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Elena Marinelli
La strada tortuosa di Ashleigh Barty verso Wimbledon
14 lug 2021
14 lug 2021
Cadute e ascesa della tennista australiana.
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Elena Marinelli
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Sabato 10 luglio 2021 intorno alle 19, a ormai un paio di ore dal match point della finale femminile dei Championships 2021, l’account ufficiale di Wimbledon ci offre

in una cornice tagliata in due orizzontalmente, con un’etichetta per parte: quella in alto dice 2011 e quella in basso 2021. Si ripropongono i due momenti in cui Ashleigh Barty prende in mano il trofeo dello Slam femminile.

 

Nel 2011 ha 15 anni e il passo sicuro. Ha appena vinto 7 – 5, 7 – 6 contro Irina Chromačëva: è il torneo juniores di Wimbledon e le sembra davvero possibile la profezia di Evonne Goolagong Cawley, un po’ mentore un po’ sorella maggiore, che la guarda giocare una volta sola da bambina e vede la futura giocatrice più forte d’Australia. Nel 2021 ha 25 anni, il passo pesante ma felice e ha appena vinto 6 – 3, 6 – 7, 6 – 3: non ostenta, mentre calpesta l’erba usando tutto il piede, con passo da maratoneta, e gioisce di un obiettivo per nulla scontato, che arriva da lontano. Ha il sorriso incredulo di chi non sa cosa accadrà dopo.

 



Il suo tennis nel 2011 è fatto di colpi quasi piatti e le sue partite con le avversarie sono spesso tirate, ma tre sono le qualità che “Ash” possiede già. La prima è la lucidità mentale: la tensione di una prova importante la tocca solo nel profondo, senza che prenda il sopravvento. La seconda è la difesa solidissima sulla linea di fondo. La terza è il servizio, già preciso, che affonda effettato al centro e i pungiglioni a uscire, sia dal lato di destra che da quello di sinistra.

 

Nel 2012, il suo primo anno da professionista, Ashleigh Barty partecipa a 9 tornei ITF e ne vince 4, due su cemento e due su erba, e a 5 tornei WTA, di cui 3 del grande Slam, sempre con una wild card. In questi ultimi, si ferma al primo turno, sconfitta da colleghe con più esperienza: in queste partite, l’australiana trova dinanzi a sé tre avversarie molto diverse e una in particolare, Petra Kvitova, dice molto sull’ingresso dell’australiana nel circuito professionistico: di colpo, lucidità, mobilità e servizio risultano depotenziati, perché qualcuna, dall’altra parte del campo, è sempre un passo avanti.

 

In quel primo turno sulla terra rossa del Roland Garros, Petra Kvitova mette di fronte a Barty la frustrazione della gavetta nel tennis: perdere, partecipare e continuare a perdere. Non che giochi male in assoluto, anzi: l’australiana dimostra di avere qualità nel tocco e nei fondamentali e dopo il primo passo falso – inizia con un doppio fallo – riesce a non perdere il servizio nel primo game, giocando la partita di una vita nel giro di un gioco. Mai come prima di questo momento, è stato chiaro a Barty che alcuni match si vincono quando ogni punto è conquistato almeno due volte, perché di fronte c’è un’avversaria più forte, da ogni punto di vista, e perché la pressione è troppa da affrontare tutta insieme e bisogna scomporla, per lasciarla fluire.

 

https://www.youtube.com/watch?v=ICxSk2sC8fU

Al minuto 0:55, Kvitova serve con i piedi già pronti a entrare in campo. La precede, è veloce, ma soprattutto potente. Lascia Barty sul posto mentre aggredisce con il dritto e poi si ripete anche dopo: lo scambio dura di più, l’attacco è condotto dalla linea di base ma la profondità inchioda l’avversaria sul posto.


 

Dal 2011 al 2014, l’australiana non conquista alcun titolo in singolare del circuito WTA. Un talento, una predestinata vincerebbe qualcosa, al posto suo: lo sa lei, lo sa il suo team, lo sa l’Australia intera, una casa troppo grande, con troppe voci che si accavallano e che le chiedono di avere pazienza, di aspettare, di guadagnare campo.

