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Avere trent'anni
26 ago 2015
26 ago 2015
Le scelte di fine carriera di Zamora, Barnetta e Jansen per provare a capire il momento più delicato della vita di un professionista.
(articolo)
13 min
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Robert Lester Zamora

Quant'è romantico, sensato, rassicurante un cerchio che si chiude? Per il tramonto della sua carriera da professionista, Bobby Zamora ha scelto di indossare ancora i colori sereni del Brighton & Hove Albion, quindici anni dopo la prima volta. Tornare dove hanno creduto davvero in lui.

Zamora è nato il 16 gennaio 1981, e questo non è il suo primo ritorno. Lasciò il West Ham appena finite le giovanili e ricomparve cinque anni dopo. In quel caso si trattava della squadra di cui è sempre stato tifoso, e quando gli chiedono perché risponde con un imperativo: «Support your local team». Tra gli altri, nel suo periodo alla Academy degli Hammers, c'era Paul Konchesky, terzino che ha poi avuto una solida carriera da professionista. Entrambi avevano cominciato al Senrab FC, la compagine giovanile nell'East End dove avevano come compagni gente tipo Ledley King e John Terry. Quest'ultimo, Konchesky e Zamora sono coetanei, e tutti e tre sono di Barking—sobborgo a est di Londra, circa settantamila abitanti, dov'è nato anche Bobby Moore.

Attaccante elegante nei movimenti e nel fisico longilineo, bomber infallibile a Brighton, il salto dalle serie inferiori lo ha reso più utile nell'ultimo passaggio e meno finalizzatore. Questo non significa che sia un centravanti da serie inferiori. Altrimenti non avrebbe giocato 252 gare in Premier League, né avrebbe trovato sempre posto, con allenatori diversi in squadre diverse.

Nonostante l'altezza, la sua corsa è fluida. I suoi tiri sembrano spensierati: piega la gamba e la lascia andare come se fosse leggerissima. Alcune esultanze appassionate, a volte rabbiose, sorprendono così per il contrasto.

Di sicuro in Championship può ancora fare la differenza. Ritrova il manager Chris Hughton, che aveva incrociato nell'amara stagione agli Spurs. Ritrova un ambiente che conosce e che lo accoglie con tutti gli onori, una cittadina vivace ma anche riposante dopo dodici anni consecutivi a Londra. La società ha sottolineato come nell'ultima stagione abbia collezionato trenta presenze in Premier (1.778 minuti): non va a fare un cameo, insomma, non è un'operazione pubblicitaria.

In squadra trova ragazzi nati quando lui si allenava con John Terry, qualche discreto attaccante con cui contendersi il posto, e a centrocampo Beram Kayal, che al figlio ha dato “Pirlo” come primo nome (sì, Pirlo Kayal).

Tutti i gol segnati da Zamora con la maglia dei Gabbiani.

A Brighton, la prima volta ci arrivò in prestito per tre mesi, sufficienti per convincere la società ad acquistarlo a titolo definitivo. Era l'estate 2000 e stavano per iniziare le stagioni gloriose della doppia promozione dalla League Two alla Championship (per usare i nomi attuali).

In quei tre anni Zamora fu due volte capocannoniere, eroe indiscusso dei Seagulls. Le sue prestazioni gli valsero la chiamata dell'Under-21 di David Platt, che disse: «Il mio errore è stato non averlo notato prima».

La storia di Bobby in Nazionale è stata avventurosa e sfortunata. Nel 2005 rifiutò la convocazione da parte di Trinidad & Tobago, il Paese di suo padre. Nel 2009 cambiò idea e prese il passaporto trinidadiano, ma un infortunio gli impedì di rispondere alla chiamata per le qualificazioni ai Mondiali. Il CT inglese Capello finì per convocarlo nel 2010, ma soltanto dopo i Mondiali in Sudafrica: un tempo contro l'Ungheria, al quale si aggiunse una gara contro la Svezia l'anno seguente. Un’amichevole e mezza con la maglia dei three lions, è tutto.

Con i Gabbiani di Brighton segnò 83 reti in 136 partite, tanti gol quanti non ne avrebbe fatti più. La stagione al Tottenham fu desolante, il ritorno agli Hammers un chiaroscuro, durante i quattro anni al Fulham e il triennio al QPR si stabilizzò su un numero di reti lontano dai fasti di Brighton. «Gli alti e i bassi del calcio ti rendono una persona migliore» disse nel 2009.

