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Ortega, le apparizioni, le tristezze, i fantasmi
13 mar 2018
13 mar 2018
Le mille cadute e le mille rinascite del "Burrito" Ortega.
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Fuori è sempre stato allegria, dentro l'esatto opposto. Ariel Arnaldo Ortega ha una sola e inconfondibile faccia, ma pochi sono stati ambivalenti quanto lui: fulgore e sudiciume, cielo e abissi. Lirica e fango. L'unica cosa capace di mettere tutti d'accordo – quantomeno quelli che hanno guardato prima al suo talento che alle sue mancanze – è stata che uno così, toccasse nel profondo.

Di strabiliante in lui c’era come sapesse trasformare una semplicità quasi becera, in gesti talmente complessi da risultare parte della sfera celestiale, più che di quella umana. E quando a trentanove anni - dimostrandone almeno una decina in più, e abbracciato a suo figlio - è uscito per l'ultima volta dal prato del Monumental, c'erano 120mila occhi bagnati da lacrime di gratitudine e di dolore. Erano lacrime d’amore, per quel che era stato, che avrebbe potuto essere e che è oggi.

Perché del Burrito, se ti fermi a guardarlo, cambiando leggermente la prospettiva più comune e lasciando la superficie per andare anche solo un po' più in profondità, soprattutto da un punto di vista calcistico è davvero complicato non innamorarsi.

«Hacélo y me muero. Hacélo y me muero. La tiró por arribaaaa! Me voy! Me voy! Te quiero hasta el final de nuestras vidas! Te amo futbolisticamente! Siempre fuiste mio Ariel! Ese gol no merece mi grito. Merece el grito de tu gente Ariel!». La voce è di Costa Febre. Il concetto, abbastanza chiaro, un po’ quello che vorrei sostenere in questo pezzo.

Ecco un primo esempio del cambio di prospettiva necessario per arrivare ad amare Ariel Ortega: generalmente si pensa che il suo marchio di fabbrica calcistico siano stati i pallonetti, le vaselinas sciorinate da Buenos Aires a Istanbul, da Valencia a Genova.

E invece il vero marchio di fabbrica di Ortega non è il pallonetto ma il dribbling. La cosa che gli ha sempre dato più soddisfazione, su un campo da calcio, ma probabilmente a livello assoluto, è l'avvertire quel leggero movimento di aria prodotto dalla gamba del suo avversario mentre si muove a vuoto nel tentativo di evitare la gambeta. Un refolo di felicità, fugace e difficilissimo da conquistare.

Il tutto di Ortega è sempre stato quello, dai potreros di Ledesma agli stadi dei tre Campionati Mondiali che ha disputato in carriera. Anche perché la sua vita gli ha insegnato che per lui la felicità non può durare molto più della frazione di secondo in cui si compie un dribbling.

Impreparato alla vita nel mondo

In molti sono convinti che l’avversario principale del suo talento sia stato l'alcolismo, ma lo fraintendono con la depressione. L’alcol è stato per Ortega la via più semplice per scappare dal mal di vivere, sull’esempio inevitabile di un padre che aveva fatto lo stesso. Come sostiene il National Institute on Alcohol Abuse and Alcoholism degli Stati Uniti, per i figli di alcolizzati cronici si moltiplica da quattro a nove volte la possibilità di diventarlo.

Ortega ha avuto tutte le condizioni per non rientrare in una casistica, ma forse è stato troppo segnato, o non abbastanza forte, per evitare di piombarci dentro.

Ortega non ha mai capito certe cose che per gli altri erano regole o consuetudini. Come quella volta in cui si giocava il grande clásico che paralizzava la sua città: Alberdi contro Ledesma. Orteguita, poco più che quindicenne, era in panchina nel Ledesma. Ed era anche l'unico in tutto lo stadio che non sapeva dell'accordo fra i due club: oggi si pareggia, così entriamo entrambi nei playoff. Entra anche lui, a dieci dalla fine, sul punteggio ovviamente di parità. La partita non si gioca più, e il piccolo Ariel non ne capisce il motivo. Quando gli arriva un pallone fra i piedi, è fin troppo facile per lui andare in gol. Un ragazzino che decide il derby della sua città. Gioia pura. Ma solo per lui. Nessuno lo abbraccia, tutti lo insultano. Perché? Il primo di tanti, nella carriera di Ariel Arnaldo Ortega...

