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Geoff Dyer
Gli atleti dopo la fine
06 giu 2023
06 giu 2023
Un estratto dal nuovo libro di Geoff Dyer, "Gli ultimi giorni di Roger Federer".
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Geoff Dyer
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IMAGO / Colorsport
(foto) IMAGO / Colorsport
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Pubblichiamo un estratto da "Gli ultimi giorni di Roger Federer" di Geoff Dyer, edito dal Saggiatore. Tra l'11 e il 19 giugno sarà possibile incontrare l'autore in Italia. Trovate le informazioni sulle quattro date disponibili qui. Ben Okri una volta scherzò sul fatto che trovarsi a una festa con altri scrittori è come stare in una stanza piena di pugili che non si sono mai affrontati. E aveva ragione. Gli scrittori sono notoriamente competitivi, ma mentre uno scrittore sta scrivendo – condizione diversa dall’aspettare di vedere come sarà accolto da critici e lettori il prodotto di quella scrittura – l’istinto competitivo tende a essere sublimato, o ignorato. Uno scrittore potrebbe cercare di superare qualcuno che ha già affrontato un argomento simile, ma queste versioni o remix verbali tendono ad assumere la forma di omaggio o tributo, anziché di attacco. È improbabile che uno scrittore sia utilmente motivato dalla famosa determinazione di Alex Ferguson «a far cadere il Liverpool dal suo cazzo di trespolo». Per un motivo semplice: cercare di rimanere sul proprio trespolo è talmente difficile che non avanza concentrazione o energia per preoccuparsi del trespolo altrui. Non si tratta nemmeno di competere con se stessi. Si cerca solo di andare avanti, di non mollare. L’avversario è un miscuglio subdolo e trasformista di pigrizia, stanchezza, esaurimento, depressione eccetera. Potete dire «no más» quanto vi pare. Poi, dopo averlo detto, dopo aver sputato il paradenti ed esservi fatti togliere i guanti, potete rimettere il paradenti, infilarvi di nuovo i guanti e ricominciare per tutto il tempo che vi va. E nessuno se ne accorgerà. Il bello di questo tipo di ritorno è che avviene in modo invisibile, prima delle dimissioni e della pensione. Infatti può accadere più volte nel corso di una normale e produttiva settimana lavorativa. Con il ritorno dentro trama e ordito del tessuto stesso dello sport, non sorprende che il ritorno dopo il ritiro sia talmente comune che appendere i guantoni, o la racchetta o le scarpe, possa sembrare una preparazione a usarli di nuovo. «Solo una persona con la genuina arroganza di un Rimbaud o di un Cantona poteva dichiarare di ritirarsi e farlo davvero» scrive Don Paterson. «Basta un ritorno sul palcoscenico per dimostrare di essere solamente una scimmia ammaestrata». Nel film Borg vs McEnroe del 2017, John McEnroe (interpretato da Shia LaBeouf) sospetta che Borg dorma in una stanza d’albergo con il condizionatore impostato sulla frigidità artica non perché è un iceberg, ma perché in realtà è un vulcano in procinto di eruttare. Il vulcano ha optato per la propria estinzione quando si è ritirato alla precoce età di ventisei anni, voltando le spalle a tutto ciò che aveva dato un senso alla sua vita, o che ne aveva tenuto a bada la mancanza di senso. Le sconfitte per mano di McEnroe nelle finali di Wimbledon e degli U.S. Open del 1981 furono cruciali nell’accelerare la sua uscita di scena, così come la perdita della posizione di numero uno del mondo (sempre a favore di McEnroe) alla fine dell’anno. In una rischiosa esplosione di matematica a somma zero e di calcolo nichilista, Borg spiegò a McEnroe che o eri il numero uno al mondo o non eri nessuno. (Tim Henman optò per un’aritmetica inglese molto più semplice facendo notare che una delle persone che avevano criticato le sue prestazioni quando era costantemente il numero quattro del mondo, non era nemmeno il numero quattro della banca o di qualsiasi altra istituzione in cui era impiegato). Borg non ce la faceva a sopportare lo stress, la pressione, e lo sfiniva il continuo via vai di giornalisti, fotografi e ragazze adoranti. Soprattutto non si divertiva più a giocare a tennis, ma non aveva ancora afferrato fino in fondo la questione – l’aveva a malapena sfiorata – di cosa fare invece di giocare, di cosa avrebbe potuto fare in seguito. Tra le sue imprese c’è stata la partecipazione nel ruolo di giudice in una gara di magliette bagnate che, con qualche modifica al calendario, avrebbe potuto sicuramente svolgersi tra un incontro di tennis e l’altro quando era ancora nel Tour. Se la maglietta bagnata è una metafora della dissolutezza – il che è ragionevole, visto che ha avuto un figlio con una delle concorrenti –, allora il ritiro ha avuto