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(di)
Fabrizio Gabrielli
Asprilla oggetto misterioso
04 mag 2016
04 mag 2016
Di calciatori come Faustino Asprilla non ce ne saranno più.
(di)
Fabrizio Gabrielli
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I tempi di edificazione del mito, nel calcio, a volte somigliano a quelli di una cattedrale rinascimentale, ma non sempre. Le lunghe sedimentazioni possono venir soppiantate da una colata di cemento a presa rapida, inattesa, quasi clandestina. La cementificazione di Faustino Asprilla nel cuore dei tifosi del Newcastle, la squadra dopo il Parma, nella quale ha militato più a lungo e nel cui immaginario collettivo la sua figura è più radicata, è avvenuta, nell’arco di 90 minuti, il 17 Settembre del 1997: forse il suo capolavoro

. E non è detto che in 

di Duchamp ci sia meno clamore estetico che ne

di Botticelli.

 

Quella sera i Magpies, nel loro debutto assoluto in Champions League, ospitano il Barcellona. L’anno precedente hanno perso la Premier sul filo di lana, dopo aver condotto la testa della classifica per metà campionato (fino cioè, casualmente, all’arrivo di Asprilla nella contea di Tyne and Wear).

 

I bianconeri non hanno grandi speranze. Come se non fosse abbastanza, Asprilla si presenta alla convocazione in ritardo. Kenny Dalglish dovrebbe escluderlo dal gruppo, come vuole il regolamento di squadra. Ma non può permettersi di tenere fuori uno dei suoi uomini più rappresentativi. Decide di mandarlo in panchina, ma poco prima dell’inizio del match ci ripensa e lo schiera tra i titolari.

 

Tino

nei primi cinquanta minuti: la prima su rigore, le altre due, identiche, di testa.

 

https://www.youtube.com/watch?v=Ek160q8PwPE

A voler essere sinceri del tutto, Tino aveva apposto la prima marca da bollo sul passaporto della sua venerazione già all’esordio: arrivato la mattina stessa da Parma aveva pranzato coi compagni, certo di non andare in campo, bevendo anche - come ha raccontato - qualche bicchiere di vino. Un’ora più tardi si sarebbe trovato a sorpresa in panchina, e poi ancor più sbalorditivamente sul rettangolo di gioco, dove il primo pallone che tocca lo fa per inscenare un caño all’avversario. AH: si giocava un derby contro il Middlesbrough.


 

Calciatori come Asprilla, semplicemente, non ce ne saranno mai più. E non vuol essere una frase gonfia di nostalgia, ma proprio una constatazione: giocatori calcisticamente così ingenui, che hanno come obiettivo il compiacimento di se stessi e del pubblico, oggi è impossibile concepirne.

 

Nel suo momento di massima

, Asprilla era una specie di Garrincha moderno. Edmondo Fabbri lo aveva definito un

, gli altri lo chiamavano, meno pretenziosamente,

: aveva braccia e gambe più lunghe del normale, in confronto al suo fisico, e un approccio al gioco per certi versi

. Sembrava che quello che succedesse attorno a lui, al di fuori di lui, e del pallone, gli interessasse il giusto. Per questo, quando allungava la falcata e toccava il pallone, finiva sempre per risultare imprevedibile. Non dettava i ritmi: li assecondava, come un buon ballerino di cumbia fa con la sua donna quando il fuoco del falò, alimentato da una zaffata di vento, sfrigola con più veemenza. Faustino Asprilla era, e per molti aspetti continua a essere anche a distanza di quasi dieci anni da quando ha smesso di giocare, un calciatore eminentemente DaDa.

 

Il DaDa incarna il rifiuto di ogni standard artistico: un’opera DaDa mette in discussione il concetto di opera stessa, il suo essere oggetto rappresentativo, portatore di un’estetica. Il DaDa schifa la ragione e la logica, mentre copula con la stravaganza, l’umorismo spinto ai livelli dello scherno, con la sessualità.

