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Giuseppe Pastore
Arianna Fontana, l'atleta più olimpica d'Italia
17 feb 2022
17 feb 2022
Tre medaglie a Pechino che arricchiscono una carriera di vittorie.
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Giuseppe Pastore
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Pochi sport sono più violenti e ossimorici dello short track: uno sport di gomitate e piccole canagliate che si combatte sul contesto più algido possibile, una lastra di ghiaccio, velocità e tecnologia pura che però devono scendere a patti dell'imponderabile, reso ancora più crudele dall'insopportabile casualità di un contatto da niente o una scivolata su un solco scavato da un pattino precedente che in mezzo secondo può mandare in fumo quattro anni di lavoro, dannazione di tutti i cosiddetti sport minori.

 

In tutto questo inferno di ghiaccio troneggia da quindici anni Arianna Fontana. La donna più medagliata della storia olimpica italiana: undici podi in cinque Olimpiadi, uno in più di Stefania Belmondo. Il secondo atleta italiano senza distinzioni di sesso dopo il sommo Edoardo Mangiarotti, che salì tredici volte sul podio tra il 1936 e il 1960, più resistente anche di una guerra mondiale, gareggiando contemporaneamente a spada e a fioretto. L'essere umano più medagliato della storia dello short track. Il quinto essere umano più medagliato della storia delle Olimpiadi Invernali, e il secondo nato fuori dalla Norvegia: davanti a lei solo leggende viventi come Marit Bjorgen (sci di fondo), Ole Einar Bjorndalen (biathlon), Ireen Wüst (pattinaggio di velocità, Olanda) e Bjorn Daehlie (sci di fondo). Eppure il mainstream – ovvero, tutti noi – di Arianna Fontana sa pochissimo. Forse perché non è imprigionabile in nessuno degli stereotipi che hanno felicemente incasellato le altre campionissime: la divina vanità di Federica Pellegrini, il perfezionismo da iena di Valentina Vezzali, la soave tenacia di Tania Cagnotto. Le sue prodezze attraversano i nostri limitati orizzonti come una cometa, mai più di cinque minuti ogni quattro anni. La sua gara preferita, i 500 metri, si esaurisce in quaranta secondi di apnea in cui la vediamo inguainata in una tuta para-spaziale, bardata, occhialata, incappucciata, saetta bionda a 50 all'ora su un budello di 111 metri. Troppo poco per individuarne un'umanità. E qui finisce il percepito e inizia il sommerso di Arianna Fontana, personaggio magnifico perché poco consumato dai giornali e dai luoghi comuni, contenitore di infiniti rischi, rilanci, sfide e contraddizioni a dispetto del suo metro e cinquantaquattro d'altezza.

 

https://www.youtube.com/watch?v=gQcv70sEEY4

 

Per una prima suggestione viene in mente il rock anni Novanta grintoso e incazzoso di Carmen Consoli, “Besame Giuda”, che per lei, cresciuta a Eminem, Limp Bizkit e Green Day, suonerebbe fin troppo morbido. Bisogna partire dalla definizione che Arianna dà dello sport che per oltre due terzi della sua esistenza è perfettamente sovrapponibile alla sua vita: «Anche se tanti pensano che lo short track sia uno sport da maschi perché è un po' fisico, è sicuramente una disciplina femminile e ha tante altre qualità che noi donne possediamo e sappiamo sfruttare bene: soprattutto la tattica». Lo spettatore profano di short track – ovvero, tutti noi – avrà alzato il sopracciglio di fronte al sorpasso sopraffino con cui ha infilzato all'interno l'olandese Suzanne Schulting al penultimo giro della finale dei 500 metri di Pechino. Un gioco di prestigio al silenziatore, una finta, un gioco di gambe, uno scarto, un'accelerazione diventati parte del DNA. Guardiamo Arianna Fontana esibire il suo repertorio fatto di logica ed essenzialità – è una che cade molto poco, molto meno delle altre – e pensiamo a un film di David Cronenberg in cui l'umano si fonde alla macchina e alla tecnologia per mettere in piedi intelligenze artificiali ad altissimo voltaggio. Ma ancora non basta, sono solo scalpellate in superficie, perché sempre si torna a monte: qualunque sport seguiate, qualunque campione adoriate, non c'è dubbio che se rimani ai vertici mondiali della tua disciplina per quindici anni è soprattutto una questione di testa.