i suoi vantaggi, in quanto ora aveva più tempo per concedersela (cioè, poteva passare un po’ meno tempo a respingere le donne e più tempo a invitarle ad accomodarsi). Ma per quanto a uno piaccia andare a letto con nuove partner o fare baldoria o assumere droghe (all’epoca tutte cose compatibilissime con il tennis d’élite), non è qualcosa che dia un senso alla vita, nemmeno a ventisei anni. Io l’avevo capito, per gentile concessione di Borg, poco dopo aver finito il liceo. Adoravo guardare Wimbledon in televisione. Era l’unica cosa che volevo fare, specialmente nelle irritanti giornate in cui pioveva e non c’era niente da guardare. Nei pomeriggi sereni non riuscivo a guardare Wimbledon quanto avrei voluto, perché c’erano sempre delle nuvole che mi sovrastavano sotto forma di compiti o ripassi. Poi, nel 1977, nel periodo tra gli esami di maturità e l’ingresso a Oxford, non avevo più impedimenti, potevo ingozzarmi di Wimbledon e, di conseguenza, guardarlo non era più così divertente. Gli obblighi e le restrizioni imposti dalle esigenze scolastiche avevano accresciuto il piacere di seguirlo. Per Borg potremmo invertire la situazione. Gli obblighi metonimici di Wimbledon e degli altri tornei accrescevano il piacere di tutte le cose che poteva fare fuori dal campo, pur riducendo il tempo e la libertà di perseguirle. Dopo il ritiro ci furono feste, fallimenti di imprese, bancarotte, relazioni fallite, battaglie per la custodia dei figli (in seguito al concorso delle magliette bagnate) nonché vari altri inconvenienti (di natura non tennistica) e impedimenti. Rimanevano due cose: il ritorno (con una racchetta di legno) e un presunto tentativo di suicidio. Se c’è stato, non ha funzionato. E nemmeno il ritorno. Così di fatto Borg è tornato al punto di partenza, cioè a quando ha smesso di giocare: chiedersi cosa fare dopo. (A differenza di me, l’unica cosa che di sicuro non voleva fare era guardare il tennis in tv). Benché non facesse quasi niente, ciò richiedeva comunque un certo grado di attività, e quindi ci si dedicava. Persino esistere richiede un minimo di sforzo. Ironicamente, meno cose si fanno e più tempo e fatica si impiegano per esistere. Da un certo punto in poi, esistere ti occupa ogni momento di veglia e dopo, quando non si è nemmeno in grado di svegliarsi, occupa anche il resto della giornata. Nel corso degli anni, benché senza apparente piacere, Borg è stato occasionalmente avvistato mentre percorreva il viale dei ricordi in televisione con il suo vecchio rivale John McEnroe. Quest’ultimo, oltre a tutto il resto – musica, arte, commenti sul tennis e opinionismo –, ha coltivato un’intensa vita di reminiscenze sulla sua vita precedente. A volte sembrava che la redditizia attività della reminiscenza non fosse un lavoro a tempo pieno bensì una vita a tempo pieno, dato che McEnroe riproponeva i momenti chiave e raccontava e riraccontava le vecchie storie nella sua autobiografia, Serious, in numerosi documentari, nel corso delle sue telecronache e delle partecipazioni da opinionista per la tv (saltando spesso tra la BBC e un canale americano nella stessa giornata), e, soprattutto, per offrire il proprio tributo nel tour dei senior, durante il quale, si sospetta, era obbligato per contratto a fare almeno una pseudo-scenata, indipendentemente dal fatto che ci fossero o no motivi di contestazione (il che, è logico, poteva diventare un motivo di lamentela, dato che ci dovevano essere giorni in cui si sentiva in perfetta sintonia con giudici di linea e avversari). Questa vita si è messa al passo con lui nella puntata successiva della sua autobiografia, But Seriously – un libro che anche i recensori più disponibili hanno avuto difficoltà a prendere sul serio –, che si concentra sugli anni trascorsi a ricordare il periodo coperto dal volume precedente. Qualcosa di simile è accaduto ai membri superstiti dei Doors. Introducendo un aneddoto sul Re Lucertola per l’ennesimo documentario, uno di loro avrebbe detto una frase del tipo: «Ricordo un pomeriggio del 1969. Stavo parlando con Jim quando...». In realtà avrebbe dovuto dire: «Ricordo un giorno del 1985. Stavo ricordando Jim con Ray quando...». Questo inasprimento dell’eterno ritorno, il ciclo di feedback mediatico per cui il racconto (e la rievocazione) si ripiega sull’esperienza originale, è un perfezionamento che Nietzsche non poteva prevedere. O forse sì. In uno degli aforismi più gioiosi di Umano, troppo umano si chiede: «Come potrebbe, in un libro per spiriti liberi, non essere nominato Laurence Sterne, egli, che Goethe ha onorato come lo spirito più libero del suo secolo! Qui si accontenti dell’onore di essere detto lo scrittore più libero di tutti i