 

Se Tristan Tzara fosse nato negli anni ’70, forse avrebbe scritto «Dio e il mio spazzolino sono DaDa. Anche Faustino Asprilla potrebbe esserlo, se non lo è già».

 

Faustino Asprilla è stato un atto sacrilego, e i suoi movimenti in campo, le sue giocate, qualcosa di primitivo, simile ai primi suoni labiodentali che emette un bambino, così banali eppure così eccezionali.

 

Asprilla era come [inserire una similitudine assurda: suonerà in ogni caso plausibile].

 

 



 

C’è stata un’epoca, a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, che in Colombia viene chiamata El Dorado e corrisponde al periodo di massimo splendore del calcio locale: quello

era il campionato sudamericano in cui tutti i campioni volevano giocare. Asprilla arriva in Italia quarant’anni più tardi, quando la Serie A, più o meno, è nella stessa fase di incontrastata supremazia.

 

Viene da un’infanzia abbastanza deragliata dai binari della prevedibilità: non era propriamente povero, non più di altri ragazzini coi quali giocava nel barrio Popular o Alvernia a Tuluá. Il padre Diego era capoofficina nella sala caldaie dello zuccherificio San Carlos, non avevano molto ma non gli mancava niente. Nel giardino di casa sua c’era addirittura una casa costruita su un albero di guyava.

 

https://www.youtube.com/watch?v=PF_c-pRVMBY

L’Asprilla «acerbo» è già un compendio di gioco basato su velocità e cambi di passo all’ultimo secondo. Sembra quella frase di Ezra Pound, quella che dice «c’è tempo in un minuto per decisioni e ripensamenti che un altro minuto capovolgerà».


 

L’Occidente lo osserva brillare nel torneo Preolimpico in Paraguay, ne cattura con lo sguardo le vertigini nel campionato colombiano. Alla fine il Nacional lo vende al Parma per quattro milioni di dollari, una cifra assurda per il calcio di quel paese. A Faustino spetterebbe l’otto per cento del valore del suo cartellino. Sergio Naranjo, presidente del Nacional, non glieli versa. Quando anni più tardi, candidato sindaco a Medellín, lo chiamerà per chiedergli di appoggiare la sua campagna, Asprilla gli risponderà «Don Sergio, si ricorda i soldi che mi doveva quando mi ha venduto al Parma? Prenda quello di cui ha bisogno da lì. Arrivederci.».

 



«Giocare con Rincón e Valderrama è stato un dono di dio, ma la squadra più forte di cui abbia fatto parte è quella del Preolimpico di Paraguay 92».


 

Parma non è Madrid: vincere titoli di squadra e personali non sembra essere un obiettivo realistico, ma per Faustino è un’occasione irrinunciabile per mettersi in mostra. Non immagina il livello di compenetrazione che riuscirà a raggiungere, forse anche suo malgrado, con quella città incastonata ai piedi delle Prealpi.

 

«Nel ’93 ero già il migliore al mondo», ricorda oggi Asprilla, con il livello d’umiltà massimo che tollera il suo personaggio, cioè molto prossimo allo zero, «ma era difficile consacrarmi perché giocavo pur sempre nel Parma, in una città di 300mila abitanti con uno stadio da 25mila. Chi vince il Pallone d’Oro gioca nel Milan, nel Real, nel Barça».

 

Per giocare in quel tipo di squadra, però, a un giocatore viene chiesto qualcosa di più di un elevato rendimento agonistico, di folate ad effetto. Si esige un comportamento consono, una riconducibilità a leggi scritte e non scritte che circoscrivono il campo etico ed estetico del

Qualcosa che Tino - in un articolo del NYT, nel ’94, scrivono «He’s like a child» - non avrebbe potuto, chissà forse saputo, essere.

 

«Molti pensano che la mia vita sia stata solo bere e donne, ma se guardate bene ho giocato 17 anni al massimo livello, e ho vinto nove coppe internazionali», si confessa - sfoga? - oggi.