 

«Non ho pensato», ha detto Dorothea Wierer descrivendo i suoi dieci secondi perfetti all'ultimo poligono dello sprint di biathlon, che le ha dato il primo sospirato bronzo individuale in carriera. Il pensiero è nemico dell'azione e dunque è nemico dell'atleta, ma qui dobbiamo rifugiarci nel

più puro: il pensiero non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare. Com'è profondo il ghiaccio? In questo Arianna Fontana va in controtendenza: proclama da sempre una solidità mentale invidiabile per i comuni mortali. Non ha mai avuto un mental coach; il suo scarno "Team A", composto da gente con cui condivide l'iniziale del nome, è fatto dal marito-allenatore Anthony LoBello e dal fisioterapista Alekos Zugnoni. «Solo una volta ho chiacchierato con una psicologa: mi ha risposto che non sapeva come aiutarmi. Non mi sono mai rivolta a uno psicologo sportivo perché mi conosco: vivo in bianco e nero. O sono serena e tranquilla o sono incazzata nera. Nessuna via di mezzo. E questo determina le mie prestazioni». Arianna riesce nel miracolo sportivo di semplificare i suoi pensieri mentre gareggia, azzerare il mondo fuori, comandare stile Alexa il famoso interruttore mentale che per centinaia di suoi colleghi è come il Sacro Graal. I pensieri tornano a vorticare poco prima o poco dopo e mai edizione olimpica lo ha dimostrato come Pechino. Nel 2018, dopo il primo oro di Pyongchang, aveva esibito sul podio un sorrisone sereno e soddisfatto per essere arrivata là dove si sentiva destinata ad arrivare fin da bambina. Sul secondo dei suoi tre podi di Pechino non ha potuto impedire ai lacrimoni di solcarle le guance come lame sul ghiaccio, in coincidenza con le prime note dell'inno di un Paese che continua testardamente ad amare (per gareggiare per l'Italia ha rifiutato in dieci anni le offerte della Russia e degli Stati Uniti), nonostante le abbiano messo più di una volta i bastoni tra i pattini. «Sono lacrime non soltanto di gioia», ha osservato il telecronista RAI Stefano Bizzotto con il timbro di chi sa tutta la storia e la condivide.

 

 

https://youtu.be/W2Cl9g43ETc

La prima medaglia olimpica, il bronzo nella staffetta a Torino 2006 vinto insieme a Marta Capurso, Cecilia Maffei, Katia Zini e Mara Zini: la centesima medaglia italiana nella storia delle Olimpiadi Invernali.


 

La storia di Arianna Fontana si lega indissolubilmente da circa dieci anni al pattinatore statunitense Anthony LoBello, che per amore di Arianna ha lasciato gli States e Team USA per trasferirsi in Italia, prendere la cittadinanza italiana, sposarla (il 31 maggio 2014) e diventare un allenatore senza curriculum, eppure l'uomo perfetto per la più grande atleta della storia dello sport italiano (ripetiamolo, ogni tanto). I loro sguardi si sono incrociati per la prima volta ai Giochi di Torino 2006, quando Arianna era una ragazzina di 15 anni, non parlava una parola d'inglese e in più era fidanzata con un tale Francesco. Si sono ritrovati in giro per il mondo, in Corea come in Olanda, mentre Arianna nel frattempo era fidanzata con il compagno di Nazionale Roberto Serra, relazione destinata a finire pochi mesi dopo i Giochi di Vancouver 2010. Il terzo è quello giusto e Arianna, che ama la velocità anche nel mondo reale, si fa subito convincere a bruciare le tappe. «È successo mentre eravamo in vacanza in Alabama, a casa della mia famiglia. Arianna stava cucinando per tutti noi: le ho detto che quando trovi la persona giusta non vuoi aspettare per passare il resto della tua vita con lei, così mi sono inginocchiato e le ho chiesto di sposarmi».

 

 

Le guide federali cambiano ogni due anni e Arianna, che pure qualche diritto acquisito ce l'ha, non vede cosa ci sia di male a farsi seguire da un tecnico per cui nutre assoluta fiducia. La freddezza della Federazione sarà tediosa compagna di viaggio fino a oggi. Non solo la sua superiorità tecnica, ma anche lo spirito la spingono a scelte in assoluta libertà: un lungo viaggio americano con la dolce metà, poi un periodo sabbatico dopo Pyongchang, infine l'esilio volontario a Budapest – dopo un consulto con altri giganti dello sport italiano come Elia Viviani e Federica Pellegrini – per uscire dal cul-de-sac di una Federazione che a suo dire aveva intrapreso la strada del sabotaggio silenzioso. La frase più sconcertante della conferenza post-oro di Arianna è il riferimento ai colleghi maschi che le tiravano oggetti tra i pattini per farla cadere in allenamento. Un'usanza non così insolita nello short track, evidentemente, visto che vi ha fatto ricorso anche la cinese Fan Kexin ai danni della canadese Alyson Charles nei 500 proprio a Pechino:

che delimitano il margine della pista tentando di passare inosservata (non c'è riuscita).

 

https://www.youtube.com/watch?v=m08_wpRtaYk&t=244s

Il primo argento, nei 500 metri di Sochi 2014.


