Anche l’ascensore è cortese in questo posto, con una vocina registrata che dopo tot secondi decide che è il caso di scusarsi per l’attesa della chiusura delle porte. Tutto scorre liscio dentro la O2 Arena, il palazzetto londinese polifunzionale che dal 2009 è la sede delle finali ATP di tennis. O meglio le Barclays ATP World Tour Finals, il lungo nome con cui in questi anni viene chiamato il torneo di fine anno tra i primi otto giocatori del mondo. La sala stampa è spaziosa, due schermi enormi mandano uno la diretta del match in corso, l’altro le statistiche in tempo reale. Foto gigantesche dei tennisti qualificati decorano le pareti, riproduzioni ritoccate all’eccesso che li fanno sembrare delle imbronciate statue di cera, metà pugili metà supereroi. All’arrivo l’ufficio stampa fornisce ai giornalisti una pila di fascicoli patinati con tutte le informazioni sul torneo, compreso l’elenco dei numeri di posto assegnati a ogni testata, stampato in quadricromia come se fosse un costoso programma di sala per il pubblico.
Mi dirigo al quarto piano dove si trova la mia poltroncina: posti al buio come a teatro, l’unica luce proviene dal rettangolo del campo, dove stanno giocando Federer e Gasquet. Tutto intorno cavi, travi d’acciaio, schermi giganti: quando un giocatore fa un ace compare la scritta enorme sui tabelloni sopra il campo, e altre scritte corrono sui display che ricoprono in lunghezza gli intervalli tra i vari settori. Il tutto accompagnato da un rumore simile a un rombo, o al passaggio di un meteorite. Il rombo accompagna anche l’annuncio di una palla break, con l’unica differenza che l’ace è “powered by Mercedes”, la palla break più decorosamente non ha sponsor. A un certo punto c’è una sequenza ace-palla break-ace: tre punti, tre rombi. Mi chiedo quanto possa infastidire i giocatori questa rumoristica da showtime così insolita nel tennis, dove i momenti chiave (palla break, match point), non vengono mai nominati o mostrati con il loro nome, anche il punteggio più drammatico di un match di norma viene annunciato come un banale 30-40, è una forma di pudore e di rispetto del vecchio adagio che nel tennis non si vince finché non si è fatto l’ultimo punto, ed è solo il pubblico a caricare l’atmosfera con la propria partecipazione.
Mi siedo per seguire l’incontro e mi ci vuole un po’ per abituarmi a osservare il gioco: a picco sul campo e con vista di lato, la sensazione ricorda quella del guardare con un solo occhio, la prospettiva schiacciata e una certa difficoltà a comprendere le traiettorie dei colpi se non quando toccano terra. In più la scena da osservare appare troppo larga, se faccio ping pong da un giocatore all’altro quasi non riesco a rendermi conto della dinamica degli scambi, allora opto per una visione diffusa imperniata sul centro del campo, una specie di meditazione dove quasi perdo di vista le sagome dei giocatori ma riesco a comprendere meglio le evoluzioni della pallina. Nei primi scambi Federer è quello di sempre, ogni colpo crea qualcosa di bello e sembra mediamente dominare l’avversario. La cornice dell’arena futuribile carica l’evento di un senso d’esibizione, come se il Maestro e Gasquet non fossero immersi in una competizione ma collaborassero all’esecuzione di una performance. Poi Federer comincia a steccare e a sbagliare nei momenti più strani, e allora mi ricordo che stanno giocando per vincere e che sotto le luci blu della ribalta Federer è sempre quello di questi mesi, un sovrano indignato per l’incuria in cui versa la sua reggia.
Ai cambi campo si fa buio e rimangono solo due spot sui giocatori seduti, più uno puntato su una scatola bianca dall’altra parte della rete con su scritto FedEx, mentre passano a tutto volume hit locali più o meno del momento, a volte sprofondando nel passato fino a Big Time di Peter Gabriel. Neanche nel clima casareccio degli Internazionali d’Italia passano la musica ai cambi campo, o meglio lo fanno solo a fine set, come ad allentare la tensione e festeggiare il risultato; qui c’è pure la playlist del riscaldamento giocatori, sempre le stesse due-tre canzoni il cui clou è Waiting all Night dei Rudimental. Quando sono venuto da spettatore nel 2010 il warm up lo facevano con Intro degli XX, che devo dire suonava un po’ meglio. Durante la settimana del torneo nelle prime file si sono intravisti due o tre attori della tv inglese e un sacco di giocatori dell’Arsenal, chissà perché quasi nessuno di altre squadre. Ma il parterre VIP si è un po’ impoverito: negli anni passati si sono visti Maradona, Cristiano Ronaldo, Kevin Spacey e Ian McKellen. L’anno scorso è venuto anche Totti. Forse la novità del torneo sta sfumando, è dal 2009 che si tiene alla O2, e fanno fatica a attirare superstar continuamente. Non tutti possono avere il red carpet del Roland Garros, che da un giorno all’altro passa da Jay-Z a Kanye West e poi a Leo DiCaprio.