Giovanissimo con Enzo Francescoli.

Anche a Buenos Aires arriva pieno di interrogativi. A sedici anni, solo, senza famiglia e senza la possibilità di fare un vero e proprio apprendistato: un paio di mesi con le giovanili, solo tre partite con la Reserva e poi dritto alla prima squadra. Passarella lo fa debuttare a diciassette anni, nel 1991, agli albori della costruzione di una delle versioni più belle e vincenti della storia del Club Atlético River Plate. Passarella per Ortega è stato il vero padre sportivo, l'unico che è riuscito a trovare una breccia nella gommosa corazza che lo circondava. Capì che aveva di fronte un potenziale grande giocatore, ma anche un ragazzino senza nessuna base per affrontare il mondo. Provò a fornirgliela, facendo cose come quella volta in cui, alla fine dell'allenamento, lo caricò in macchina e lo portò personalmente in banca per fargli aprire un conto corrente. Ortega non aveva la più pallida idea di cosa fosse.

Ciò di cui invece si intende a meraviglia, Ariel, è il gioco del calcio. Specie per come lo intendono gli argentini: tecnica, spettacolo, anche provocazione volendo, ma sempre con il fine massimo di far felice il tifoso.

Le apparizioni

Il primo ciclo riverplatense del Burrito si può dividere in due parti: la prima, dal 1991 al 1994 con Passarella al comando, è stata quella della consacrazione. Nel quadriennio della sua esplosione, fra i diciassette e i vent'anni, prima del suo primo Mondiale e di diventare un beniamino trasversale di tutto il popolo calcistico albiceleste, Ortega vince tre titoli d'Apertura e si impone come il più argentino dei talenti argentini. La seconda parentesi, con Ramón Díaz sulla panchina, è invece quella della gloria. Nel biennio con Don Ramón il “Burrito”, conquista un altro campionato e soprattutto la Copa Libertadores del 1996, la seconda nella storia millonaria.

Ogni volta che scende in campo sono dribbling sfacciati e golazos indimenticabili. Il primo lo segna nel luglio del 1992 al Quilmes. Il più bello, forse, lo regala poco prima di partire per l'Europa, nel 1996 contro il Ferro: un manifesto di onnipotenza tecnica, una corsa in diagonale, da destra a sinistra, per disegnare la strada attraverso la metà campo verde, un'ultima accelerazione bruciante appena intravista la linea dell'area di rigore, e una vaselina tanto dolce quanto letale, un lampo di luce bianca, di quelli che durano un istante ma rimangono tatuati per l'eternità negli occhi.

Il mito di Ariel Ortega si alimenta di epifanie. In campo era apparizione prima che apparenza. Quando era così in stato di grazia, non si esibiva in giocate: metteva in scena momenti iconici. A doverne scegliere due più significativi si fa fatica, ma vale la pena fare un tentativo.

Il primo: bisogna tornare al 30 Aprile del 1994. Giorno di Superclásico. Giorno trionfale e tragico allo stesso tempo, per la storia e la gente del River Plate.

Si gioca alla Bombonera, dove “la Banda” non vince da otto anni, dall'indimenticabile derby del pallone arancione, deciso dal Beto Alonso. Di fronte c'è il Boca di Menotti, duro e brillante. E c'è il solito ambiente infernale del colosseo xenéize, nel quale Passarella – al suo ultimo Superclásico prima di ereditare la Nazionale dal “Coco” Basile – entra con un vistoso asciugamano bianco posto sul capo, per ripararsi dagli sputi che piovono a cascate dalla tribuna azul y oro.

