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Quando c'è un problema c'è anche una soluzione
30 set 2024
Intervista ad Antonio Fantin, medaglia d'oro alle Paralimpiadi di Parigi.
(articolo)
13 min
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«Quando c'è un problema, c'è sempre anche una soluzione», mi dice Antonio Fantin, classe 2001, tesserato con le Fiamme Oro, affetto da una malformazione artero-venosa, diagnosticata quando aveva tre anni e mezzo, medaglia d'oro e d'argento ai Giochi Paralimpici di Parigi rispettivamente nei 100 e nei 400 nella categoria S6 (riservata a chi ha un normale utilizzo di braccia e mani ma poco controllo del tronco e non usa le gambe). Mi sembra un concetto straordinario nella sua semplicità, soprattutto per uno che l'ha reso verità con la pratica quotidiana. Nell'intervista che gli faccio, dopo il suo ritorno da Parigi, mi pare avere solo un cruccio: quei 400 stile in cui è arrivato “solo” secondo.

Cosa ti porti dietro dalle Paralimpiadi di Parigi a prescindere dalle medaglie?

Tantissimo, forse tutto perché a Parigi c’è stata la gente che era mancata a Tokyo. Lì non era venuta meno la vicinanza delle persone che da casa si facevano sentire e quasi riecheggiavano in quello stadio vuoto. Non è mancato qua, c'erano fisicamente. Ero lì con loro: ho vissuto queste 15mila persone che, magari non erano tutte italiane e non tutte erano tutte lì per me, ma è come se lo fossero state. C'era un nutrito gruppo che mi ha seguito e un bel fan club da casa. È capitato di gareggiare anche contro i francesi e sugli spalti tifavano giustamente per loro: in realtà, era come se sostenessero me, sentivo il mio nome riecheggiare. Poi, c’è la parte legata alle gare, le medaglie, i risultati e i tempi che mi hanno insegnato e mi hanno trasmesso qualcosa. Tutto questo è frutto di ciò che ho fatto quest'anno. Certo, io partivo con il presupposto e con la voglia di vincere due ori, ne ho vinto uno, ma probabilmente potrei dire che «ho vinto un oro e un argento». Mi spiego: questa consapevolezza non ce l’avevo a Tokyo ed oggi mi rendo conto che, indipendentemente dal colore della medaglia, posso essere grato. I podi rappresentano la passione, il lavoro, le soddisfazioni e il mettersi in gioco non solo da parte mia ma anche da parte di tutti coloro i quali, soprattutto, hanno reso possibile questo viaggio. Dispiace per i 400, ma in fondo va bene così perché io e loro ce l'abbiamo messa tutta.

In generale, quindi, ti aspettavi due ori…

Sì, esattamente. A Tokyo era stato oro nei 100 con il record del mondo. Confermarmi nella gara regina è stato il primo tassello, il primo di due, l'obiettivo era quello. Per i tempi, sapevo che i 100 stile non fossero veloci tanto quanto quelli nuotati quest'anno, perché abbiamo lavorato molto sulla distanza più lunga e quindi eravamo consci che avremmo sacrificato un po' la velocità. Nonostante questo, il tempo è a 3-4 decimi dal mio record del mondo, è stato record paralimpico: nel complesso molto bene i cento. Invece per i quattrocento stile libero: da un lato, come ho detto nell'intervista dopo la gara, non va bene. Quando si lavora per un obiettivo, penso valga in qualsiasi ambito, non solo alle Paralimpiadi, lo si vuole raggiungere e si cerca di fare di tutto per conseguirlo. Allo stesso tempo, va bene perché ho provato a fare quanto era in mio potere. Questa volta non è andata così nella doppia distanza, ci è mancato veramente poco. Credo che ogni medaglia sia il mio modo di dire grazie a chi ha lavorato con me, a chi si è dedicato a me e a chi era convinto ed è convinto del mio potenziale. Non posso regalare loro un argento come ultima medaglia in questa distanza. Prima di Parigi, avrei potuto dire che i 400 li avrei nuotati per l’ultima volta: adesso, no, perché vorrei finire meglio.

A parte il pubblico, rispetto a Tokyo come hai vissuto le gare?

