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Argentina vs Brasile è soprattutto Messi vs Neymar
10 lug 2021
Mai come questa volta i due campioni sono al centro della scena.
(articolo)
7 min
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Se sette anni (e due giorni) fa la slavina tedesca non si fosse abbattuta sul Minas Gerais radendo al suolo ambizioni ed eradicando sogni, proprio quando il Mundial brasiliano sembrava il pretesto perfetto per riportare a casa una delle rivalità più marcate al mondo tra nazionali, oggi staremmo parlando di una potenziale rivincita.

La finale di questa edizione stramba e drammaticamente figlia dei tempi della Copa América, che si giocherà nella notte e metterà di fronte Brasile e Argentina, invece, sarà semplicemente la finale annunciata che non c’è mai stata.

Il Maracanã, senza pubblico, scheletro di una moltitudine di assenze, sarà paradossalmente il palcoscenico di una sfida che negli ultimi tre anni si è fatta itinerante, epitome di un entertainment di facile presa e perciò esportabile: dopo le sfide di Sydney, Jeddah e Riyad, l’incrocio tra Seleçao e Albiceleste tornerà ad avere un significato che trascende la supremazia nella rivalità, perché decreterà la vincitrice del torneo per Nazioni più antico del Mondo.

Il Brasile cercherà di bissare il successo dell’ultima edizione, ospitata nel 2019; l’Argentina, dalla sua, di vincere un trofeo che manca dal 1993.

Sottotrame

La finale più scontata, e al contempo attesa, sarà anche la finale tra chi il torneo l’avrebbe dovuto organizzare e chi ha preteso di ospitarlo, nonché tra le uniche due squadre che non hanno registrato, nelle loro rose, alcun caso di contagio COVID, un simbolo di inscalfibilità, o di protezione divina.

Ma la sfida sarà soprattutto la contrapposizione tra Messi e Neymar, se non i due migliori calciatori del mondo, con buona certezza d’America. Nessuno dei due ha ancora vinto un titolo maggiore con la propria Nazionale: entrambi hanno collezionato una medaglia d’oro Olimpica (Messi nel 2008, Neymar due edizioni più tardi), ma il calcio decoubertiniano è un’altra cosa. Messi ha giocato tre finali - nel 2007, e poi nel 2015 e 2016 -, perdendole tutte: le ultime, sempre contro il Cile, che hanno seguito la sconfitta nella finale del Mundial brasiliano, sono state così cocenti e impattanti sul suo mito da averlo portato ad annunciare il ritiro, per quanto temporaneo.

Foto di Jewel Samad / Getty.

Neymar, invece, non ha giocato l’ultima edizione perché infortunato. Il non essere ancora riuscito a sollevare la Copa non è poi un così grande cruccio - nella sua carriera, dopotutto, neppure Pelé ci è riuscito. Eppure ogni elemento sembra concorrere alla sua glorificazione: non ha ancora perso, fino a oggi, una partita ufficiale giocata in casa, e sotto la regia di Tite ha sempre dimostrato di essere una macchina inarrestabile (22 gol e 23 assist).

Foto di Odd Andersen / Getty.

Come ci arriva, a questa finale, il Brasile?

Neymar è il perno attorno al quale il suo allenatore ha edificato una cattedrale romanica, solida ma al contempo elegante. Il Brasile ha subito, durante tutta la Copa, soltanto due gol, mettendo in mostra una compattezza difensiva quasi anacronistica, un’organizzazione di gioco tutta basata sull’aggressione alta del portatore di palla avversario e il contestuale recupero del possesso: centrocampisti come Fabinho, Fred e Casemiro - imbattuto quando parte da titolare per la Seleçao - si sono esaltati vicendevolmente, mettendo O’ Ney nelle condizioni di far brillare tutto il suo estro da baller.

Al suo fianco, Tite ha trovato un compagno perfettamente combinabile come Paquetá, insondabile a Milano e rinato a Lione, autore dei gol decisivi ai quarti di finale e in semifinale, un calciatore in cui Tite ha riconosciuto «la stessa capacità di comprendere il gioco che hanno Neymar e Coutinho».

A differenza di quanto possa sembrare, non si sono impazziti i tempi e ribaltati i cliché: il Brasile resta comunque uno Juggernaut capace di segnare 12 gol - miglior attacco della competizione, una squadra alla quale solo il rilassamento contro l’Ecuador, a qualificazione già conquistata, non ha permesso di allungare la striscia di vittorie in gare ufficiali oltre le dieci.

L’ultima volta che la Seleçao ha abbandonato il campo da sconfitta in una gara ufficiale risale a tre anni fa, quando venne eliminata dal Belgio dai Mondiali di Russia. Prima di perdere coi Diavoli Rossi, l’ultima sconfitta risaliva ai Mondiali giocati in casa, nella finale per il terzo posto contro l’Olanda, l’atto finale della rovinosa caduta sulle cui macerie Tite ha costruito la mentalità di una Seleçao mentalmente compatta, concentrata, inattaccabile.

