Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Come funzionano le proprietà dei club in Spagna
02 feb 2019
02 feb 2019
Franco ci ha chiesto come funziona la proprietà dei club spagnoli. Risponde Daniele V. Morrone.
(articolo)
9 min
Dark mode
(ON)

Posso sapere come funzionano le società spagnole che prevedono la partecipazione di un'azionariato popolare? Come si differenziano queste dalle società tedesche e perché nel nostro paese è una forma di proprietà che non ha mai trovato una sua diffusione?

Grazie,

Franco

Risponde Daniele V. Morrone

Qualche mese fa avevamo affrontato il discorso della regola del 50%+1 in Bundesliga e di quello che significava per le squadre tedesche avere dei tifosi che controllano la maggioranza della squadra (escluse le poche eccezioni come Bayer Leverkusen, Hoffenheim, Wolfsburg, e RB Lipsia).

Se in Bundesliga le squadre possono comunque scegliere di mettersi sul mercato (come nel caso del Borussia Dortmund che è quotato in borsa), con le quote spesso raccolte da imprenditori o aziende locali, nella Liga la situazione è più netta: o una squadra è totalmente in mano ai privati che possono quindi acquistare anche tutte le quote della società o è invece un’associazione no profit in mano ai propri soci, con la regola "un socio un voto" in sede di assemblea.

Per spiegare meglio le differenze è bene creare un minimo di contesto. Sul piano storico la situazione attuale si è definita a partire dall’inizio degli anni ’90. Dalla prima diffusione del calcio in Spagna fino agli anni ’80, le squadre spagnole erano organizzate come associazioni sportive senza scopo di lucro. I problemi economici di molte di esse però portò, all'inizio degli anni ’90, ad una riforma che permettesse una privatizzazione che ripianasse i debiti di tutte le squadre professionistiche.

Il cambiamento arriva attraverso una nuova legge (Ley del Deporte 10/1990) che stabiliva il passaggio alla proprietà di privati grazie ad una nuova forma giuridica ad hoc, denominata SAD (sociedad aútonoma deportiva). Per capirci, senza entrare troppo nel dettaglio giuridico, una forma di società per azioni il cui oggetto sociale è limitato all’essere una società sportiva. Non solo il singolo quindi, ma qualunque entità esterna può comprare il numero di azioni che vuole per diventare proprietario della maggioranza, così da controllare la squadra. A questo va aggiunta una postilla: chi vuole avere più del 25% del controllo di voto può farlo solo previa approvazione del Consejo Nacional de Deportes. Nessun singolo, inoltre, può avere un controllo di voto superiore al 5% di una squadra se già ne possiede uno al 5% in un'altra.

Per non voler sembrare un Bignami di diritto commerciale spagnolo proviamo a riportare il discorso all’attualità. Di recente è diventato famoso l’episodio della Real Murcia che è stata salvata dal debito accumulato che ne minacciava il fallimento, grazie a un ampliamento di capitale. Questo è arrivato grazie ad una vendita delle azioni su internet che ha coinvolto anche tanti tifosi italiani, che ora sono quindi diventati, almeno in parte, proprietari della squadra, con un controllo di voto nell’assemblea in base al numero di azioni acquistate.

Bene, tornando agli anni ’90, la riforma ha preso piede dal 1992 ed è stata prevista però un’eccezione per le squadre che potevano dimostrare di aver chiuso dopo i 5 anni precedenti la stagione ’92/’93 con un bilancio non in rosso. Sono quattro le squadre che quindi possono mantenere lo status di associazione sportiva senza scopo di lucro: Athletic Club, Barcellona, Real Madrid e Osasuna. Non è un caso se le prime tre sono anche le tre grandi storiche della Liga, e quindi quelle che all'epoca avevano una massa sociale in grado di mantenere solida una struttura tanto particolare (l’Osasuna dalla sua aveva avuto degli ottimi amministratori, nonostante la massa sociale piccola e legata solo alla città di Pamplona).