Ho vissuto Tokyo [dove ha vinto cinque medaglie, nda] in modo molto più forte di Parigi, era la mia prima Paralimpiade. Abbiamo fatto un periodo di ambientamento molto lungo e c'erano una serie di circostanze, come il covid, o come l'obiettivo di vincere il mio primo oro, che mi hanno fatto vivere in modo esasperato la ricerca dell'oro stesso. Se posso riassumerlo in una frase, a Tokyo sentivo di dover vincere, qui, a Parigi sentivo di voler vincere: è quello che ho cercato di fare. In Francia, sono arrivato con delle aspettative più o meno diverse e con una consapevolezza differente, con tre anni in più. In questo periodo è successo di tutto, come la mia quasi impossibilità di nuotare, dopo un intervento che ho subito l'anno scorso, in realtà, non solo di nuotare, ma di fare ben altro. Ho cercato di vivere le Paralimpiadi e qualsiasi altra gara con una mentalità diversa perché giocarsi una medaglia in quel palcoscenico è quel qualcosa che vale la pena di essere vissuto e non di dover essere vissuto, come se fosse un obbligo. Ho provato a fare questo passaggio mentale, ho vissuto molto più serenamente i 400 stile, quest'anno. Nei 100 ero un po' teso perché era la prima gara: le mie sono state tutte negli ultimi giorni. Ci sono stati tantissimi fattori che in questa distanza hanno inciso molto dal punto di vista della tensione ma, ripeto, non tanto quanto a Tokyo.

A tre anni è mezzo è arrivata la diagnosi della malformazione, che ricorda di quegli anni?

Nella mia vita ci sono stati due momenti e due passaggi molto delicati, quello a tre anni e mezzo che è stato un po' il crocevia di tutto, e poi quello dell'anno scorso. Ho avuto ed ho - e l’ennesima dimostrazione è arrivata a Parigi - la fortuna di vivere in un ambiente che è fantastico. Ho degli amici incredibili che vanno al di là di quello che significhi tifare per un amico che va alle Paralimpiadi. Si tratta di vivere normalmente qualsiasi cosa, farlo con il sorriso, sapere che se c'è un problema non va visto come tale, ma come un ostacolo da superare. Un problema significa anche una soluzione. Ovviamente sono stati dei periodi delicati, soprattutto quello che ho vissuto dopo la diagnosi a tre anni e mezzo. Ero un bambino piccolo che aveva appena iniziato ad andare all'asilo e cambia tutto, ma per me non è stato così, per noi non è cambiato mai niente. È stato un periodo delicato ma normale, come se non fosse successo nulla. Ci sono state delle differenze a scuola, magari andavo con la carrozzina e i miei amici a piedi, nulla di più, è un qualcosa che fa parte della vita, meglio se non capiti ovviamente, però se succede va affrontato. L'abbiamo fatto, lo facciamo, lo faremo sempre.

Riassumerei il tutto con il termine accettazione, ma come si fa quando si è così piccoli?

È un po’ come nell'acqua: ti devi adattare, una volta che ti tuffi, devi adattarti ad un ambiente nuovo perché altrimenti stai fermo e non ti muovi. Non so se sia più facile da ragazzo o da bambino. Sicuramente, non vorrei dire il segreto… ma il successo passa attraverso liberarsi di tutte quelle che possono essere le proprie zavorre mentali, i limiti e i filtri. Bisogna provare ad adattarsi, in acqua, per muoversi e andare avanti e nella vita per non rimanere ancorati a piangersi addosso, ostinandosi a ribadire quanto siamo stati sfortunati o perché a me: così si è immobili. Io l'ho vissuto da piccolo, mi è sempre stato trasmesso e forse non abbiamo neanche avuto il tempo di metabolizzare quello che è successo, soprattutto all’inizio. Abbiamo cominciato subito a lavorare, a rimboccarci le maniche, a cercare una strada per recuperare quanto più si potesse. Ripartire e farlo velocemente è il segreto. Poi tutto è più bello da piccoli: la carrozzina diventa un gioco così come andare in acqua al mare, sulle spalle dei miei amici. In questo modo, secondo me, si può affrontare tutto. Insomma, è stato facile. So che magari è difficile da capire, però per me è stato sempre così perché tutti l'hanno reso tale.

Invece l’anno scorso che era successo?