 

Nello stesso periodo, però, inizia la sua vita tennistica anche in doppio assieme a un’altra australiana, una specialista della materia: Casey Dellacqua. Insieme, le due arrivano a giocare due finali Slam nel 2013: in Australia e a Wimbledon. A Melbourne la finale è contro Roberta Vinci e Sara Errani, che in quel momento sono la migliore coppia di doppio del tennis femminile, campionesse Slam l’anno prima in Inghilterra e a Parigi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=dL2cYR6uYpE

Contro le italiane, sono in difficoltà da subito. Anche quando si fanno avanti, Vinci – Errani trovano il modo di velocizzare lo scambio e accelerare i punti, con precisione e potenza. Al minuto 1:45 una indecisione di “Ash” mette fuori tempo Casey, finiscono a giocarsi i vantaggi e infine perdono il game perché a rete Barty colpisce male la pallina.


 

“Ash” copia a Casey certe rotazioni in copertura da fondocampo, le fa gestire gli scambi molto spesso, per vederla all’opera, mentre allena la reattività a rete e comprende a cosa serve la strategia: si può scegliere di giocare in un altro modo la stessa pallina, durante la stessa partita, addirittura dentro lo stesso game, ma è un’arte e ci vuole tempo. Vincere quasi uno Slam in doppio per due volte e non riuscire nemmeno a pensare di arrivarci in singolare le mette una pressione addosso dolorosa. Ci pensa su abbastanza, non sente di poter continuare e nel 2014 lascia il tennis. Non per sempre. Solo per un po’. Troppe aspettative.

, pensa “Ash”,

.

 



Le altre corrono troppo forte. Ashleigh Barty è fuori posto, schiacciata, senza la capacità di comprendere cosa fare. Ogni giovane talento è in quella situazione una o più volte all’inizio della carriera, alcuni per interi anni, ma non tutti sono disposti ad aspettare. Ecco che l’ingresso tra le grandi per l’australiana è semplicemente costato troppo. Il cricket, invece, innanzitutto è uno sport di squadra e questo fa tutta la differenza possibile: si perde insieme, si vince insieme. I grandi campioni di tennis dicono che la squadra è tutto, è presente; nei discorsi con il trofeo in mano, quando è tutto finito e la gloria assicurata, ammettono che non è vero che il tennis è uno sport individuale, perché in fondo senza team non sarebbe possibile alcun successo. Vincono insieme, ma si fanno vedere perdenti sempre da soli.

 

, pensa “Ash”.

 

La sua diventa il Brisbane Heat, che partecipa alla Women’s Big Bash League: l’effetto sulla sua salute psicofisica è enorme, perché in sei mesi circa Barty passa dall’impugnare per la prima volta una mazza da cricket al giocare in una squadra professionista.

 


Il passaggio di disciplina è molto veloce, facile e le regala un periodo di successo corroborante, in cui analizza i suoi desideri.


 

La capacità principale che sembra non abbastanza per il tennis, relativa alla potenza nel colpire la palla, è un talento che sul campo da cricket diventa naturale. La fascinazione di Barty nella pratica del cricket arriva nel 2013, quando partecipa a una cena con la nazionale femminile e percepisce la sensazione che la spaventa: la solitudine non esiste tra quelle atlete, la frustrazione è divisa nel gruppo, la paura può spegnersi con una parola di una compagna e tutto ciò non ha a che vedere con il talento o la tecnica ma solo con i momenti a cui si vuole dare importanza; prima del suo debutto nel campionato australiano, Ash Barty

: «Volevo una vita da adolescente normale e avere esperienze normali».