 

Julio Velasco, che qualche giorno fa ha compiuto 70 anni, cita spesso una sentenza dell'ex fisioterapista della Nazionale Umberto Cominotto: «In Italia, quando uno ha successo, invece di ispirarsi a lui ci si impegna a buttarlo giù». È la prima volta in dieci anni che Arianna è scesa così tanto nei dettagli, ricevendo come risposta un silenzio di cortesia dei vertici federali, che gradirebbero lavare i panni sporchi in famiglia. Sa evidentemente di avere le spalle coperte dal CONI, che vuole fare di lei una delle testimonial dei Giochi di Milano-Cortina 2026, lontanissimi. Nonostante tutto sopravvive l'amore per i pattini, spuntato dal nulla a quattro anni in una famiglia senza grosse tracce di passione sportiva, in cui il primo allenatore suggerì alla mamma come primo consiglio: «Trovatele un altro sport». La persistenza di Arianna Fontana si nutre di altre brutte frasi da segnare sul quaderno come Uma Thurman con la lista di Kill Bill.  Di recente le avrebbero detto “Tu sei il passato”, come ha scritto in un articolo-confessione su

in cui ha raccontato gli ultimi due anni molto difficili a livello umano. La scadenza spostata in avanti, un procrastinare che però non è paura del vuoto come accade a tanti altri campioni incapaci di smettere: nel 2006 si era data solo altre due Olimpiadi, nel 2010 aveva ribadito di voler smettere a Sochi, dopo Sochi in effetti ha vacillato ma ha trovato nuove motivazioni nell'alleanza tecnica e sentimentale con il marito. Un altro giro, come quel film danese di grandi bevute che Arianna, da valtellinese doc, non disdegna affatto. Anche se lei preferisce gli horror: in particolare “Shining”, “Rec” e tutta la saga di Chucky la bambola assassina. E allora ci sentiamo di consigliarle “Lasciami entrare”, stupendo horror psicologico e anti-climatico dello svedese Tomas Alfredson che sembra la metafora di una finale di short track: lunghi secondi di tensione e poi chissà se succede davvero qualcosa. E persino il titolo lascia intravedere l'imminenza di un sorpasso.

 

https://www.youtube.com/watch?v=FFhmvyNr-i4&t=120s

Il bronzo di Sochi 2014 nei 1500 metri.


 

Tante volte Arianna, la donna più olimpica della storia d'Italia, ha raccontato del proprio braciere interiore che le arde dentro senza sosta. Fioccano le leggende: a 6 anni, infuriata per un secondo posto ingiusto in una gara di pattinaggio a rotelle, avrebbe scaraventato a terra il gelato che rappresentava il premio di consolazione. «Dai cinque anni fino ai trenta passati, ho sempre saputo di voler arrivare, e non ho mai iniziato una gara senza sentire una voce nella testa ripetermi: devi vincere». Il “cosa” era chiaro ben prima del “come”, ma la ricerca di un centro di gravità permanente l'ha fatta a lungo entrare in rotta di collisione con il resto del mondo. A Vancouver, dopo aver vinto il suo primo bronzo individuale nei 500, disertò la staffetta e i compagni meno celebrati dissero pubblicamente che si era montata la testa. Lei aprì il fuoco a mezzo stampa: «Hanno voluto che mangiassimo tutti insieme ma non siamo mai stati un gruppo. Queste persone non significano nulla nella mia vita, l'unica cosa in comune è che pattiniamo insieme. Non significano nulla e per questo non li ho ringraziati dopo aver vinto la medaglia in tv o sui giornali». Aveva 19 anni. Non sembrerebbe l'atteggiamento giusto per un'atleta che ha intenzione di dominare per oltre un decennio. O forse sì.

 

https://youtu.be/UL4fmp1Yq_I

L'oro nei 500 metri a Pyongchang 2018.


 

Con i suoi successi olimpici, europei e mondiali si è comprata la facoltà di potersi tenere lontana dalle baruffe di spogliatoio che fanno parte della vita quotidiana di tante discipline, dalla scherma al nuoto, in cui si è costretti a lunghi collegiali che favoriscono un clima da Grande Fratello. Arianna Fontana invece ha assecondato ogni volta che ha potuto il suo istinto alla fuga e all'individualità, e nemmeno l'adesione alle Fiamme Gialle – provvidenziale per chi vive di una disciplina così poco conosciuta – ha smorzato la passione per i tatuaggi. Sulla schiena ha ritratta una manta, una specie di razza con cui ha avuto un tête-à-tête subacqueo che non ha mai dimenticato. Sul braccio destro è disegnato un giuét, animale mitologico dei monti della Valtellina, metà serpente metà lucertola. «Era il protagonista della storia che le nonne raccontavano per non far andare i bambini nel bosco», ha dichiarato in un'intervista a Elle. «Se lo vedevi, potevi addormentarti e non svegliarti mai più. Ho pensato che magari avrebbe fatto addormentare anche le mie avversarie». E dalle Fiamme Gialle c'è uscita due anni fa, da quando insieme ad Anthony ha proseguito nella convinzione di fare a modo suo.