Non era detto che io fossi in acqua già l'anno scorso e poi sono riuscito a vincere con il record del mondo [nei 100 S6, al Mondiale di Madeira 2023, nda], quest'anno ancora di più, ma non solo in acqua. Un anno fa sono stato operato a livello cervicale, alle prime due vertebre, all'interno del canale midollare, in una zona molto delicata. Poco più in su c'è tutta la parete della respirazione e una lesione sarebbe stata catastrofica. Non ho avuto paura. Quando sono entrato in sala operatoria ero sereno perché sapevo che tutto sarebbe andato bene. Magari sono un po' incosciente, ma lo sono sempre stato perché quando ero piccolo scendevo dallo scivolo a testa in giù, ero proprio un pazzo. Ho sempre sentito che ce l'avrei fatta, ce la faccio in qualsiasi cosa, questo mi fa vivere tutto con serenità e tranquillità. Piano piano acquisisco un po' di consapevolezza che cerco di mettere da parte sempre di più.

Prima hai usato la metafora del nuoto ma non è stato proprio amore a prima vista o sbaglio?

Sì, c’era il calcio: è l'unico rimpianto, anzi no non è un rimpianto o una cosa che non ho fatto perché ho fatto pure quello. Mi sono seduto in porta su una carrozzina e ho barrato quella casella. Qualsiasi cosa si può fare. Forse il calcio non mi avrebbe portato alle Paralimpiadi o forse sì, chi lo sa, però poi è stata scelta la strada del nuoto. Non è stato amore a primo tuffo perché all'inizio io dovevo entrare in acqua [per la riabilitazione, nda]. Non volevo, facevo tanta fatica, però ce l'abbiamo fatta. Non saprei dire a distanza di 20 anni se quel bambino non fosse entrato quel giorno in acqua dove sarebbe oggi. Credo valga per ognuno di noi. La vita è un continuo. Quello che ci capita è quello che decidiamo di fare. Non sappiamo oggi dove saremo fra dieci, venti, quindici anni. Io, che sono un grande programmatore, ogni tanto, mi rendo conto che programmare va bene ma fino ad un certo punto. Infatti, il nuoto non è mai stata una passione per me. È sempre stato uno strumento per raggiungere tanti traguardi che volevo, lo faccio con il sorriso, per divertirmi ed esprimermi al massimo. È molto difficile avere una grandissima passione per qualcosa. In fondo la passione c'è, c'è per tutto, ma c'è anche qualcosa di più profondo che ci spinge ad agire.

So che sei credente, ti riferisci a quello? Ti ha aiutato la fede?

Sì, sicuramente ma come tutto. La vita mi ha sempre fatto capire quanto importante sia fidarsi e avere fiducia e non dare nulla per scontato. Non bisogna dire: non ce la farò perché l'ostacolo è troppo più grande di me. C'è sempre una soluzione, bisogna avere fiducia o fede, chiamiamola come vogliamo. Questo forse è un po' un retaggio della mia vita, del mio percorso. In un sport come il nuoto ti devi fidare delle persone che sono fuori: è vero non c’è propriamente l'allenatore ti dà le indicazioni, come lo schema da fare nel calcio, ma è come se fosse in acqua, e questo vale per la fede. Ogni percorso è fatto da tanti piccoli tasselli, da tante piccole persone e momenti. Tutti ci arricchiscono e difficilmente quando sentiamo di avere la necessità di qualcuno, di un supporto, stiamo bene da soli. Chiedere aiuto è il massimo della gratitudine verso le persone che ci circondano, poi dobbiamo essere bravi a ringraziare, ad essere grati di quello che abbiamo ottenuto. Tante volte abbiamo paura di chiedere o di affidarci agli altri perché ci sembra di essere egoisti nel chiedere una mano. Quando è capitato a me di dare o ricevere aiuto ero felice di mettermi a disposizione dell'altro. Non avere paura di farsi vedere fragili e sentire un consiglio, un aiuto da qualcuno, fa bene a noi ma fa bene anche agli altri.

Il concetto di fiducia l’hai compreso anche facendo teatro?

Sì, l’ho fatto quando ero piccolo, perché mia mamma diceva che ero riservato, non timido. Ero di poche parole ed era un modo per aprirmi, l'ho condiviso anche con tanti miei amici. Interfacciarsi con qualcuno che vedi o non vedi, ma che sai che c'è, ti aiuta perché ti metti in gioco prima di tutto. Parigi poteva essere un grande teatro, un po' più grande di quelli in cui facevo gli spettacoli quando ero piccolo. Alla fine, viviamo in relazione con gli altri, quindi imparare a conviverci fin da subito ci aiuta. Essere sia dalla parte del palco che dalla parte della platea, vedere tutte e due le facce della medaglia è utile.