 

Nel pieno fulgore degli anni ’90 Faustino era la personificazione, dall’andatura sghemba e la personalità strabordante, dell’

Tutti lo cercavano: amici, curiosi, politici, modelle, star e impresari. E lui non negava a nessuno un incontro. Partecipava a riunioni, si faceva vedere alle feste, lanciava prodotti.

 

«Quando uno è considerato tra i quattro migliori giocatori al mondo, ci sono momenti in cui al giornalista non interessa più sapere come giochi, quanto segni: vuole sapere come vivi, con chi esci».

 

Nevio Scala, il suo allenatore, un uomo che pare tutto tranne che uno dai nervi poco saldi, di lui diceva «Tino può vincere una partita da solo, oppure esasperarti semplicemente ignorando le tue istruzioni. Se solo sapessi come tenerlo sotto controllo…».

 

Perché in effetti Asprilla

, questa predisposizione allo scardinamento tecnico degli equilibri del gioco. Soltanto, come Tzara per l’arte, non credeva che il calcio fosse «una cosa seria».

 

https://www.youtube.com/watch?v=GTjsBd0kPiY&feature=youtu.be&t=93

Questo gol contro il Napoli, il suo preferito di tutti quelli messi a segno a Parma, è anche il mio prediletto: è capace di far sembrare gli avversari bolle di sapone. Li schiva, senza farli esplodere, eppure puoi continuare a vederlo per tutta la durata della giocata, in controluce.


 

L’unico aspetto che sembrava importargli, del calcio, era quello che riguardava il successo. E di conseguenza i soldi. C’è una sua frase che a leggerla oggi non sembra esista niente capace di spiegarti meglio Faustino e i suoi eccessi, una frase che non scagiona né giustifica, ma riconduce tutto all’interno della circonferenza perfetta della ragionevolezza: «l’indisciplina, senza soldi, non esiste».

 

Bisogna tenere conto del fatto che Asprilla, a Parma, era un ragazzo di 23 anni che si trovava a giocare al soldo di una società che era l’emissione più

di un impero dalla capacità di spesa incalcolabile, ambiziosa, capace di avvolgere i suoi dipendenti in una bambagia preziosa quanto lattiginosa come la Parmalat.

 

«A Brolin avevano regalato una Lotus, a Osio una Porsche, a Benarrivo una BMW Z1, a Melli un Mercedes S1600. Quando andavo agli allenamenti mi sembrava di essere arrivato al parco macchine del palazzo Monaco di Pablo Escobar».

 

L’Italia è una specie di Silicon Valley del calcio anni ’90. Un contesto libertario il giusto, per Faustino, per esprimersi senza badare troppo alle costrizioni sociali, ai vincoli imposti, per interpretare la sua professione nella maniera più DaDa. Per divertirsi,

senza prendersi troppo sul serio. Come si dice in Colombia, per



 


«L’altro giorno dei ladri mi hanno svuotato la finca, si sono portati via le coppe, tutto. Ora, le coppe è impossibile tornare a vincerle perché non gioco più, ma l’impianto della discoteca che mi importa, vado me lo ricompro e fine. Provo a ridere di tutto quello che mi capita, bisogna viversela così, con allegria, altrimenti sarebbe una vita noiosa, sempre ad arrabbiarsi, non sono fatto così».


 

Tempo fa, scrivendo di un’altra icona degli anni ’90, per quanto a Tino antitetica come

, ho citato Asprilla come archetipo di giocatore-al-quale-riuscivano-cose-difficilissimi: parlavo di un suo gol, segnato non ricordavo contro chi, in maniera

. Chi ha letto quel pezzo mi ha inviato tutta una lista di gol che potevano

essere la rete di cui parlavo, finché non è spuntato fuori il protagonista dei miei ricordi: un gol segnato al Tardini, in effetti, contro la Lazio.

 

https://www.youtube.com/watch?v=uAXDDYo5vlA

Cosa semplicissima che avrebbe potuto fare Asprilla: a) appoggiare di piatto in rete


Cosa complicatissima che riesce a fare Asprilla: a) incespicare sul pallone con la sufficienza fastidiosa di chi alza la mano a un’interrogazione alle medie senza conoscere la risposta b) farsi respingere un tap-in scontato dal difensore laziale c) alzarsi la palla a mezza altezza col destro d) con lo stesso piede inscenare una bicicleta innecessaria, però efficace.