 

https://www.youtube.com/watch?v=sOr7AnXagAw

Il bronzo nei 1000 metri a Pyongchang 2018.


 

Altri Paesi avrebbero ben altra considerazione della loro atleta più vincente di sempre. Non che la cosa sembri turbare troppo i sonni di Arianna, che per i fan su Instagram è Arya come Arya Stark, l'audace e vendicativa eroina del Trono di Spade, modello di emancipazione femminile per le nuove generazioni. Per altri versi, per versatilità e modernità non solo tecnologica, potrebbe ricordare Lisbeth Salander, la geniale e solitaria hacker protagonista della serie “Millennium” del romanziere svedese Stieg Larsson. Sono passati gli anni in cui si preoccupava delle pubbliche relazioni con i compagni di squadra, crucciandosi del fatto che la chiamassero “la principessa sul pisello”.  A quasi 32 anni (li compirà ad aprile), in doppia cifra di medaglie olimpiche, ha raggiunto lo status dell'atleta che trova nuove motivazioni soltanto nell'appuntamento a cinque cerchi, là dove la competizione e la tensione raggiungono lo zenit.

 

 

Ha una visione limpidissima delle cose importanti e di come mantenere l'equilibrio e la forza mentale che tutte le atlete le invidiano. Ormai ha sopportato ogni pressione, compresa quella di reggere la bandiera, per lei un gesto eroico da cui fu folgorata sin da bambina, alla prima Olimpiade che vide in tv. Un ruolo che ha minato psicologicamente tante colleghe, a cominciare dall'inesperta Carolina Kostner che a Torino ne uscì a pezzi e ci mise qualche anno a riprendersi dalla delusione: ricordo qualche giorno dopo una squallida parodia a Quelli che il Calcio, da parte di un'imitatrice che non faceva altro che cadere per terra in continuazione. Ma anche la portabandiera di Pechino, la campionessa uscente Michela Moioli, poi ha buttato via malamente la gara individuale di snowboard cross: invece Arianna, alfiera a Pyongchang 2018, ha vinto l'oro. Ha vinto in tutti i modi: di pazienza, come la sua prima medaglia individuale a Vancouver, bronzo dopo 500 metri tutti trascorsi incollata al fondoschiena della canadese St. Gelais senza mai trovare il tempo e lo spazio per il sorpasso. Di furbizia, come il già citato magistrale sorpasso alla Schulting nell'oro di Pechino. Di fortuna e sfortuna insieme, come l'argento di Sochi in cui finì contro i materassi dopo una caduta innescata dalla britannica Christie, ma ebbe la prontezza di rialzarsi per prima e andare a prendersi il podio. Di strategia, come nello stupendo oro nei 500 di Pyongchang, in testa fin dalla prima curva resistendo fino all'ultimo centimetro all'assalto della coreana Choi sospinta da dodicimila tifosi sugli spalti. Al fotofinish per tre millesimi sulla Schulting come nella finale dei 1500 di Pechino.

 

È pronta a tutto, nulla la spaventa. Non è mai stata così bene fisicamente come in queste ultime Olimpiadi. È possibile che tra quattro anni starà ancora meglio, pur volendo finalmente dare ascolto a un'altra vocina interiore che le suggerisce da tempo la gioia, totalmente diversa da quelle sperimentate nei Palaghiacci, che si prova nel diventare mamma. Non sarà un problema. Sempre in movimento, una pallina impazzita dalla forza cinetica devastante, dalla casa sull'albero nel villino di famiglia a Polaggia, frazione di Berbenno di Valtellina (Sondrio), fino ai budelli di tre continenti diversi. Aprire e chiudere la carriera olimpica in casa è un'ipotesi tecnicamente possibile per alcuni selezionati atleti, dal collega Confortola allo snowboardista Fischnaller, da Joel Retornaz (curling) ad Alessandro Pittin (combinata nordica). Lei, ancora una volta, sarebbe l'unica donna. Moschettiera infinita, degna di un romanzo di Dumas: vent'anni dopo. A 15 anni, mentre affrontava per la prima volta il ghiaccio olimpico al PalaVela di Torino, nell'ambiente bisbigliavano che fosse “la nuova Marinella Canclini”, gloria locale di Bormio, oro in staffetta ai Mondiali dell'Aia 1996, prima italiana in grado di vincere una tappa di Coppa del Mondo di short track. «E sapete cosa rispondevo io già allora? Che ero Arianna Fontana».

 

 

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