C’è da aggiungere che la stragrande maggioranza delle squadre spagnole delle serie inferiori (dalla quarta divisione in giù) sono a loro volta gestite come associazioni no profit; di solito salendo di categoria fino al professionismo decidono se passare o meno ad essere SAD.

Il vantaggio di essere rimasta un’associazione sportiva senza scopo di lucro non è solo legato alla sicurezza per i tifosi-soci di avere sempre il controllo della società, ma anche la tassazione è inferiore a quella delle società autonome. Un aspetto che negli anni è stato oggetto di contendere anche a livello europeo, perché la tassazione differente sarebbe considerabile concorrenza sleale o addirittura aiuti di stato.Ancora oggi si seguono i requisiti richiesti della squadra, come quello di dover pagare una quota sociale annuale (ad esempio quest’anno per il Barcellona è di 184€) per diventare soci, partecipando al controllo in modo diretto o indiretto agli aspetti organizzativi della squadra. Si può ad esempio votare nell’assemblea per eleggere il presidente nella votazione. Senza entrare troppo nel dettaglio, chiunque è socio può presentarsi come candidato alla presidenza con la sua giunta, che formerà il governo della società per i successivi 4 anni. C’è una vera e propria campagna elettorale, con il candidato che si presenta (anche in tv) con un programma e vere e proprie promesse elettorali - sotto forma di acquisti di giocatori.

L’unica vera discriminante è il fatto che il candidato deve avere comunque alle spalle delle garanzie bancarie che possano coprire in parte gli eventuali prestiti che la squadra prenderebbe per far fronte alle promesse elettorali. Anche questo dipende dalla squadra, nel caso del Real Madrid ad esempio Florentino Pérez si è presentato alle elezioni del 2009 promettendo Cristiano Ronaldo come acquisto in caso di vittoria, con una garanzia bancaria alle spalle di 57 milioni. Facile intuire perché se nell’Athletic Club a vincere le elezioni del 2011 è stato l’ex giocatore Jose Urrutia (quarto ex giocatore della storia a riuscirci) e nel Real Madrid da anni Florentino Pérez (uno degli uomini più ricchi di Spagna) è di fatto il candidato unico.

Questa forma di governo ha garantito comunque l’impossibilità per Florentino Pérez di comprare la società e farne una sua proprietà personale. Anche se può sembrare il contrario, Florentino Pérez quindi è il presidente del Real Madrid perché presiede la giunta che governa la società, ma non possiede la proprietà della squadra ed è soggetto ogni 4 anni a nuove elezioni per rinnovare il mandato. Se Florentino è quindi presidente da 10 anni è perché per tre volte consecutive ha vinto le elezioni.

Il suo operato rimane sempre sotto il controllo dei soci. Ad esempio, come da statuto, un presidente può essere messo contro un voto di sfiducia e nel caso in cui venga sfiduciato si arriva fino alla convocazione di nuove elezioni straordinarie. Ci avevano provato alcuni soci del Barcellona la scorsa stagione nei confronti dell’attuale presidente Bartomeu, invischiato nell’oscuro caso del trasferimento di Neymar, ma non fu raggiunto il numero minimo di firme per rendere ufficiale la mozione.

Il sistema delle quattro spagnole funziona fin tanto che si tratta di squadre con un bacino di tifo considerevole, grazie anche alla storia illustre e impianti di proprietà in grado di avvantaggiarsi della partecipazione dei tifosi. Real Madrid e Barcellona sono le due squadre con gli introiti maggiori al mondo e solo la politica societaria particolare dell’Athletic Club le impedisce di essere dove potrebbe stare per storia e potenziale economico (va ricordato che ha uno stadio nuovo di zecca da più di 50000 posti che riesce a riempire).