 

Quando leggo che Ashleigh Barty torna a giocare a tennis nel circuito maggiore sobbalzo. È il 2016, è febbraio, a breve io non sarei stata più quella di prima. È il mio primo giorno di maternità, passato interamente in tuta, sul divano, senza il pensiero di dovermi allacciare le scarpe. Sto guardando la notte degli Oscar – uno dei premi va a Leonardo Di Caprio, finalmente – mentre leggo la notizia del ritorno

. È un’informazione vecchia di qualche settimana: Barty è pronta a dare una seconda possibilità al tennis, come farebbe per il grande amore di una vita.

 

Avevo preso la sua scelta di andarsene per scarsa pazienza nel rincorrere il risultato: mi aveva conquistata fin da subito ed era durato troppo poco, e avevo rubricato in fretta e furia la sua decisione come strampalata: com’era possibile che a un’atleta non bastasse il talento? Com’era possibile che soffrisse per questo? Su

, Barty è sincera: «Sono passata dall’essere nessuno a vincere Wimbledon juniores e sei mesi dopo a partecipare all’Australian Open. Sono stata vittima del mio stesso successo. Avevamo in programma di partecipare ai tornei ma non di avere quei risultati. E se vinci i Wild card Playoff non puoi dire: “Oh, ecco non voglio la wild card”».

 

Rientra oltre la top 200, gioca pochi tornei e la stagione sfila via veloce solo per sentire, di nascosto, l’effetto che fa; a fine 2017 consolida la forma fisica e l’ascesa: irromperà nella top 20 della classifica mondiale. Torna, ma non come prima: studia schemi mentali e di gioco, immagazzina tattica e strategie e continua ad allenare la sua personale partita, a creare confini progressivamente più precisi dei suoi movimenti sul campo e a mostrare i colpi, tornati più potenti e liftati di prima. Uno dei principali motivi di questo nuovo modo di approcciare il gioco e l’allenamento si chiama Craig Tyzzer, australiano, tennista tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, l’allenatore di “Ash”, un tipo di guida molto diligente: lui stesso per primo studia le avversarie, compila liste e testi da dare a Barty per studiare e lei si impegna, prende sul serio quello sforzo e accetta la sfida di analizzare, di capire il più possibile, per prevenire l’impossibile.

 



Nel 2017, arriva la vittoria del primo torneo WTA, su superfice veloce, all’Open della Malesia, per 6 – 3, 6 – 2 contro Nao Hibino (vincerà anche il torneo di doppio, ancora con Casey Dellacqua). In quella partita l’unico passaggio a vuoto dell’australiana è all’inizio del secondo set, quando la tensione prende la racchetta e non converte un break.

 

Nel 2018 sono quattro le partite che più di altre cambiano l’anno di Ashleigh Barty: la semifinale contro Simona Halep a Montréal, gli ottavi contro Karolina Pliskova allo US Open, la semifinale contro Aryna Sabalenka a Wuhan e il primo Slam vinto in doppio insieme a CoCo Vandeweghe a Flushing Meadows. Il punteggio era 3-6, 7-6, 7-6 su Timea Babos e Kristina Mladenovic le quali, dopo una partenza tutta in avanti e il primo set vinto, sono costrette a qualche sforzo in più in costruzione, perché la difesa di Barty – Vandeweghe sale e con essa la gestione dello scambio dalla linea di fondo. Dal 5 pari del secondo set, la partita cambia, Barty è più sicura, anche nel prendersi dei rischi a rete e in manovra. In fondo, ciò che aveva osservato fare a Casey tante volte le era venuto in soccorso. Sembra magia, ma è solo allenamento mentale, una sorta di abilità archivistica.

 

Le partite in singolare, inoltre, sono un passo in avanti verso la ricerca della completezza, nonostante siano tutte sconfitte: in particolar modo, la partita contro Simona Halep al torneo Rogers Cup di Montréal, persa 6 – 4, 6 – 1, mostra come ogni colpo principale di Ash Barty, il servizio, il rovescio tagliato, il dritto come passante o incrociato, sono migliorati sì, ma spesso hanno ancora un problema: la misura.

 

https://www.youtube.com/watch?v=qf1Kgxm6vbA

Contro una Simona Halep particolarmente in partita, l’australiana fa sfoggio del suo meglio, ma non basta perché l’avversaria la porta a strafare. Il limite, per Barty, è ancora un territorio impervio, che diventa un rischio continuo se non incontra il controllo.