Il centro dell'attenzione sono sempre le iniziative del numero 7 biancorosso. Orteguita, appena ventenne, che sbuca a destra e a sinistra, dando palloni in serie al suo partner d'attacco, che di anni ne ha uno in meno e mostra molto nervosismo: è la prima volta che Hernan Jorge Crespo pesta il prato della Bombonera, e le sue porte sembrano stregate. Quando però i ruoli si invertono, arriva l'apoteosi: quattordicesimo del secondo tempo, “Valdanito” non si perde d'animo, lavora di spada e di fioretto, serve una palla filtrante per la corsa di Ortega che col destro fulmina Navarro Montoya sul primo palo.

Finirà 0-2, perché appena prima dei tre fischi Crespo troverà il modo di piazzare anche il suo timbro, raccogliendo con un tap-in di testa da mezzo metro il pallone rimpallato dalla traversa. Purtroppo finisce anche con una sparatoria nella quale perdono la vita due tifosi riverplatensi. Trionfo e tragedia.

La notte del 26 Giugno 1996 fu invece solo una notte di gloria estatica. La finale della Libertadores 1996 contro l'America de Cali è l'appuntamento cruciale per una generazione intera di Millonarios: a dieci anni di distanza dalla prima e fin lì unica conquista, il River ha senza dubbio la miglior squadra d'America.

Ci sono sempre Crespo e Ortega, oltre che punti di riferimento come Astrada, Hernán Díaz e Cedrés. Ma ci sono anche Francescoli, il “Mono” Burgos e giovani in rampa di lancio come Sorín, Almeyda e Gallardo. È la squadra di Ramon Diaz, anche se messa giù così non va bene: il “Pelado” ha meriti enormi, però i suoi modi sono particolari e non sempre trasparenti, ragion per cui c'è tensione nel gruppo.

L'andata in Colombia è finita 1-0, il River deve rimontare e il suo popolo è pronto a spingere con tutta la propria forza. L'allenatore però ha intenzione di giocarsi il ritorno in contropiede. Non è possibile. Quindi, la squadra – poco prima di prendere la via del tunnel – gli chiede di uscire dallo spogliatoio. Parla il trentatreenne Enzo Francescoli: il “Principe” dice alla sua truppa che per lui è l'ultima possibilità di conquistare la Copa Libertadores. Che bisogna prendere in mano la partita, attaccare e vincere.

Francescoli entra in campo col pallone sotto braccio, alla testa del gruppo. Ma il primo, forte segnale lo dà il Burrito, che subito dopo il fischio iniziale prende palla e produce uno slalom speciale seminando tutta la mediana dell'America. Poi la perde, ma la dimostrazione è subito chiara e lì, dopo soli trenta secondi di gioco, finiscono già i sogni colombiani: quella sarebbe stata una notte solo per il River. Più tardi Almeyda da centrocampo disegna un passaggio verso destra. Ortega scappa, come faceva da ragazzino dal pensionato. Guarda una sola volta, poi fa un cross perfetto. Una traiettoria che sembra calcolata al millimetro per sfiorare le punte dei piedi dei difensori colombiani e impattare l'interno del destro di Crespo, libero al centro di un'area di rigore ricoperta di papelitos.

Da lì in poi è solo show, solo storia. Il definitivo 2-0 arriva nel secondo tempo, quando Ortega decide di autolanciarsi verso la bandierina del calcio d'angolo, provocando un'uscita disperata del portiere Cordoba che sbaglia il rilancio e regala palla ad Escudero, per il quale è quasi una formalità rilasciare il traversone che passa dalla testa di Hernàn Crespo e regala al River Plate la sua seconda Copa Libertadores. Ortega ha ventidue anni ed è in paradiso.

I suoi giorni al River però sono contati: saluta tutti il 28 Febbraio del 1997, in un 4-0 all'Union di Santa Fé. La destinazione è Valencia. Un altro viaggio verso un altro mondo.