Questo è il punto che impedisce all’Osasuna, una squadra radicata in una città di piccole dimensioni come Pamplona, di essere competitiva ad altissimi livelli. Lo stesso punto che fa da barriera alla competitività di chi prova ad essere una società ad azionariato popolare nel calcio italiano.Pur parlando sempre di società sul mercato, in passato alcune squadre italiane hanno fatto anche tentativi ambiziosi, coinvolgendo ancora di più i tifosi nel comprare quote societarie. In questo senso il Parma, l’Ancona e il Mantova sono stati gli esempi più famosi. Si trattava in realtà di cose vicine alle SAD spagnole più che alle associazioni calcistiche no profit, soprattutto perché non esiste l’istituto dell’associazione calcistica no profit con un voto per ogni socio come prevede la legge spagnola.

Nel caso dell’Ancona, ad esempio, era stato istituito un trust che avesse la maggioranza di quote all’interno della società, i tifosi partecipando al trust di fatto governavano la società. Ma anche avendo aperto al maggior numero di tifosi possibile la società, davanti ai costi fissi del calcio italiano e alla sua incapacità strutturale di essere profittevole (stadi non di proprietà e semi vuoti come primo esempio), sono state costrette o a fallire o ad affidarsi ai grandi capitali.

L’esperimento dell’US Ancona è fallito nell’estate del 2017 dopo essere retrocessa in Serie D per l’incapacità di far fronte agli impegni economici. La stessa estate è stata fondata l’US Anconitana dall’imprenditore Stefano Marconi, che ne raccoglie la storia ripartendo dalla promozione.

Alcune squadre delle serie inferiori hanno trovato l'escamotage di trasformare la società in un cooperativa. È il caso della CS Lebowski, dove ogni socio ha un potere di voto limitato alla sua singola tessera. E ce ne sono ancora altri di esempi simili nelle serie inferiori: ad esempio l’Enna ha aperto alla vendita delle quote ai tifosi con 25 € ad azione per un massimo di 2000€ a testa, finendo insomma per fare una cooperativa per azioni in cui il potere di voto è sempre limitato. Come detto, fin tanto che si tratta di serie inferiori la cosa è gestibile, ma salendo di categoria i costi fissi si fanno troppo pesanti per squadre con bacini di tifo risicati e impianti non adeguati. Il calcio delle serie inferiori ha costi che possono essere gestiti anche da una cooperativa di tifosi, dall’affitto del campo alle varie licenze e stipendi dei giocatori, mentre più si sale di categoria e più è difficile stare dietro a situazioni di costi fissi esorbitanti. Più facile avere un imprenditore che raccolga da zero la società e investe adeguandosi ogni volta alle domande della categoria. A quel punto insomma il numero di tifosi è un qualcosa in più, non una necessità.

Forse con un bacino sociale grande, una macchina del marketing già in funzione e un impianto di proprietà in grado di generare introiti si può stare dietro ai costi della Serie A, ma quante squadre hanno questi tre fattori? E soprattutto quanti presidenti sono disposti a lasciare la loro squadra ad una cooperativa di tifosi? È un discorso che in fondo esce dal calcio ed ha a che fare con l'aspetto socio economico e con la visione capitalistica della società. Non penso sia questa la sede giusta per affrontare un discorso del genere. Possiamo comunque limitarci a dire che se questo sistema non riesce a diffondersi in Italia è perché - semplicemente - il calcio italiano non ne crea i presupposti.

P.S. Ultimamente il governo italiano sembra studiare riforme normative per far facilitare l’azionariato popolare, magari per potersi avvicinare al modello tedesco, aprendo all’idea di fare entrare maggiormente i tifosi nel cda della società, agendo anche con incentivi fiscali. Non si è mai parlato apertamente di un cambio a favore di regole come la 50%+1, però è almeno il segno di come stia crescendo l’attenzione verso altri sistemi di governo delle società. Sistemi più radicati nel territorio rispetto a quella del singolo imprenditore che. per amore o per gloria, si prende in carico una squadra di calcio utilizzando i tifosi come spettatori delle sorti di una squadra.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura