Del sole in cielo non c’è più traccia. Fra poco sarà così buio che non ci si vedranno le mani, eppure gli uomini con i decespugliatori e le idropulitrici continuano a fare su e giù per la strada. Domani finalmente sfilerà la carovana del Giro d’Italia, sul chilometro di provinciale che passa davanti a casa mia i lavori vanno avanti da un mese.
Un nuovo asfalto, nero come carbone, è stato steso al posto di quello sbiadito; centinaia di fiori sono stati piantati nelle aiuole al centro delle rotonde; l’immondizia che sostava da settimane ai lati della carreggiata è stata portata via. «Passasse tutti i giorni il Giro d’Italia!», la schiettezza dei vecchi che non frenano più la lingua intercetta il pensiero di tutti quelli in fila dal panettiere. Ogni giorno, tornando da lavoro, ho notato nei dintorni qualcosa di nuovo. Per ultimi sono comparsi i cartelli con le indicazioni per i ciclisti. Domani non ci sarà il tempo di fare niente, finalmente passerà il Giro.
La mattina dopo fuori dalla finestra c’è un’aria immobile. Lo strato di foschia che è salito poco prima dell’alba ostacola ancora la vista. Ma poi capisco che quello degli occhi è solo un inganno, in realtà sono le orecchie a non funzionare. Dalla provinciale non giunge un rumore, qui che il rollio degli pneumatici sull’asfalto è naturale come le onde che s’infrangono sulla sabbia quando sei al mare. Dev’essere scattato il blocco del traffico, l’isolamento durerà almeno fino al pomeriggio. Penso a un altro isolamento forzato, quello del lockdown di marzo 2020, la prima volta in cui mi sono mancate le auto e i loro borbottii. Si deve stare in casa e quindi si ha l’occasione per mettere mano a ciò che per mesi si è tralasciato di fare. Max, il mio cucciolo di staffordshire, allinea con la bocca i suoi giochini sulla soglia del garage, all’interno sposto scatoloni da sinistra a destra senza costrutto. Max si ferma ad annusare l’aria, poi mi rivolge con gli occhi una domanda. Che sia una giornata diversa anche per lui?
Foto di Michael Steele/Getty Images
È la seconda volta che aspetto il Giro. La prima, la corsa rosa si prese la briga di passare a nemmeno cento metri da dove andavo a scuola. Come fai a fare lezione? Si va a vedere i ciclisti anche se di ciclismo non ne sai niente. A dire il vero seguivo molto più allora che oggi, la passione mi arrivava per osmosi da due dei miei compagni di scuola, G. e P.. Non c’era un pomeriggio in cui non ci fosse una corsa da guardare, l’Amstel Gold Race o una tappa della Tirreno-Adriatico da sbirciare in TV, con i libri già aperti davanti, non una che fosse meno importante, quel pomeriggio poteva girare tutta una stagione.
Sulla strada, oltre a noi tre, c’erano in tutto una decina di liceali, mentre erano centinaia i bambini delle elementari, con i loro gagliardetti e le loro bandierine rosa che sotto sotto invidiavamo. Noi al massimo potevamo sventolare qualche foglio di giornale, comprato in società all’edicola lì accanto, la stessa dove ci rifornivamo delle riviste specializzate. Eravamo anche capaci di inventarne di nuove a volte, quand’eravamo annoiati: «Superbiciclette avete detto? Non ce l’ho, ve la faccio trovare domani».
Il fruscio delle pagine della Gazzetta era la colonna sonora dell’attesa del Giro, insieme al rumore di un’auto o di una moto, sporadici apripista che davano speranze presto vanificate: «Vuoi vedere che stanno arrivando?». Volevano tranquillizzare, le auto e le moto, che sì, quel giorno il Giro ci sarebbe stato davvero, ma bisognava pazientare. Nel frattempo, nei venti, venticinque minuti tra un’auto e l’altra, pagine di giornale passate di mano, sventolio di gagliardetti, riassunti delle vittorie stagionali di questo o quel campione, tramestio di piedi di bambini già stanchi. Nella mia testa c’era, e ne è rimasta ancora una debole traccia, un pastrocchio di cifre che indoravano quelle attese: quanti battiti fa il cuore di Miguel Indurain quando riposa, quanta potenza sviluppa Gianni Bugno quando parte in progressione, qual è il rapporto con cui Claudio Chiappucci scalerà la prossima cima?