 

Anche contro Karolina Pliskova allo Slam newyorkese, l’errore per Barty arriva sovente con risposte mal calibrate perché portate allo strenuo: se però il limite contro Halep si mostra sulla linea orizzontale, con la ceca, più arrembante, arriva da quella verticale.

 



Jessica Pegula, Danielle Collins, Andrea Petkovic, Sofia Kenin, Madison Keys e Amanda Anisimova sono le tenniste che Ashleigh Barty affronta e contro cui vince nella sua corsa alla finale del Roland Garros 2019. La prova migliore è contro Sofia Kenin, che la mette in difficoltà con la prepotenza e la profondità dei colpi. È un confronto piacevole, perché di fronte ci sono due modi completamente differenti di interpretare le partite. Kenin è una tennista prepotente, che tende all’eccesso, alla rivincita continua. Anche se è in vantaggio, gioca come se dovesse risalire la corrente sempre il più forte possibile.

 

https://www.youtube.com/watch?v=AnIqCp_2nF0

Un set per parte e nel secondo Barty soffre i rientri in potenza di Kenin e viene schiacciata nella fase difensiva. Sofia usa la profondità in ogni parte del campo in cui si trova e quando in controllo accelera con palle corte che fanno arrancare “Ash”.


 

Barty vince lasciando a 0 l’avversaria nel terzo set: il bagel è il frutto di una strategia ben precisa. Prima cerca di rallentare il gioco di Kenin, le lascia il tempo di pensare troppo, poi taglia ancora più sottilmente ogni dritto e rovescio e infine prova ad affondare la statunitense mettendo quanto più possibile i piedi in campo.

 

In finale, l’australiana trova Marketa Vondrousova, tennista ceca in quel momento nella top 40 del mondo, interprete di una scalata fulminea durante la prima parte dell’anno; avrebbe potuto concludere in modo eccezionale, quasi irripetibile nel tennis contemporaneo, un anno da incorniciare. Ashleigh Barty, però, si scopre sul campo una tennista solida. Cresce, all’interno dello Slam, di partita in partita, nonostante il rischio di un fallimento al cospetto della prima finale importante dopo il Wimbledon juniores, contro un’avversaria che di pressione sembrava non soffrisse mai.

 

Va al contrario, invece, con Barty in un monologo: lascia solo quattro game in due set, vincendo 6 – 1, 6 – 3 in 70 minuti e iniziando quindi quella che si preannuncia come una lunga scia di «prime volte da», attraverso cui ereditare, un pezzo alla volta, il peso della legacy australiana del tennis femminile: quella di Margaret Court Smith, Evonne Goolagong e Samantha Stosur, ad esempio.

 

https://www.youtube.com/watch?v=w1cIXHY7p0Y

Il gioco maturato di Barty in un video. La reattività efficace sulle palle corte, che mette Vondrusova spesso fuori misura. Nella lotta degli slice e degli spin, l’australiana sale in cattedra e nello scambio prolungato l’australiana si trova spesso più a suo agio.


 



Dopo la vittoria dello Slam, sul finire dell’anno, “Ash” affronta per la prima volta da favorita Naomi Osaka, al torneo China Open di Pechino. È in scia positiva di condizione e di sicurezza nel suo gioco, che non è più in discussione da mesi. Incontra Kiki Bertens in semifinale e Petra Kvitova ai quarti. Contro quest’ultima, sotto nel primo set 6 – 4, subisce l’aggressività della ceca che previene ogni tentativo dell’australiana di metterla agli angoli, ma poi recupera adattandosi: si fa più veloce, prende in prestito il terreno preferito dell’avversaria e le ruba lo stile di gioco; a rete, la mossa è una: affondare con colpi angolati, usare lo slice, per accantonare il prestito e tornare sé stessa.