Se l'impatto con la grande Buenos Aires era stato problematico, quello con l'Europa è addirittura un trauma. E quando c'è qualcosa che non va, la medicina è sempre la stessa.

A guidare il Valencia, in cui si trasferirà successivamente, c'è Claudio Ranieri: troppe differenze, sotto tutti i punti di vista. Da una parte, quella del “Burrito”, c'è lo spirito del calcio da potrero, fin troppo libero, chiuso a stento nella figura di un ventitreenne per il quale i limiti della professionalità, del sacrificio e della pazienza faticano a contenere la necessità di scatenare senza vincoli (né garanzie) il talento e l'amore per il calcio.

Dall'altra i dogmi di un allenatore poco incline a modificare i propri metodi per adattarli a un giocatore il cui unico punto fermo era uscire da ogni schema. Tra le due posizioni, una distanza incolmabile.

I due insomma non si piacciono, e forse non ci provano neanche. Quel che provano invece a fare è una rissa da saloon, il giorno in cui "Superdeporte", il principale quotidiano sportivo valenciano, stampa in prima pagina il titolo a caratteri cubitali «Ortega: Ranieri è un bugiardo». Il Burrito lo aveva detto senza pensarci a un giornalista locale, lamentando il fatto di essersi ritrovato fuori dalla formazione titolare dopo una settimana intera di rassicurazioni. A quel punto lo scontro diventa di principio: nonostante i risultati negativi, la mediazione tentata dal Piojo Lopez e la richiesta plenaria – da parte di società, stampa e tifosi – di puntare stabilmente sul talento argentino. Ranieri, però, non cede. Ortega allora se ne va, a Genova. Mestamente e senza aver impresso la propria traccia nel calcio spagnolo.

Una piccola impronta, comunque, è riuscito a lasciarla. Per esempio, ha impresso la svolta a questa gara leggendaria per il Valencia, che ha da poco festeggiato il ventennale: una remuntada storica in casa del Barça, che era avanti per 3-0. Il gol all’ultimo respiro è del “Burrito”.

Prima dell'Italia, c'è però una tappa fondamentale: il secondo dei suoi tre Mondiali. Quello più importante. Il primo – USA '94 – doveva essere quello dell'investitura da parte di Diego Armando Maradona, che da compagno era pronto a dargli in eredità il testimone. Ma ricordate bene come finì, per Maradona, per l'Argentina e di conseguenza anche per Ortega.

L'ultimo, in Corea e Giappone, si è rivelato uno dei paradossi più incredibili della storia del fútbol albiceleste: una delle Nazionali migliori e più accreditate, uno dei tecnici più iconici e osannati, e un'uscita sconcertante nella fase a gironi, una cosa per cui Don Marcelo Bielsa non riesce a trovare pace ancora oggi.

Ma è il secondo, in Francia, che è stato il vero Mondiale di Ortega. Anche perché, a guidare l'Argentina c'era Passarella. Il Kaiser, nonostante le difficoltà valenciane, non lo aveva mai tolto dal centro del progetto: a lui aveva assegnato il 10 di Diego e, con lui, andò a giocarsi il Campionato del Mondo. Che iniziò a mille per il Burrito: assist a Batistuta nel sofferto 1-0 dell'esordio contro il Giappone, doppietta sfolgorante e altro assist per il Bati nello show contro la Giamaica. Poi palla vincente anche a Pineda nell'1-0 sulla Croazia, a conclusione di un girone perfetto per l'Argentina e per il suo numero 10, che in quei giorni sembrava davvero il nuovo Maradona. Poi l'Inghilterra, in una partita che è entrata di diritto nel libro mastro del calcio argentino: quella del golazo di Owen, dell'espulsione di Beckham, del 2-2 del “Pupi” Zanetti su di uno schema da calcio piazzato marchio di fabbrica di Passarella, dei rigori parati da Roa a Ince e Batty. Dell'ennesima vendetta sugli inglesi.