Le finali ATP saranno a Londra almeno fino al 2016, poi non si sa se resteranno o cambieranno casa. Il torneo è sempre stato itinerante, instabile nella sede come nel nome: 15 città per 44 edizioni, che nel tempo si sono chiamate Masters Grand Prix, ATP Tour World Championship, Tennis Masters Cup e infine l’attuale denominazione di World Tour Finals, che si è ritrovata lo scomodo acronimo WTF. Non è un caso che l’hashtag ufficiale del torneo si sia tenuto alla larga dalle sigle, optando per un macchinoso #Finalshowdown. Londra però sta piacendo molto, e da più parti si sta cercando di stabilizzare il torneo per farlo crescere attorno a una sede che permetta di unire il fascino da showbiz con il consolidamento della tradizione. La pecca del torneo storicamente è sempre stata, oltre alla bizzarra struttura a gironi che permette di perdere ma di restare in gara, quella di non essersi radicato in un luogo, guidato da esigenze di diffusione e promozione del tennis in giro per il mondo (e al traino di sponsor). L’unico periodo che viene ricordato per il fascino di un genius loci è stato quello al Madison Square Garden di New York, non a caso anche il più lungo in uno stesso posto, dal 1977 al 1989. Il sogno sarebbe di fare della 02 il Garden europeo, mentre c’è chi spinge per far ripartire il carrozzone così da colonizzare nuovi territori e magari fare tappa a Istanbul, Pechino o Rio de Janeiro.
È un torneo dai ricordi spezzati, sparsi tra le varie sedi che ne cambiano il sapore, ma che ha lasciato ai posteri alcuni momenti epici: uno dei più incredibili è la finale del 1988 tra Boris Becker e Ivan Lendl, la penultima al Garden di New York. Sullo strano campo da singolare privo di corridoi (all’epoca il Masters di doppio si giocava in un’altra sede, anche questa itinerante) rivestito del velocissimo carpet gommoso ormai bandito dalle superfici ufficiali, "Bum Bum" e "Ivan il Terribile" giocarono un match point in favore del tedesco sul 6-5 del tiebreak del quinto set, arrivati a quattro ore e quaranta minuti di partita: dopo uno scambio di 37 colpi un rovescio di Becker colpisce il nastro e muore subito dopo la rete, forse l’unica volta in cui la metafora facilona sul tennis e il caso in Match Point di Woody Allen sia stata confermata dalla realtà. Becker alza le braccia, cammina verso la rete e un tifoso lo avvolge in una bandiera tedesca, dopo la partita dirà: «Alla fine stavo giocando e basta, neanche sapevo più il punteggio». Nel 1996 sempre Becker, ormai quasi a fine carriera, gioca un’altra finale a Hannover, contro Pete Sampras. La partita comincia con Becker che serve quattro ace consecutivi e finisce 6-4 al quinto per Sampras, con in mezzo tre set finiti al tiebreak e scambi in cui è stato usato ogni centimetro del campo e tutto il repertorio del tennis d’attacco. Alla fine della partita Sampras getta la racchetta e si abbraccia con Becker, quei momenti eroici che adoravo da ragazzino in cui la partita si spinge così oltre che non viene più ricordata come la vittoria di uno solo, ma come il match giocato da tutti e due. Però la formula del Masters porta anche dei vizi occulti che ritornano spesso, come gli incastri di classifica dei gironi oppure giocatori che arrivano sgonfi all’evento, essendo a fine stagione. Andy Murray nel 2009 non ha avuto accesso alle semifinali perché nei suoi match aveva vinto meno game (non partite, non set) di Federer, quindi a parità di vittorie è passato lo svizzero; Lendl nel 1981 ha perso apposta da Connors, così da arrivare secondo nel girone e risparmiarsi una semifinale contro Borg. Jim Courier nel 1993 si è messo a leggere un romanzo durante i cambi campo del suo match contro Andrei Medvedev, incontro che ha perso 7-6 al terzo dopo aver sprecato quattro match point. Il libro era Maybe the Moon, di Armistead Maupin.