 

Una qualità che nella Barty prima della pausa per il cricket non c’era e che matura nel 2019 è la sensibilità di cogliere il momento della partita e trovare una soluzione a una difficoltà, direttamente sul campo, senza pause né patemi, ma solo facendo ricorso a un cambio di gioco: possedere una vasta scala di variazioni possibili le permette di far fronte a diverse tipologie di avversarie e anche quando va sotto di un set, magari il primo, sa che può recuperare. Succede in questo torneo, lo farà anche a Shenzhen per le WTA Finals, in una partita in cui l’australiana inventa l’incontro, per fermare il muro difensivo di Elina Svitolina, tra i più duri e compatti del circuito, e poi a Melbourne nel 2020, ancora contro Petra Kvitova: nel primo set, tirato, finito 7 – 6, Barty modellerà i suoi punti di forza, cercherà, riuscendoci, di arginare la dirompente Petra Kvitova, disputando la sua migliore partita all’Australian Open.

 

A inizio 2019 Naomi Osaka, invece, affronta un momento della sua vita tennistica in cui cerca di ritrovarsi, dopo la sbornia dell’anno precedente e la vetta della classifica conquistata dopo Melbourne a inizio anno. In primavera tanto più Barty trova continuità, quanto più Osaka la perde. In estate l’andamento del loro rendimento è simile: nessuna trova le grandi prestazioni – a Barty va solo il titolo di Birmingham su erba, mentre a Osaka il Toray Pan Pacific Open su cemento – e quindi in autunno la finale del China Open sul cemento diventa la prima resa dei conti importante fra l’australiana e la giapponese.

 

Nel primo set, Barty usa il terzo break point per portarsi in vantaggio; lo conquista giocando meglio di Osaka, semplicemente: i suoi colpi migliori arrivano tondi, gli inside out di dritto sono irraggiungibili e quando va a servire per il set nel nono game, il gioco diventa addirittura brillante. Osaka è stanca, corre dietro alla pallina senza trovare il modo di affermarsi con continuità. Nel secondo set, la giapponese comincia a ragionare. È l’australiana che la costringe a farlo. Abbandona un po’ di istinto inconcludente e trova il bandolo dell’incontro: usare i turni di servizio per spingere l’avversaria ad allungarsi, a recuperi difficili, per poi colpirla spesso in campo aperto. La difesa di Barty patisce il ritorno, la potenza aumentata, il servizio che diventa nuovamente vincente. Il punteggio è identico per i due set: 6 – 3.

 

https://www.youtube.com/watch?v=SsXdKogrHT0

Minuto 5:06. Il servizio di Barty non è abbastanza centrale e la riposta è semplice. Lo scambio vede opposte due visioni di gioco e la giapponese riesce a imporre il suo, nonostante la solida difesa che, però, non regge all’assalto ripetuto e l’ultimo salvataggio è fuori.


 

Il primo break point del terzo set è per Osaka, che alla fine con convinzione, rimanendo attaccata a ogni punto, vincerà lo scontro: è la decima partita consecutiva.

 



Non accade da un po’ di stagioni che il tennis femminile mi regali molto entusiasmo con una certa continuità: il 2019, invece, sì e il merito è soprattutto di Naomi Osaka e Ashleigh Barty. Nei primi mesi dell’anno la loro dicotomia è una sorta di scommessa di una rivalità che sta mettendo le basi.

 

Molto diverse nel gioco e dell’attitudine, “Ash”, la tennista delle rotazioni e del kick serve, e Naomi, quella della potenza e del servizio a 200 chilometri orari, interpretano aspetti diversi del tennis del passato prossimo, ne modernizzano dei tratti; nessuna sta rivoluzionando lo sport in senso stretto, ma entrambe lo avrebbero fatto progredire. Osaka in modo più esplicito e globale, Ashleigh in modo più intimo e circoscritto.

 

Tutte e due sarebbero state delle regine con una corona leggera, forgiata di volta in volta sulla testa dell’una o dell’altra, proponendo un modo personale e nuovo di intendere la leadership, più concreta, forse, più cucita sulla persona e meno sulle obbligazioni e sulle aspettative.

