giorno di voler lasciare un segno nella storia del club azzurro. Mentre i compagni di squadra si sistemavano nelle dimore sfarzose sulla collina di Posillipo, la parte più nobile del centro città, Hamsik ha preferito dall’inizio restare vicino ai campi di allenamento, nella parte peggio ridotta della periferia casertana (dove chi scrive ci vive), e lì ha messo su famiglia.

Questa volontà di identificazione lo ha portato in territori minati, dove forse non aveva messo in conto di finire. Hamsik è stato vittima di tre rapine, una delle quali ha coinvolto la sua compagna mentre era in dolce attesa, alla vigilia del match di Champions League contro il Manchester City. Episodi simili hanno riguardato altri elementi della rosa degli azzurri e hanno cominciato a destare degli interrogativi quando la frequenza degli assalti è cresciuta fino a diventare vistosa. Secondo i racconti di un pentito, la serie di rapine è stata organizzata dalla criminalità organizzata e da frange di tifosi per punire quei calciatori che non mostravano sufficiente disponibilità verso i clan.

Hamsik non poteva sapere che quel suo tifoso era il boss superlatitante Domenico Pagano e che la loro foto sarebbe stata ritrovata in un suo covo.

L’impressione che ne ho tratto, riguardando gli appunti della mia ricerca, è che lo slovacco si sia ritrovato in qualcosa di più grande di lui. Mi è tornata in mente la storia di Steven Gerrard, Captain Fantastic, e dei legami pericolosi che gli hanno precluso una carriera diversa, lontano da Liverpool. Lavezzi e Cavani ad un certo punto hanno spinto per il trasferimento, provocando anche rotture irreversibili con l’ambiente, come nel caso dell’uruguaiano. Hamsik no.

L’unica volta nella quale Hamsik è sembrato voler forzare la mano alla sua società è stata nell’estate del 2011: con un’intervista alla Pravda slovacca dichiarò il suo interesse ad un trasferimento al Milan in maniera più che esplicita: «Sarebbe una svolta per la mia carriera. Sono giovane, non ho ancora vinto nulla e direi che adesso è arrivata l’ora di cominciare a farlo». Una dichiarazione così, a calciomercato aperto, finì per scatenare un incredibile polverone mediatico. Quella di Hamsik fu un’uscita intempestiva, perché la trattativa vera tra Napoli e Milan c’era stata giusto un mese prima e si era arenata per le richieste esose di De Laurentiis; finì addirittura per essere sfruttata da Berlusconi che, per provare ad arginare le sue difficoltà nelle Amministrative di quell’anno, proclamò dal palco di Piazza Plebiscito: «Il Milan non comprerà Hamsik». Lasciato solo, lo slovacco fu costretto a rimangiarsi le sue stesse dichiarazioni e forse il calciatore fu mal consigliato da chi prima si fiondò sulla trattativa e poi ne uscì, una volta scemato l’interesse del grande pubblico. Insomma anche quella volta Hamsik fu solo una pedina in un gioco molto più grande di lui.

Le capacità che un calciatore mostra in campo non sono mai la sola e pura somma algebrica delle sue qualità tecniche e atletiche. I compagni, gli allenatori, la dirigenza, l’ambiente: il contesto crea di volta in volta stimoli o condizionamenti. Hamsik sarebbe stato il trequartista ideale per le squadre di Mourinho, con la sua capacità di ribaltare l’azione, migliore ad esempio di Oscar oggi al Chelsea. Oppure avrebbe dato molta più qualità e almeno la stessa intensità al ruolo di interno sinistro nel Manchester United, rispetto a quanto sta facendo Marouane Fellaini nel 4-1-4-1/4-3-3 al quale è approdato negli ultimi turni Louis van Gaal.

Ventisette anni è l’età nella quale un centrocampista, per esperienza e per abilità, si avvicina al vertice della propria parabola. A Wolfsburg Hamsik si è ripreso il Napoli, ma credo che ci vorrà più di questo finale di stagione per capire se lo slovacco ha finalmente metabolizzato il lavoro svolto in questi due anni. Gli effetti della cura Benitez potrebbero vedersi addirittura con un altro allenatore, visto che il tecnico spagnolo è dato per partente. Con lui potrebbero partire anche i campioni arrivati due anni fa (Higuain, Albiol, Callejon) per dare vita ad un ciclo completamente diverso. Marek Hamsik probabilmente resterà, imprigionato nei panni pesanti della bandiera a tutti i costi che lo slovacco ha scelto per sé.

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