Le procedure negli anni sono state accorciate, il doppio ha perso la dignità di un torneo separato e si è ridotto a antipasto degli incontri di singolare, con la nuova formula con il super tiebreak a dieci punti invece del terzo set per non far sforare le partite, ed è sparita la finale al meglio dei cinque set. Si punta su un’atmosfera un po’ da Virtua Tennis, dove come in un videogame si raccolgono i più forti e si offrono al pubblico tutte le combinazioni degli scontri diretti, manca solo la schermata con l’action figure che ruota su se stessa mentre decidiamo cosa fargli indossare e poi lanciare il primo quadro dalla console. Dispiace poi parlarne male, visto anche che l’accoglienza della stampa è tra le più curate che ci siano, condita da bar e ristorante in eleganti sale con luce soffusa e pasti e bevande omaggio da mattina e sera. Ma il problema è che almeno quest’anno si è avuta la sensazione che sia accaduto poco, e che fossimo tutti lì ad assistere a un’esibizione. Persino Federer ha fatto dell’ironia a proposito, parlando del cammino verso la finale e dicendo in sala stampa che «il biglietto per andare avanti non è mai gratis, tranne che per voi». In finale ci sono arrivati Nadal e Djoković, i più forti di tutta la stagione e che mai sono stati impensieriti sulla strada verso il loro blockbuster match, che non si è rivelato tale: finito in due set in favore del serbo, meno di novanta minuti, pochi schemi e molto fiato. Non per togliere qualcosa al loro tennis così dominante, ma non si può dare torto a Federer quando subito dopo la sua sconfitta in semifinale contro Nadal ha commentato: «È incredibile che lui riesca a giocare da così dietro su un campo indoor, ma queste sono le condizioni che abbiamo oggi. Quindi complimenti a lui per esserci riuscito». Non è difficile intuire il disappunto di Federer per tutti i suoi colpi saettanti che le superfici collose di oggi ingabbiano in rimbalzi recuperabili, mettendogli davanti un avversario che sul sintetico lo affronta come se fossero sulla terra battuta, ma così funziona adesso. Poco importa che oggi Sampras e Becker non avrebbero potuto giocare la loro finale del ’96, che vista adesso sembra più veloce degli scambi fatti dai super atleti che dominano la classifica mondiale di quest’anno. Oggi bisogna fare poco e molto bene, poi ci pensano le luci e i suoni a far sentire speciali gli spettatori accorsi, che qui a Londra non mancano mai. Nel tennis all’aperto campo e spalti sono una stessa cosa, un agglomerato di tifo e fatica; nell’indoor invece si ricrea la situazione di palco e platea: sarà per questo che il pubblico è comunque apparso molto sensibile allo spettacolo offerto, e che ha continuato ad applaudire Federer come nessun altro. Persino l’anno scorso, quando era in semifinale contro Murray, tifavano di più per lui. E non può essere perché i londinesi sono acidi e Murray scozzese, si tratta pur sempre di un tennista che pochi mesi prima di quella partita gli aveva fatto vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi e si era fatto mille foto avvolto nell’Union Jack. Eppure, tutti lì a cantare “Ro-ger, Ro-ger”. Federer quest’anno ha avuto il suo solo momento di gloria quando ha vinto in tre set contro Del Potro e si è qualificato per le semifinali: un collega mi ha raccontato che i commessi del negozio del merchandising parlavano di come quella fosse stata la serata in cui avevano venduto meglio. Vince Roger e allora mi compro una tazza dell’ATP, un cappellino; vince l’idea e la creatività e allora io compro il brand. Vince Djoković, vince soltanto la pura volontà di potenza, e allora è già tanto che mi sono comprato il biglietto. Interessante.
Il senso di luccichio superficiale, di gloria estrogenata aumenta nel fare due calcoli. Questo torneo si può vincere anche solo con quattro vittorie (su cinque incontri da disputare) e dà 1500 punti a chi lo ottiene con cinque successi, una sorta di punteggio pieno. Il prize money prevede per il campione circa 1.900.000 dollari, quasi quanto uno Slam, che di punti ne dà 2000 e in cui bisogna combattere per due settimane per alzare la coppa. Almeno la finale al meglio dei cinque la dovrebbero reintrodurre, giusto per fargli sudare un po’ di più la lauta ricompensa. Dopo la finale, dopo il trofeo alzato tra i fuochi d’artificio e i coriandoli cominciano i discorsi di rito, i "prima di tutto vorrei ringraziare..." tra direttore del torneo, sponsor, raccattapalle e il pubblico, sempre lodato come tra i migliori che ci siano. Il discorso di Djoković tradisce una preparazione anticipata che fa quasi tenerezza, visto anche l’uso dell’espressione «Thank you for nurturing the tennis world», fin troppo ricercata. Poi gli presentano una bottiglia gigante di Moët & Chandon, lui la tiene in mano un attimo sorridendo stanco, neanche la stappa. Portano via il trofeo che Nole sta ancora facendo interviste sul campo, ormai rimasto solo: non c’è tempo da perdere, tra meno di quarantotto ore qua dentro devono suonare i Vampire Weekend.