 



Quando torna dalla pausa pandemica, trascorsa interamente all’interno dei confini australiani e senza tennis, Ashleigh Barty è ancora numero 1 ma nel frattempo il circuito WTA ha una nuova campionessa del Roland Garros, Iga Swiatek, e Naomi Osaka ha in bacheca il quarto Slam, il secondo US Open, sostenendo con forza che le superfici veloci sono le sue preferite. Inoltre, una giocatrice su tutte inizia l’anno in modo prorompente: Aryna Sabalenka.

 

La prima e unica volta in cui Barty e Swiatek giocano contro è a Madrid, sono gli ottavi di finale e l’australiana è lontana da casa da qualche settimana: finiti i tornei di casa, infatti, è costretta a scegliere fra il tour e il suo continente. Decide per il primo, decide di rimettersi in gioco, riguadagnare con le partite il primo posto, e gioca quasi tutta la stagione della terra – non finirà gli Internazionali di Roma per un infortunio e salterà il Roland Garros per un grave problema all’anca. A Madrid incontra prima la polacca e poi la bielorussa Aryna Sabalenka, per la seconda finale consecutiva tra le due.

 

https://www.youtube.com/watch?v=hb2J96ykkso&t=51s

Contro Swiatek la partita si decide al primo set: Barty studia la polacca e la mette in condizione di non operare.


 

Gioca in anticipo, cerca di non prolungare gli scambi, perché la polacca dimostra di avere gambe, braccia e testa e per finire ogni dritto o rovescio sul limite della profondità consentita. Iga ingaggia una lotta di limiti, ma “Ash” li aggira. E se una tenta gli affondi, l’altra li contiene e li trasforma in vantaggi. Nessuna come l’australiana riesce, all’interno dello stesso scambio, a usare diligentemente le rotazioni, per aprire gli spazi e poi lo slice di rovescio per chiuderli. Nessuna sa essere al servizio tanto precisa, spesso liminare con una certa continuità all’interno della partita. Quasi nessuna si prende la briga di soffrire come parte del gioco, di attraversare le difficoltà soltanto per la possibilità, quasi sempre concreta, di trovare una soluzione.

 

Contro Aryna Sabalenka, invece, la prima finale, quella del torneo di Stoccarda, è una rimonta in cui “Ash” punta ogni chance sul secondo set. La bielorussa si prende il primo per 6 – 3, riuscendo nell’impresa di non far giocare l’avversaria al meglio e imponendo, nel mentre, la fisicità del suo gioco. Rispetto alla partita contro Swiatek, giocata in modo liminare, questa è, invece, diretta e aperta, in quanto Aryna ha un gioco potente, fisico e una prossemica chiara; è una di quelle tenniste che esprime il suo tennis con tutto il corpo, lineamenti del viso compresi.

 

Il secondo parziale, però, cambia la partita, finisce 6 – 0 per Barty che costruisce, un punto alla volta, la rimonta. Inizia a rischiare maggiormente, puntando sulla possibilità di chiudere i punti prima, in controtempo, o a rete. La porta a giocare sulle linee e andare fuori misura, con dritti che da difensivi virano in attacchi potenti e angolati. Sabalenka perde il centro della partita, il suo gioco, perché Barty lo nasconde e di fronte alla gabbia messa in piedi da Barty è impotente.

 

È grazie a quel set perso a 0 che, però, la bielorussa vincerà il torneo di Madrid la settimana successiva, restituendo il favore, lasciando con un bagel la numero 1 del mondo al primo parziale.

 


«Mi spezza il cuore»: in questo modo commenta il ritiro al secondo turno del Roland Garros contro Magda Linette.