Di sicuro la sua strada è disseminata di gol pesanti. Nel 2004/05 quelli in semifinale (qui e qui) e soprattutto quello in finale dei play-off con cui il West Ham torna nella massima serie. Poi lo storico gol della prima sconfitta subìta dall'Arsenal all'Emirates Stadium, nell'aprile 2007. E un'altra rete decisiva per la promozione, stavolta del QPR, nel 2013/14, proprio a fine partita.

Uomo dei momenti indimenticabili, anche per questo è amatissimo dai suoi tifosi. Gli sono state dedicate varie, elaborate canzoni. La più celebre è questa che fa da sottofondo a un collage di suoi storici gol con la maglia degli Hammers. Dice, tra l'altro: «When the ball hits the goal / it's not Shearer or Cole / it's Zamora». Un altro esempio è qui, opera dei tifosi del QPR.

I momenti indimenticabili, i gol pesanti, l'adrenalina. A mancare probabilmente è stato l'equilibrio, in questi dodici anni. Troppi alti e troppi bassi, per riprendere il suo ragionamento. Un'incostanza che gli ha impedito di affermarsi pienamente ad alti livelli. Interessante quanto diceva di lui, già nel 2003, un esperto compagno a fine carriera, Dave Beasant: «È di quelli che non sono davvero innamorati del calcio. Ha una grande abilità naturale, ma deve assicurarsi che la concentrazione e gli input siano al 100%». Forse è questa la chiave. Forse con la scelta di questo trasferimento va incontro agli stimoli, quelli che si trovano nella spietatezza dei play-off e nel ritorno in luoghi importanti. Forse è questo che Zamora è andato a cercare là dove volano i gabbiani.

Tranquillo Barnetta

A trent'anni Tranquillo detto “Quillo” scivola in una pensione anticipata. Undici estati dopo gli esami da apprendista commerciale presso un'azienda tessile (reparto biancheria da letto), l'alternativa nel caso gli fosse andata male con il calcio, undici anni dopo quel diploma conseguito subito dopo la panchina a Euro 2004, oggi indirizza il suo percorso in un campionato dove i giocatori europei di livello vanno generalmente a chiudere la carriera. E non a trent'anni.

Era un grande prospetto, accostato a squadre come Arsenal, Valencia, Juventus. Il bilancio dice che non ha mai vinto niente, sia a livello di club che di Nazionale. E soprattutto, sul piano individuale, non ha mai fatto il salto di qualità. Possibile? Lui che veniva descritto come un ambizioso dal Performance Coach della Nazionale elvetica, lui che ancora nel 2009 Jupp Heynckes diceva avere un potenziale inespresso, lui che viene dalla “città dai mille gradini”? Possibile.

A San Gallo ci è nato, da una famiglia di origini italiane (a emigrare in Svizzera fu il bisnonno), e ci ha giocato fino al trasferimento in Germania nel 2004. La famiglia, la Svizzera: ancora al quarto anno di Bundesliga, Barnetta si lamentava per il mancato ambientamento e non spostava dalla sua camera a San Gallo la maglia di Zidane ricevuta dopo una gara fra le Nazionali.

Nella selezione elvetica ha sempre avuto un posto d'onore. Settantacinque presenze, la vittoria di un campionato europeo Under-17, la partecipazione a tre Mondiali. Un gol e un assist contro il Togo, nel girone del Mondiale 2006, che permettono alla Svizzera di superare il girone.

Aveva senso, insomma, ipotizzare un ritorno a casa, alla squadra della sua città, quello che «l'intera regione aspetta da anni», come ha spiegato l'allenatore del club. Accettare il biennale che gli ha offerto la società, circa 320mila euro l'anno. Aveva senso, ma le cose non sono andate così.

Da ragazzino a San Gallo.

Ha sempre dato l'impressione di essere sul punto di farlo, quel salto. Forse non è un caso se Mourinho aveva il suo nome in testa, nel 2008, quando storpiò il cognome dell'allenatore Mario Beretta. Per anni si sono rincorse lusinghiere voci di mercato intorno a Quillo. Ancora poche settimane fa, dopo il mancato rinnovo con lo Schalke, si parlava di Tottenham e Liverpool. Prima che le voci si spostassero su Watford e Leicester City.

Alla fine ha firmato con i Philadelphia Union. Una società fondata nel 2008, che fa tutti i richiami alla Rivoluzione americana (dai colori sociali al serpente nello stemma) e gioca in uno stadio da 18.500 posti.

Veloce, molto tecnico, capace di fare l'esterno offensivo, di impostare in mezzo al campo o rifinire da trequartista centrale, ha una struttura forse troppo leggera per il centrocampo moderno, o almeno per certi campionati.