Di un Ortega che, pur senza entrare nel tabellino, fece ballare a tutta la Nazionale dei Tre Leoni un continuo e feroce tango. Fu una grande storia per il Burrito, il Mondiale del '98. Una storia con un epilogo triste: il quarto di finale con l'Olanda, in cui fu espulso per una testata a Van der Saar all'87esimo. Tre minuti prima del capolavoro di Bergkamp, arrivato a spegnere ancora una volta i sogni argentini.

Foto di Mark Standten / Getty Images.

In Italia

Genova sembra un buon posto per Ortega. C'è il mare e c'è un grande porto, come a Buenos Aires. C'è gente che ha diversi punti di contatto con gli argentini, anche se li chiamano “xenéizes”, e lui preferisce non pensarci. Alla Sampdoria, Ortega regala i pochi attimi di entusiasmo in un anno nero: la punizione con la Juve, la serie di gambetas all'Empoli, e soprattutto la vaselina “antifisica” contro l'Inter, che rimane il suo più grande capolavoro italiano, oltre che uno dei gol più belli che si ricordino in Serie A.

Un gol che è anche un manifesto della sua semplicità, del suo essere senza filtri, del suo fregarsene delle conseguenze: esultò, come tante altre volte, togliendosi la maglia. Solo che era diffidato. Venne ammonito e dovette saltare lo scontro salvezza col Vicenza del turno successivo: la Sampdoria perse, avviandosi mestamente verso una retrocessione tutt'altro che preventivata e molto difficile da accettare, quando hai una coppia d'attacco come quella formata da Ortega e Montella.

Ortega, a Genova come da tante altre parti, ha giocato a un gran livello. Quando giocava, ovviamente, perché i pesi sulle sue spalle e sulla sua psiche cominciavano ad essere tanti. E la notte, con il suo buio, è l'unico rifugio dove chiunque si può nascondere e dove si può fingere qualsiasi cosa. Perché fingere è sempre stato l'obiettivo numero uno di Ariel Arnaldo Ortega. Sul campo, dribblando e stupendo, ci è riuscito. Nella vita no. Non ce l'ha mai fatta. Si è sempre visto quel che è. Per molti, un motivo in più per amarlo.

L'anno dopo ci prova a Parma, dove c'è il suo vecchio socio Hernan Crespo e un tecnico con un calcio offensivo come Malesani, che avrebbe la sensibilità e le visioni per poterlo esaltare. Ma Ortega è già dentro un tunnel. Nel dicembre del 1998 era stato arrestato a Genova perché, completamente ubriaco, si era reso protagonista di una rissa fuori da un locale notturno. Ortega non sta più bene, beve e soffre la nostalgia, decide quindi di scappare ancora e di tornare a casa, al River.

Il ritorno

Ortega sbaglia tantissime cose ma sa che solo giocando per la sua gente può essere se stesso. L’ambiente del River è però un vero e proprio mondo, uno dei più esaltanti e letterari mondi presenti nell'universo del calcio. Ed esserne la massima figura ti porta dritto nell'epica.

Nell'epopea del “Burrito”, il biennio 2000-2002 è senza dubbio il migliore. Torna al River, dove è allo stesso tempo prima voce e prima chioccia per una nuova generazione dorata. Svezza talenti come Saviola, Aimar, D'Alessandro e Cavenaghi. È protagonista di uno dei Superclásicos più ricordati dal popolo millonario nei tempi recenti: il 3-0 del Marzo 2002 alla Bombonera. Quello del “Burrito” è un vero e proprio recital: domina il campo, spacca la partita ogni volta che tocca palla, batte la punizione da cui ha origine l'1-0 di Cambiasso, smarca Rojas per la celeberrima “vaselina” del trionfo e in generale disegna calcio lisergico, fondendosi con D'Alessandro per novanta minuti.

Ortega in quel momento è davvero felice: è la massima figura del calcio argentino, ha la Nazione attaccata ai suoi piedi e torna ad essere campione col suo River, in un Clausura 2002 che sembra tanto l'antipasto della grande abbuffata.