 

Più lo riguardo più mi sembra che sia l’esatta polaroid in movimento della sua tendenza a complicarsi le cose.

 

La eco e il clamore delle sue gesta, in tutte le sue sfumature e chiaroscuri, rimbalza dall’Italia alla Colombia, dove diventa un personaggio di fama indiscutibile, per quanto controversa.

 

Nel 1993 è un proiettile sparato verso il successo. Il Parma ha appena eliminato, con una sua

, l’Atlético Madrid in semifinale di Coppa delle Coppe. A qualche settimana dalla finale di Wembley Tino torna in Colombia per fare visita alla madre malata. Sta guidando e un autobus gli taglia la strada, mandandolo fuori carreggiata. Scende dall’auto e comincia a dare in escandescenza, a prendere a calci la porta del bus. «Era una di quelle porte di sicurezza: quando le ho dato un calcio il mio piede ha attraversato il vetro, ma nel ritirarlo mi sono tagliato. Ero furioso, se fossi riuscito a entrare l’avrei ammazzato».

 

Per quell’infortunio mancherà un mese intero dai campi. Finale contro l’Anversa compresa.

 


«In cosa credo, allora? In Gesù e nella Madonna. Quando ero al Parma andavo tutti i sabato a messa, all’inizio ci andavo perché la squadra doveva presentarsi alle sei ma chi andava a messa poteva allungarsi fino alle sette e mezza. Ci andavo per rubarmi un’ora, poi ho cominciato a prenderci gusto».


 

Un’altra gettata di cemento a presa rapida, fondamentale per la cristallizzazione della sua iconicità, avviene una domenica del ’93, la sera del 5 settembre.

 

Tino ha la febbre, ma vuole a tutti i costi scendere in campo. A Buenos Aires la Colombia si gioca la storica opportunità di qualificarsi ai mondiali direttamente, senza passare dalla fase degli spareggi; una circostanza resa ancora più surreale perché se dovesse riuscirci sarebbe a scapito dell’Argentina. Prima del match passeggia al centro del Monumental Vespucio Liberti con un grosso telefono cellulare, mentre palleggia. Di quella

, che finirà in

e rimarrà impressa nella storia calcistica

come l’umiliazione più grande, Tino sarà protagonista assoluto, segnando due reti.

 

https://youtu.be/i2gHnS85x14

 

Il primo gol (a 1’20’’) è un libretto del catechismo per attaccanti fenomenali: addomestica con la punta del piede destro un lancio laser di Freddy Rincón, poi con lo stesso piede controlla dando l’impressione di voler affondare verso la linea per cercare un assist a centro area. Ma è solo uno scherzo, una derisione del marcatore: cambia direzione, con repentinità, con movimento goffo e efficace a un tempo, prima di toccarla - già in caduta - in rete.

 

Del secondo (a 3’23’’), invece, più che il pallonetto su Goycoechea di interno, morbido, a girare, dovrebbe impressionarci la tenacia in

con la quale ruba il pallone ai difensori storditi: non c’è foga nei suoi movimenti, ma una pacatezza consapevole, come se la rapidità, la reattività, fossero un flagello ineluttabile.

 

Non si può dire che quella sera, però, Asprilla si sia guadagnato la gloria imperitura, o almeno l’indulgenza da parte del suo pubblico. Nella percezione della sua figura da parte dei colombiani, Tino rimarrà sempre sospeso a mezz’aria tra l’eroe di Buenos Aires e un qualcosa che non si può descrivere appieno se non partendo da una definizione del giornalista Mario Fernando Pardo, eloquente a partire dalla scelta dei termini:

un «nero emancipato».