La sua storia è legata al Bayer Leverkusen, che lo strappò al Bayern Monaco: otto anni, il primo dei quali in prestito ad Hannover. Nel 2012 passa allo Schalke, dove gioca due stagioni e viene girato per un anno all'Eintracht Francoforte. È comunque una storia diversa da quella di un altro che ha iniziato con le “Aspirine”, e che è nato come lui il 22 maggio: Arturo Vidal. Perché, per la carriera di Barnetta, il palcoscenico di Leverkusen resterà il più ampio e illuminato.

Quella con il Leverkusen è una storia segnata, in apertura e chiusura, da gravi infortuni: la rottura del crociato appena arrivato e lo strappo muscolare prima di andarsene, che gli hanno impedito di farsi valere nel primo e nell'ultimo anno in rossonero.

Perché andarsene in MLS? L'esperienza allo Schalke era conclusa, non gli avevano rinnovato il contratto. Lui stesso in primavera manifestava perplessità sulla permanenza in Bundesliga: «Voglio vedere qualcosa di diverso». L'accostamento a diversi club europei non si è tramutato in accordo, nonostante l'agevolazione dello status di svincolato. Un'ipotesi concreta in effetti c'era, per ammissione degli interessati: il romantico ritorno a casa, la maglia del San Gallo.

Allora perché scegliere una squadra dove ci sono frotte di ventenni americani e dove fino a pochi giorni fa c'era anche un vecchio giramondo come Raïs M'Bolhi (portiere della Nazionale algerina, uno che a ventidue anni giocava in Giappone e che poi ha difeso principalmente le porte di CSKA Sofia e Kryl'ja Sovetov)?

D'istinto si direbbe per soldi, anche perché i termini del contratto non sono stati resi noti e possono alimentare qualsiasi fantasia. Ma viene da pensare che ci sia anche dell'altro, cioè la simbolizzazione degli Stati Uniti e la voglia di sentirsi grande davvero: non nel senso del big in Japan (questo avrebbe potuto farlo a San Gallo) ma di chi è stato un fuoriclasse e può stare in campo anche solo per farsi applaudire, come fanno Gerrard e Lampard e gli altri. Come fa il fuoriclasse che Barnetta non è riuscito a diventare.

In MLS ha debuttato il 2 agosto. Su internet sono sorprendentemente pochi i video che lo riguardano, soprattutto recenti; la società di Philadelphia, invece, ha subito pubblicato la conferenza stampa integrale della sua presentazione.

Dal suo arrivo ha giocato cinque partite, due vittorie, due pareggi e una sconfitta, a spezzoni e senza incidere particolarmente. Al momento la sua squadra è penultima nella classifica del gruppo Est.

Marcell Jansen

Dove in molti insistono anche quando non ne hanno più, dove non si accetta il declino, dove si rincorrono contratti in qualunque posto del mondo, c'è qualcuno che si ritira a ventinove anni.

Marcell Jansen è stato il terzino sinistro della Nazionale tedesca, 46 presenze e due partecipazioni mondiali. È stato titolare nella Germania vicecampione d'Europa nel 2008 e terza classificata in Sudafrica nel 2010. Da terzino, ma anche da centrocampista, ha disputato 335 gare tra i professionisti.

Dieci anni dopo il suo esordio, la scelta del ritiro fa un rumore clamoroso. Avrebbe potuto giocare almeno tre, quattro stagioni ancora. Avrebbe potuto firmare un altro paio di contratti di buon livello. E se una parte della scelta va attribuita all'Amburgo, che non se l'è sentita di proporgli il rinnovo (come pure con Rafael van der Vaart), non si può non vedere la consapevolezza di sé e l'autonomia di pensiero che Marcell Jansen ha dimostrato.

Un video celebrativo del periodo di Euro 2008. Ci sono un salvataggio miracoloso, un gol sporco, Jansen su un quad, e cani e cavalli.

Non ha mantenuto tutte le promesse, per una serie di ragioni. Gli infortuni, intanto. Poi alcuni limiti tecnici, un'altezza (191 cm) e una struttura fisica difficilmente conciliabili con la sua posizione in campo, compensati solo in parte dalla grande attenzione difensiva.

E sulla sua carriera ha anche pesato qualcosa di crudelmente raro: la compresenza, nello stesso ruolo e nello stesso Paese, di uno fra i più grandi terzini moderni: Philipp Lahm. Nel 2007/08 la compresenza si ebbe anche nella squadra di club, il Bayern Monaco: sotto la guida di Hitzfeld, a seconda delle partite Lahm faceva il titolare a destra o si alternava con Jansen a sinistra. L'anno seguente il nuovo tecnico Klinsmann riportò Lahm stabilmente a sinistra e Jansen andò all'Amburgo.