 

È dispiaciuta ma non può fare altro: ha un solo pensiero e si chiama Wimbledon. Mancano 24 giorni e deve guarire e trovare la forma; raduna la sua squadra e chiede di pensare a qualunque cosa possibile per arrivare in Inghilterra integra. Sam Phillips per

che l’infortunio all’anca ha una natura imprevista, le aveva deteriorato la gamba fino a quel punto di non ritorno a Parigi. A Barty tocca non pensare. L’esercizio difficile che fa per 10 giorni è rimanere sul tavolo fisioterapico e lasciare che la cura funzioni, rinunciando a giocare e ad allenarsi, aspettando che il «silver lining» arrivi.

 

L’appuntamento è importante perché arriva 10 anni esatti dopo il titolo juniores vinto, e 50 anni dopo il primo titolo vinto da Evonne Goolagong Cawley, il suo idolo da sempre, alla quale dedica la divisa che indossa durante il torneo e che richiama quella usata da Goolagong nel 1971. Probabilmente niente avrebbe impedito a Barty di presentarsi a Wimbledon quest’anno, ma arrivare in finale è una scommessa vinta sulla paura, soprattutto perché in semifinale trova una giocatrice in uno stato di grazia e di forma: Angelique Kerber stressa il gioco di Barty, le mette di fronte scelte rischiose, perché l’australiana difende molto, e si muove sul campo in lungo e in largo: un eventuale risentimento all’anca è una possibilità concreta. Né la sua fisioterapista, né Barty sono sicure di quanto sarebbe durata.

 

https://www.youtube.com/watch?v=OTxaYGYWED8

“Ash” si rende conto in partita di avere il favore del corpo, di essere competitiva al massimo. Il punto del primo break per il 2 – 0 nel primo set lo dimostra: al minuto 0:24, l’australiana riceve un servizio a un angolo ed è costretta a una ribattutta successiva sul lato opposto, che non abbandona. Rimane lucida per ricevere lo smash e trasformarlo in un dritto vincente.


 

La finale è un’occasione irripetibile e se la gioca contro Karolina Pliskova. Il primo set è sorprendente, perché la ceca entra in campo senza speranze, poco lucida, non gioca quasi e si riprende troppo tardi, perché perde il set 6 – 3. Dopo il tie break del secondo, l’australiana merita la partita non lasciandosi sopraffare dalla rimonta dell’avversaria, rientrata completamente in gioco e dall’incapacità di chiuderla in due parziali, quando serve sul 6 – 5 e sbaglia i punti più importanti. È una partita tesa, alla fine, e piacevole. Tre set come non se ne vedevano dalla vittoria di Serena Williams su Aga Radwanska nel 2012.

 

Dopo il match point, Ashleigh Barty si piega sulle ginocchia, scherma gli occhi con l’avambraccio. Karolina Pliskova tenta di assalire il tempo, non vorrebbe sorbirsi l’onere della premiazione, ma ha perso: i piedi non giocano più sui favori dell’erba, ma cincischiano davanti all’asta del microfono, quasi scompaiono. Appena dopo la vittoria, ancora sul campo, Ashleigh Barty si concede la vittoria, a modo suo: per ogni alzata di braccia al cielo, per ogni corpo disteso sull’erba, c’è un torace, il suo, che si contrae, un cuore che si chiude, non tanto perché non vuole farsi vedere, quanto perché smette di respirare e per un secondo non sa cosa fare.

 

Ashleigh Barty vince una partita alla volta: mentre si attende il dopo, la conferma, il prossimo Slam, lei gioca la sua gara, fatta di intensità e dolore insieme, che arrivano sempre puntuali e cascano tra le righe bianche degli angoli più difficili di un passante o di una pallina tagliata; sono poche le volte in cui la vediamo in controllo totale, soprattutto nelle partite decisive, quando di tanto in tanto una voce di stupore sale, e sussurra che forse, a un certo punto, finirà: nel tennis di Ashleigh Barty ogni cosa inizia e si completa, perché la possibilità di potersi allontanare dai campi, di tornare a casa e mai più rivederci è una alternativa possibile.

 

Quello di “Ash” con il tennis è il rapporto intenso che non si vede, è il compromesso nascosto nelle pause tra un torneo e l’altro, uno Slam e l’altro, una stagione e l’altra, è il silenzio in ogni variazione.

 

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