 

In Colombia il razzismo è una stortura sociale ancora abbastanza radicata. La Costituzione contempla i concetti di multiculturalità e multietnicità, dopotutto, solo dal 1991. Asprilla è nato a Tuluá, una cittadina nella Valle del Cauca, una regione occidentale della Colombia in cui un terzo degli abitanti definisce se stessa come «afrocolombiana». Quando nel 1851 la schiavitù è stata abolita, i discendenti degli schiavi sbarcati in Colombia durante il periodo coloniale decisero di stabilirsi in quelle regioni alla ricerca di terra da coltivare, piuttosto che continuare a lavorare al soldo dei bianchi nelle piantagioni di zucchero.

 

In queste aree a maggioranza nera, l’assenza di infrastrutture, a partire dalle scuole, ha fatto sì che la mobilità sociale e geografica fosse pressoché impossibile. Se il calcio si presentava come un volano di rara efficacia attraverso il quale far sì che i neri colombiani potessero essere riconosciuti come parte integrante della nazione, Tino sembrava incarnarne il testimonial perfetto.

 


«Anche se c’è chi pensa che non abbia saputo sfruttare del tutto il mio talento, credo di aver giocato al meglio delle mie possibilità. Tanto a lungo quanto il corpo me l'ha permesso. Sono soddisfatto di me stesso».


 

Asprilla è stata la persona di colore più amata e al contempo criticata in Colombia, e molto è dipeso dalla sua incapacità di sfatare i pregiudizi sui neri; in un certo senso, anzi, si può dire che abbia quasi contribuito ad alimentarli. La sua gestione della fama non è mai stata razionale. Quando la bilancia della sua caratura morale pendeva sul lato positivo dei

subito si affrettava a controbilanciarla con qualche

. A una forte carica costruttiva doveva sempre per forza far seguire una detonazione distruttiva.

 

«Beh, è cosi dura per loro, cazzo, quando vedono un uomo nero coi soldi. Credo che mi vorrebbero ancora vedere in giro con le scarpe rotte e vestiti orrendi». Faustino, a un certo punto della sua vita, è arrivato a pensare che quella del razzismo potesse essere stata una discriminante importante nella sua esistenza, il suo colore un minus. Ha posato sulla copertina della rivista

con il corpo per metà dipinto di bianco. «Sono stanco di essere nero», il titolo a effetto.

 

«Sarebbe bello cambiare colore per un po’, vedere la gente come mi vede, se gli appaio diverso, se passo inosservato, se non mi cercano più, se posso fare le cose che fa la gente normale». Fin qui Asprilla sembra soltanto

: il camoufflage di colore servirebbe solo a uscire dal personaggio, a sfuggire dalla fama.

 

«Non mi è mai pesato essere nero», continua però poi, «ma c’è che ultimamente ho avuto qualche problemino [si riferisce al fatto che lo abbiano indagato dopo aver sparato in aria alcuni colpi di fucile, NdA] e penso che possa dipendere da una questione di razzismo. Mi hanno sempre perseguitato, pensavo per via del successo e non avevo mai pensato a questa cosa del razzismo. Sarebbe bello cambiare colore per un pochetto: vedere se dipende dal colore, o se dipende

*».

 

https://twitter.com/TinoasprillaH/status/698546746104946688

 

Oggi, dopo ventitré anni di carriera in giro per Italia, Inghilterra, Brasile, Cile e Colombia, Faustino gestisce lo zuccherificio San Carlos, quello in cui suo padre ha lavorato per tutta la vita.

 

Nel frattempo fa il commentatore per ESPN Colombia,

e gira per il paese, in piccoli centri, in stadi minuscoli, giocando partite con vecchie glorie della Sele come Aristizabal o Valderrama. «Metà del compenso prima di metterci in viaggio, metà in hotel, prima di giocare». «È una cosa che si è inventato Maradona in Argentina: ci ha invitati una volta, e noi lo abbiamo copiato. Alcuni di noi hanno amici sindaci, governatori: ci chiamano, noi andiamo e la gente si diverte».

 

Per non rischiare di arrivare a quel momento in cui cominci a sentire nostalgia del successo, della fama, Tino ha continuato a coltivarla come si fa con la canna da zucchero, a cicli sempre uguali a se stessi.