È uno che si tatua le iniziali dei genitori sull'avambraccio e uno scorpione. “Scorpion” è anche il suo soprannome e quando esulta fa un gesto con le mani a rappresentare lo scorpione, che banalmente è il suo segno zodiacale.

La sua carriera è legata a due club. Il Borussia Mönchengladbach, la squadra della città in cui è nato il 4 novembre 1985, dove si è formato ed è esploso (1993-2007). E l'Amburgo, dove evidentemente ha trovato il suo posto (2008-2015). Nel mezzo c'è la parentesi al Bayern Monaco, cruciale sul piano psicologico.

Al M'Gladbach, promosso in prima squadra nel gennaio 2005, esordisce per sostituire il titolare, un certo Christian Ziege: la brutale sconfitta, 6-0 in casa dell'Herta, non gli impedisce di tenere il posto. Finirà per essere il titolare in quello scampolo di stagione e nelle due seguenti.

Nell'estate 2007 Jansen è ormai nel giro della Nazionale maggiore (ha anche giocato novanta minuti ai Mondiali in Germania), il Mönchengladbach è retrocesso, e lui viene acquistato dal Bayern per 14 milioni. Deve ancora compiere ventidue anni.

A Monaco vince la Bundesliga, la Coppa di Germania e la Supercoppa nazionale. Viene impiegato soprattutto in Coppa UEFA, ma trova spazio anche in campionato, per un totale di 33 presenze stagionali (2.791 minuti). Eppure non viene confermato.

Il passaggio all'HSV nell'estate del 2008, così, deve aver rappresentato qualcosa di importante. Per la prima volta Jansen non avanza, non cresce a livello professionale, anzi viene mollato dai campioni di Germania. Verosimilmente la perentorietà di una bocciatura dopo un solo anno deve aver colpito duro, e Jansen deve aver pensato di mettere radici nel nuovo club, che veniva comunque da un quarto posto e aveva sborsato otto milioni per lui. Con Amburgo in effetti, spiegherà annunciando il ritiro, si è creato un fortissimo legame emotivo. Il bilancio è di sette anni, quasi duecento gare e la fascia di capitano.

All'Amburgo.

Le ultime due stagioni del club sono state disastrose: due spareggi per non retrocedere, partite durissime. La più antica società tedesca, l'unica a non esser mai stata retrocessa da quando esiste la Bundesliga, si è trovata a un passo dalla caduta.

Nel 2013/14 contro il Greuther Fürth (0-0 in casa all'andata e 1-1 al ritorno) Jansen giocò il doppio confronto. Nel relegation playoff contro il Karlsruher, invece, era fuori per infortunio. Ad Amburgo finì 1-1, ma il ritorno è una di quelle partite che restano nella storia del club: reti inviolate fino al 78', poi il gol dei padroni di casa che condanna l'HSV, e poi un pareggio su punizione a tempo scaduto, i supplementari, il gol dell'Amburgo, e un rigore sbagliato dai padroni di casa all'ultima azione (il tutto, qui).

Gli infortuni hanno un peso in questa storia. Nell'ultima stagione Jansen ne ha subiti diversi e di varia natura. Ma i quattro allenatori che si sono avvicendati si fidavano della sua condizione, evidentemente, se ha messo insieme 1.176 minuti in sedici convocazioni. E poi di infortuni ne aveva sempre avuti—e sempre relativamente brevi, di svariati tipi e in svariate parti del corpo. Comunque è probabilmente un motivo centrale nella decisione societaria di non rinnovargli il contratto. Ma la situazione non era certo tanto grave da renderlo poco appetibile sul mercato.

E lo ha detto Jansen stesso: le offerte ci sono state. Il punto è che non voleva indossare un'altra maglia, non aveva le motivazioni per dare il cento per cento altrove: «Non posso baciare un altro stemma».

A qualcuno la sua scelta non è piaciuta. Per esempio Rudi Völler lo ha attaccato duramente: «Chi fa una cosa del genere non ha mai amato il calcio». Lui che si è ritirato a trentasei anni, e oggi è sportdirektor del Leverkusen, ci vede uno schiaffo a chi non riesce a diventare professionista. Jansen ha risposto che è il business del calcio, quello che non ha mai amato.

Qui lo scambio in tv con “Zia Käthe”, anche solo per vedere la faccia di Jansen a 0:27.

Al momento di appendere gli scarpini ha dichiarato: «Il calcio torna a essere il mio hobby». Intanto sarà commentatore per Sky, e ha spiegato di aver accettato non perché gli interessi fare l'esperto quanto per «mostrare il lato umano della Bundesliga».

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