Invece non sarà che l'inizio dell'estate della sua fine. Lo attende il Mondiale della consacrazione definitiva, per certi versi della rivincita: lo stecca, come e peggio di tutti gli altri dell’Albiceleste. Richiamato dalle necessità economiche, deve emigrare di nuovo. Lontanissimo, stavolta, tanto fisicamente quanto concettualmente, dai suoi posti e dalla sua idea di calcio. Va in Turchia, dove ad attenderlo ci sono i milioni del Fenerbahce ma anche il più grande disastro della sua vita. Fin da quando mette piede per la prima volta a Istanbul, capisce che non è un posto per lui. La lingua, il cibo, la cultura così diversa dalla sua sono una tortura continua. Chiaramente scappa, ma lo fa nel modo peggiore possibile: a Febbraio del 2003, dopo una partita giocata con la Nazionale ad Amsterdam, torna a Buenos Aires rompendo unilateralmente il vincolo con il Fenerbahce, che reagisce denunciandolo alla FIFA. La risposta è una multa da oltre 10 milioni di dollari e una sospensione dall’attività professionistica. Sommerso dai debiti e senza calcio, a ventinove anni Ariel Arnaldo Ortega è semplicemente finito.

L'uomo che gli dà l'ennesima chance è un'altra ex icona del River: il “Tolo”, Américo Gallego. Ortega è perso, non gioca da oltre un anno ed è praticamente in bancarotta, ma Gallego convince il Newell's Old Boys, storica società di Rosario all'affannosa ricerca di una resurrezione dopo oltre dieci anni senza gloria, che il Burrito può essere il leader giusto. Il club fa uno sforzo non indifferente per sistemare le cose con il Fenerbahce e con la FIFA e nell'agosto del 2004 Ariel è di nuovo in pista. I piedi sono sempre gli stessi, la testa anche. Ma è cambiato il suo volto. È cambiata l'espressione. Ortega è di nuovo vivo, ma non è felice. Gioca, segna e vince, regalando alla hinchada leprosa domeniche di calcio fantastico in società con un grande e sottovalutato architetto di gioco come Fernando Belluschi. Il culmine è rappresentato dal titolo d'Apertura del 2004, un successo che la gente del Newell's attendeva da dodici anni. Però è anche visibilmente incattivito, sembra covare rabbia, contro non si sa chi. I sorrisi sono pochi e i gesti di stizza tanti. Uno anche dopo un gol contro il “suo” River. Anche se, parlando delle tre reti segnate in altrettante partite contro la squadra del suo cuore, quella da ricordare è senza dubbio questa. In due tentativi, che sembra una metafora della sua vita.

In due anni con il Newell's Ortega dimostra di essere ancora un calciatore. Di potersi ancora permettere un gran finale di carriera. Perché il suo pensiero fisso è sempre quello: le tribune del Monumental.

Ce la fa, a tornarci: nel 2006 è di nuovo al River, ma non riesce più a essere felice come un tempo. Forse è il segnale che neanche più il pallone riesce a colmare il suo vuoto interiore, come solo l'alcol, invece, sa fare. Non gli resta che lasciare da parte l’orgoglio e chiede aiuto. Lo fa pubblicamente, nell'ottobre del 2006, dopo una mesta mezz’ora di gioco contro il Belgrano. Ammette di essere alcolizzato e depresso. Da lì è tutto un susseguirsi di trattamenti iniziati e non portati a termine.

Il suo primo ritorno, un mese dopo l'ammissione della sua dipendenza, è pura letteratura: quel Clásico col San Lorenzo, quella vaselina raccontata con tutto l'amore del mondo da Costa Febre. E poi ancora su e giù, come un ottovolante sbronzo. Impegni e tradimenti. Persino con Passarella, l'uomo che ha più amato e che più lo ha amato nel mondo del calcio. Che gli ha ridato il River, per l’ennesima volta, ma che a sua volta è stato mollato, come quando – durante la pre-stagione del 2008, all'indomani di una promettente prestazione in amichevole – Ortega scappò dal ritiro di Mar del Plata e fu di nuovo costretto a due settimane di riabilitazione.