 

Sul finire della sua carriera l’amico di infanzia Victor Osorio «Caremonja», un copywriter di discreto successo nel mondo pubblicitario sudamericano, lo ha voluto protagonista

. Nei trenta secondi di video lo si vede bere una bevanda,

, che sputa non appena il regista chiama la chiusura del

. Credo voglia significare, profondamente, che la fonte della fama, alla quale Tino si è abbeverato per tutto il corso della sua carriera, alla fine può arrivarti a noia.

 

Lo stesso Caremonja lo ha immortalato anche nell’

realizzato per la partita d’addio, ed è l’artefice di alcune campagne pubblicitarie incentrate sulla sua figura. A fianco di una foto in cui posa completamente nudo e nella posizione de

di Rodin ha piazzato un claim che restituisce in pieno l’immagine del Tino, il suo significato, la sua

: «A un certo punto ho pensato… e se ci fosse qualcun altro come me?».

 

Di Asprilla ce n’è stato uno, e probabilmente non ce ne saranno più. Come ha spiegato il suo ex compagno in nazionale Léonel Alvarez, «faceva già allora quello che ci aspettiamo facciano i calciatori

: qualcosa di diverso ed eccezionale».

 

Dando in più, però, l’impressione di essere sempre coinvolto in un rapporto con il pubblico che trascendesse il semplice intrattenimento, per farsi compenetrazione quasi

. «Qualcosa che non ho mai fatto ma che farei? Sesso al centro del campo, con le tribune piene. Che se poi la gente apprezza mi applaude, altrimenti mi tira pietre e pomodori».

 

Ammesso e non concesso che qualcosa del genere, Tino, non l’abbia fatta già, senza rendersene conto, pensando fosse amore.

 



 

- Nel 1996 ha aggredito e picchiato, all’interno di un negozio di Tuluá, un uomo credendolo colpevole di avergli rubato

;

 

- Ha festeggiato le vacanze di Natale del ’95 in Colombia: prima è stato arrestato a Cali per ubriachezza molesta e per un principio di rissa; poi, il primo gennaio, ha sparato due colpi di pistola in aria.

 

- Al suo arrivo a Newcastle gli è stato messo a disposizione Nick, che avrebbe dovuto insegnargli l’inglese. Ma Tino non aveva nessuna voglia di studiarlo, e Nick neppure, perciò per cento sterline al giorno è diventato il suo maggiordomo (e traduttore di fiducia con le ragazze);

 

- Durante il periodo in Cile, quando giocava con la U, durante un allenamento dà fuori di testa. Si mette a urlare «Non mi piace come state correndo! Più veloci, bastardi! Dobbiamo vincere tutto!». Poi spara in aria tre colpi di pistola, tra lo sgomento dei giornalisti (e il divertimento dei compagni di squadra);

 

- «Il mondo dei cavalli? Somiglia a quello del calcio: ci suono buoni e cattivi, ho incontrato anche truffatori che hanno cercato di vendermi cavalli malati. […] Attualmente ne ho una ventina, mi sono sempre piaciuti i film western;

, John Wayne.

mi piaceva molto, amavo i cavalli degli indiani».

 

- Al casello di ingresso al suo zuccherificio c’è un

: si presentano tre ragazze non autorizzate, e i controllori non le lasciano entrare, costringendole a un giro molto più lungo per arrivare a casa di Tino. Ovviamente erano sue amiche, e ovviamente non la prende bene: spara quattro colpi di fucile contro il casello di controllo.

 

- «Mi ricorda un film che ho visto una volta, Minority Report con Tom Cruise, nel quale la gente finisce in carcere ancora prima d’aver commesso un crimine, o essere stata processata» (dopo un arresto per uso improprio di armi da fuoco);

 

-




 

- «Sapevi che è principalmente colpa di Hitler se Wagner e Nietzsche sono stati così demonizzati in Occidente?» (in un’intervista al magazine Elocio)

 

 

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