tempi». Nietzsche, come suggerito in precedenza, avrebbe potuto rivedere questa opinione, se avesse avuto la possibilità di leggere Eve Babitz; in Umano, troppo umano, non potendo accontentarsi di una semplice menzione di Sterne, dedica un’altra pagina e mezza a esaltare le virtù di Tristram Shandy, un libro che «è come uno spettacolo nello spettacolo, un pubblico di teatro davanti a un altro pubblico di teatro». Durante i cambi di campo le telecamere di Wimbledon a volte si spostano sulle persone che guardano dal Royal Box, un gruppo di notabili che di solito include ex campioni. Non so se sia un privilegio dei vincitori potersi presentare all’All England Lawn Tennis and Croquet Club ogni volta che gli gira, ma sembra che Pete Sampras questa voglia non l’abbia mai avuta. L’unica volta che ci è andato aveva l’aria di chi sta rispettando un ingaggio con spese pagate che richiede obbligo di presenza. L’occasione era la finale del 2009 contro Andy Roddick, dove Roger aveva la possibilità di superare il suo record di quattordici titoli dello Slam. Quando puntualmente ciò avvenne, le telecamere lanciarono un’occhiata furtiva a Sampras, che sembrava non curarsene, purché qualsiasi altro impegno non ritardasse il suo ritorno in California. Sampras sembra essere un campione indifferente alla vita dopo il tennis. Borg, nella sua maniera incolta, era erede di un malessere scandinavo non specifico: un insieme di Amleto, Kierkegaard, Ibsen e Strindberg, malessere tenuto a bada, quando giocava, da una fascia intorno alla testa (o, più plausibile, causato dalla fascia?). Nella sua carriera di giocatore e nel suo ritiro Sampras è stato un prodotto – e la meravigliosa reclame – di una mancanza di cervello tutta californiana. Non voglio dire che sia stupido – non ho idea del suo QI–, dico che il cervello, a parte nella funzione di recettore e realizzatore della strategia di gioco, era un elemento irrilevante. Se Sterne è stato lo spirito più libero di tutti i tempi, Sampras è stato uno degli spiriti più competitivi – si è trascinato alla vittoria nei quarti di finale degli US Open del 1996 disidratato al punto da vomitare a fondo campo – ed è uno degli spiriti più realizzati dell’ambiente sportivo. Ha giocato molto a tennis, e a un certo punto ha smesso. È stato il giocatore di maggior successo di tutti i tempi, e poi è stato il secondo. Era arrivato Federer. Quindi Rafa lo ha superato. Quando anche Djokovic lo ha superato, lui è stato relegato al quarto posto nella lista dei grandi di tutti i tempi. E? Quindi? Si tratta di domande inappropriate. Parte della storia di Wimbledon quanto l’erba del Centre Court, Sampras sembra condividere con essa una eguale incapacità di indagine epistemologica. Gli manca l’arguzia di McEnroe, che, in Serious, ha detto di aver «scelto una mediocrità di livello mondiale» per gli ultimi cinque o sei anni della sua carriera. Eppure lo stesso McEnroe non ha la propensione all’autoesame – che non sia una forma interiore di autopromozione – di un atleta i cui risultati sono stati di portata paragonabile. «Ho capito che tutta la mia vita è solo uno spreco del cazzo» annunciò Mike Tyson all’età di quarantaquattro anni. Con la capacità, forgiata nel ghetto, di collocarsi in un contesto più ampio dell’arena delle sue feroci vittorie, aveva «questa straordinaria capacità di guardarmi allo specchio e dire: “Sei un maiale. Sei un fottuto pezzo di merda”». Norman Mailer ha scritto che quando i grandi pugili diventano campioni possono «iniziare ad avere una vita interiore come Hemingway o Dostoevskij, Tolstoj o Faulkner». Dopo che la sua vita di combattente finì, questo campione iniziò ad avere una vita interiore come Larkin nei suoi ultimi anni: «Che vita assurda e vuota!»; «Improvvisamente mi vedo come un fenomeno da baraccone e un fallimento, vedo che il mio modo di vivere è una farsa». La valutazione brutale che Tyson dà della sua carne troppo sordida è palesemente in assoluto contrasto con le lezioni fondamentali della psicologia del successo sportivo. Rimanere nel momento presente. Il colpo facile del set point che, contravvenendo a molteplici leggi della fisica e della biomeccanica, sei riuscito non si sa come a mandare in rete? Lasciatelo alle spalle. Non pensare mai al di là della partita in corso, del punto che si sta giocando. Gioca la palla, non il punto. E, di conseguenza, non iniziare a preoccuparti dello scopo di quel punto, perché da lì a pensare allo scopo dell’esistenza, a perdere la partita e la bussola e a decidere che, in definitiva, il tennis, come la vita, è solo una stupida gara di magliette bagnate sotto la pioggia battente, il passo è breve.

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