Anche con Simeone il rapporto è stato ondivago. Il tecnico gli ha messo al braccio la fascia di capitano, e lui, a trentaquattro anni, l’ha ripagato vincendo il suo ultimo titolo riverplatense. Poi, però, nel 2009 ha avuto l'ennesimo crollo esistenziale, culminato nella fuga a Mendoza, all'Independiente Rivadavia, squadra di seconda divisione che gli offriva un contratto a patto che seguisse un trattamento disintossicante. Nove mesi di esilio, in cui non tutto è andato benissimo ma nei quali ha ritrovato la motivazione e la condizione per tornare a mettersi la maglia con la banda, nel 2010.

Ormai, però, la situazione è diventata ingestibile. Nel febbraio del 2010 arriva un’altra volta tardi all'allenamento e completamente ubriaco: il tecnico Leo Astrada e il vice Hernan Díaz – suoi ex compagni nel grande River di inizio anni '90 - lo fanno fuori dopo averle provate tutte.

Un paio di mesi dopo, il nuovo allenatore Cappa lo richiama perché ad essere in stato pietoso non è solo Ortega ma anche il suo River, dicendo – grande uomo Miguel Angel Cappa – che la squadra aveva bisogno di grandi giocatori, e che lui era il più grande fra quelli disponibili. E infatti il “Burrito” dà la svolta, regalando le ultime scintille di luce prima del grande buio che porterà i Millonarios fino alla B Nacional.

A maggio gioca in Nazionale la sua ultima partita, contro Haiti, in un'amichevole in cui il CT Maradona voleva testare le alternative del campionato locale per andare al Mondiale in Sudafrica: non vestiva l'Albiceleste da sette anni, gioca un'ora carica di stile e nostalgia. Ortega mostra Ortega alla sua Nazione per l'ultima volta, poi esce di scena. Con quel sorriso dolce e depresso, picaresco e infantile. Perso dietro al sogno di un ultimo Mondiale che non potrà appartenergli e la consapevolezza che tanto fa niente, che tanto ci berrà su.

Esce di scena lì, salvo tornarci solo per l'addio ufficiale. Coi capelli brizzolati e la dentatura segnata dalle dipendenze, ma di nuovo con quel sorriso dimenticato da tempo.

Un metro e settanta per sessanquattro chili di disastro. Ma anche un cuore grande e buono, oltre che il culto della memoria. Ve lo confermerà qualunque dei suoi compagni nelle giovanili del River Plate, quelli che con lui sono cresciuti e che lo hanno salutato presto perché il Burrito era più forte. Molto più forte. E quando loro ancora si affannavano per cercare un posto nella Reserva, lui era già titolare in prima squadra. Con un ingaggio milionario e sponsor tecnici a cui chiedere qualsiasi cosa. Cose tipo cartoni pieni di scarpe e materiale tecnico, che puntualmente regalava ai suoi ex compagni. Idem quando gli è capitato di seguire i più profondi e attrezzati programmi di riabilitazione: tutti lo amavano, regalava qualsiasi cosa potesse regalare, incantava giocando a calcio. Seguiva anche le regole. Finché poteva, poi smetteva e tornava a nascondersi nel suo baratro personale. Quello in cui sprofondava per tenerci fuori gli altri. E spesso, questi altri, erano i suoi tifosi.

Ariel Arnaldo Ortega tocca nel profondo, anche solo per un attimo, come il refolo di aria prodotto da un dribbling ben fatto. Ariel Arnaldo Ortega è un uomo che non è mai riuscito a trovare la felicità, ma che non ha mai smesso di darne al suo adorato River Plate. E – in qualche involontario modo – anche a tutti quelli che non hanno potuto fare a meno di amarlo.

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