E l’Argentina?

L’Albiceleste è stata l’ultima squadra capace di battere il Brasile, seppur in gara non ufficiale: a Ryad, nel Superclásico amichevole successiva alla Copa América 2019 (nella quale le due squadre si erano scontrate in semifinale), segnò Messi, che però non è mai uscito vittorioso, né tantomeno ha mai segnato, in una gara ufficiale contro la Amarelha.

Non è ridondante, né retorico, constatare che oggi l’Argentina è soprattutto Messi - così come, in un rapporto che destino e contingenze hanno fatto sì che fosse reciproco, Messi è soprattutto, in maniera in qualche modo inedita, Argentina: in questa Copa, che si gioca nella parentesi weird che vede Lionel tecnicamente disoccupato il senso di appartenenza alla camiseta Albiceleste ha toccato nuove e sconosciute vette, un senso di appartenenza che si è tradotto in una masaniellizzazione della Pulga, mai così caudillo valente, mai così eroe tragico.

L’Argentina non perde da 19 partite: Bielsa, nel biennio 2000-2002, aveva collezionato un’imbattibilità di 18 match, poi finì malissimo ma quella era una squadra decisamente più talentuosa di quella odierna, e il Loco un tecnico più referenziato di quanto non sia Scaloni, che non ha mai saputo trovare una maniera di imprimere all’Albiceleste un’identità precisa, o un gioco entusiasmante - compito nel quale neppure i suoi predecessori, da Sabella in poi, erano comunque riusciti.

L’Argentina ha una rosa che mostra evidenti lacune: i centrali Pezzella e Otamendi soffrono tremendamente attaccanti veloci e imprevedibili, e anche la copertura delle fasce, affidata a due carrilleros con una naturale predisposizione più a offendere che difendere come Montiel e Tagliafico, è un costante enigma. E anche la creazione di gioco, affidata a Paredes e Lo Celso, manca di creatività.

A sopperire alle lacune, d’altro canto, c’è la fioritura di un nuovo Rodrigo De Paul, ormai perfettamente calato nel nuovo ruolo di mezzala, un Lautaro Martínez sempre più decisivo e soprattutto un ispiratissimo, motivatissimo, a tratti rabbioso e arrogante Lionel Messi.

Animata dallo spirito del suo capitano, che sta disputando questa Copa América come se fosse il suo ultimo grande torneo - e in cui ha segnato quattro gol e servito cinque assist, cosicché nove degli undici gol segnati in tutto dall’Argentina siano passati dai suoi piedi -, l’Argentina è una squadra che se non ha un gioco, o un’anima, ha comunque un fortissimo senso di coesione.

Nell’esultanza durante la serie dei rigori contro la Colombia, nel costante incoraggiamento e glorificazione pubblica della sua rosa, nella rabbia con cui si trascina dietro il gruppo col piglio di un Sisifo che si è fatto una mezza idea furba di come scavallare la collina, c’è tutto il nuovo Messi, pieno di fiducia in se stesso e negli altri. Un Messi capace di radunare la squadra a centrocampo dopo la vittoria in semifinale, riunirla in circolo, guidarla in una serie di cori contro la stampa di casa rea di non sostenere a sufficienza la Selección.

Certo, per battere la Seleçao servirà tutta la fiducia in se stessi di cui i giocatori argentini possano disporre, e non è neppure detto che sia sufficiente.

Dal maracanazo del 1950 nessuno è più stato in grado di sconfiggere il Brasile al Maracanã: nello stadio di Rio la Amarelha ha guadagnato un ruolino di marcia impressionante, fatto di 22 vittorie e sei pareggi soltanto. Nella deserta vastità del Giornalista Mário Filho, stanotte, il Brasile cercherà di portare in bacheca il quarto titolo vinto proprio al Maracanã (a Rio sono già state alzate al cielo la Copa del 1989, la Confederations Cup del 2013 e la Copa dell’ultima edizione).

A cercare di impedirglielo, e con la sfacciata pretesa di tenere tutto il peso - ma anche la potenziale gloria - della propria Nazione sulle Spalle, ci sarà Lionel Messi.

Forse Argentina-Brasile non si potrà ridurre allo scontro di personalità tra i due suoi principali interpreti. In ogni caso, comunque vada, questa edizione della Copa América che si appresta a terminare - volenti o dolenti - con l’epilogo più atteso finirà per dirci anche qualcosa in più su Messi e Neymar, protagonisti in diversa maniera, entrambi a un passo dal trionfare dove gli epigoni conclamati, Maradona e Pelé, non sono riusciti. E non sembra - niente affatto - una questione di poco conto.

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