Bugno e Chiappucci avevano una rivalità di carta negli anni Novanta, alimentata dai giornali che scimmiottavano rivalità ben più grandi solo per vendere qualche copia in più. G., che in sella ci andava, aveva una bicicletta da corsa che riprendeva nelle forme le mitiche Bianchi degli anni in bianco e nero, la bici di Fausto Coppi a cui G. un po’ assomigliava, e inorgogliva il nonno, che l’acquisto della bici lo aveva finanziato. G. correva in una squadra ma si fermò a un passo dagli Under 23, che erano l’anticamera del professionismo: «Mi dissero che se volevo andare avanti dovevo essere disposto a rischiare tutto, anche la salute, ma io non ho voluto,» mi dirà qualche anno dopo, con la voce fiera di chi non si è piegato al ricatto. Mentre lo diceva gli occhi tristi sembravano contraddirlo.
G. teneva per Chiappucci, mentre P. teneva per Bugno. P. si sarebbe convinto di assomigliare anche lui al suo campione, se solo l’altro non avesse avuto occhi così chiari, se non fosse stato così schivo di carattere, così profondamente lombardo. P. ha vissuto gli ultimi anni della carriera di Bugno con la stessa nostalgia che aveva avuto per Diego Armando Maradona. Ogni secondo delle sue ultime gare era importante, in ogni momento poteva esserci il bagliore della vecchia scintilla, che gli avrebbe fatto capire che il campione era ancora lì in sella.
Dopo quasi tre ore, all’improvviso, in fondo allo stradone spuntarono non più una moto, ma dieci, e macchine decappottabili, tante, con uomini in piedi sui sedili coi megafoni alla bocca, e dopo di questi i ciclisti, finalmente!, veloci, accidenti troppo veloci, dovevamo metterci più in cima, con le casacche variopinte come macchie di colore rapprese sulla retina, i «ciaooooo» dei bambini portati via dal vento, i raggi delle ruote che sputavano fuori un rumore cieco. Durò tutto una manciata di attimi, tre ore di attesa barattate per quei pochi secondi, rimase il puzzo dei gas di scarico delle ammiraglie cariche di bici al seguito mentre noi ci scambiavamo le nostre impressioni, i bambini andavano via, le pagine di giornale volavano, si andava a casa a vedere il resto della tappa.
Quando esco sulla provinciale non mi aspetto di vedere tanta gente, anche perché la giornata è fresca, nonostante il sole di maggio. I balconi sono pieni, anche quelli che assediati dall’afa di solito restano chiusi persino in piena estate. Alzando il naso incrocio lo sguardo di uno dei miei vicini affacciato al suo di balcone, mi tornano in mente Eduardo e i suoi fantasmi: «A tutto rinunzierei tranne a questa tazzina di caffè presa tranquillamente fuori al balcone». Il vicino è l’uomo più triste che incrocerò oggi, la sua routine post-prandiale è stata rovinata da tutto il clamore che c’è intorno. A un centinaio di metri da me c’è una famiglia, la più piccola, avrà avuto due anni, dalle spalle del suo papà ha gridato: «Italia! Italia!», quando ha visto passare la prima auto dell’organizzazione. La mia attesa stavolta non sarà lunga, prima di uscire ho sbirciato sul sito del Giro, lì ho trovato la tabella di marcia, precisa al minuto, di ogni passaggio di strada in strada dalla partenza al traguardo.
P. l’ho visto l’ultima volta qualche anno fa, poco dopo la morte di suo padre. Mi ha raccontato di sua moglie e della sua bimba. Nessuno di noi due aveva più notizie di G..
Foto di Tim de Waele/Getty Images
Quando arrivano i ciclisti è tutto uguale a come lo ricordavo, lo stesso frullo di catene e corone, come le ali di uno sciame di vespe che suonano un’unica nota. C’è anche la stessa tavolozza di colori che si impastano in un vortice. Prima i fuggitivi, poi il resto del gruppo, il passaggio del Giro non dura che pochi secondi. Restano nell’aria i battimani degli uomini e i «braviiii» delle mamme. I ciclisti, compatti come uno stormo d’uccelli in una migrazione, imprigionati tra le moto e le ammiraglie, scivolano via sull’asfalto nuovo.
M’incammino verso casa e in un vialetto laterale vedo due bambini in bici che si tirano la volata, un terzo che aveva optato per il monopattino elettrico lo lasciano indietro.
Lo spettacolo del Giro è sempre uguale, concede repliche da centocinque anni e non si può pretendere che cambi. Anzi, è meglio che non cambi affatto, che almeno il Giro dia l’illusione che il tempo possa passare senza distruggere tutto sul suo cammino. Qualcosa pure resta, fosse solo l’emozione di vedere sfrecciare via cento ragazzi in bicicletta. In fondo non siamo noi che usciamo a vedere il Giro, ma è il contrario, è il Giro che torna a trovarci come un vecchio amico. Per non essere scortesi tocca andargli incontro, portandoci dietro gli amori che intanto sono nati, le amicizie che sono finite, i lutti che ci portiamo addosso, i figli che sono cresciuti.
Ora che tutto è finito si va a casa, a vedere il resto della tappa.