Agganciandomi a quello che hai detto volevo che mi spiegassi anche cosa intendi quando dici che la disabilità, alla fine, è una forma di normalità.

L'esempio forse più lampante è quello che ho vissuto sulla mia pelle quando sono tornato all'asilo. Nessuno dei miei amici ha mai visto la carrozzina di Antonio, c'era e basta, e questo per me significa normalità. Non ci qualifica quello che abbiamo, quello che abbiamo vinto o meno, dove siamo arrivati nella nostra vita lavorativa, ma chi siamo e come ci rapportiamo con gli altri. Faccia a faccia, con tanta voglia di essere veri, sinceri, corretti. Ad esempio, le giornate in cui si sensibilizzano determinati temi possono essere un aiuto all'inizio, però poi porre troppo l'attenzione sulla giornata mondiale di quel qualcosa diventa specializzare ancora di più una categoria, categorizzare. Non credo di aver mai usato il termine disabilità con gli amici: Antonio non poteva andare dall'ombrellone fino all'acqua in piedi come gli altri, ma è tutto lì e basta.

In generale hai mai avuto paura? Timore che la malformazione ti impedisse di realizzarti?

Quando c'è un problema, c'è anche una soluzione. Ho sempre pensato e lo penso in qualsiasi cosa io faccia: che sia una gara, che sia un qualsiasi altra cosa, ce la farò. Sento che andrà bene e che una soluzione la troverò, che alla fine si risolverà tutto. Secondo me avere paura è sentire di non poter trovare una soluzione a qualcosa. In realtà, ognuno di noi sa in cuor suo che ci sarà. Non ho paura, mi è sempre stato insegnato ad affrontare tutto, ma una cosa alla volta, concentrandosi su quello che c’è da fare. È un po' come quando nuoti e hai i 400 stile, se pensi bracciata dopo bracciata, vasca dopo vasca, virata dopo virata, finisce che non te ne sei neanche accorto, così come l'allenamento e così come la vita. Il fatto di guardare un passo dopo l'altro mi ha sempre dato tanta fiducia e questa è sempre stata più grande della paura.

Dopo Tokyo hai scritto un libro: ce n’è già un altro in previsione?

Vorrei scrivere un libro su come non fare i 400 stile [ride, nda]. Scherzi a parte l’ho scritto, perché per me ognuno di noi è abituato a guardare sempre avanti, io per primo. Poche volte ci diamo una pacca sulla spalla, ci diciamo bravi e ci guardiamo indietro. Molto spesso, se non sempre, non dobbiamo dire bravi solo a noi, ma anche a tutti quelli che ci hanno accompagnato nel nostro percorso di vita. Sentivo di dover dire bravi a tutti. In questo momento non lo so, ci devo pensare, però sarebbe bello. È sempre bello raccontarsi perché non sei un esempio, ma sei uno strumento per gli altri. Quando un ragazzino apre il libro, un signore più grande di te, una famiglia che magari vive un momento di difficoltà, può essere d'aiuto. Penso valga più di 10 medaglie d'oro alle Paralimpiadi.

Per il resto che fa Antonio nel tempo libero? Ancora spericolato?

No, mi sono dato una calmata [ride, nda]. Mi manca poco per finire l'università. Ho ancora tre esami, poi, mi dovrei laureare in economia e commercio. Ho sempre avuto la passione per tutto lo sport in generale e per qualsiasi obiettivo. Se dobbiamo parlare di paura ho quella di svegliarmi la mattina senza un qualcosa da desiderare, da voler raggiungere, un qualcosa di nuovo a cui tendere. Mi piace qualsiasi cosa mi stimoli, mi dia voglia di alzarmi dal letto ed andare a lavorare per farla. Ho già detto più volte che a me piacerebbe costruire il mio percorso parallelo o comunque alternativo all'acqua nel mondo delle calzature, ma nella mia Bibione, che comunque mi ha dato tanto. Vorrei dare qualcosa oltre ai risultati sportivi. Ci sono tantissime cose che vorrei fare e spero di riuscirci in questi quattro anni che ci separano da Los Angeles. Se dovessi andare, vediamo. Comunque penso di sì, perché i 400 stile bisogna vincerli.

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