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Antonio Conte contro il Napoli
11 nov 2025
Pochi mesi dopo lo Scudetto Conte è tornato a incendiare microfoni e ambiente.
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14 min
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Foto IMAGO / Insidefoto
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«Avanti tutta, più forti di prima»: il tweet di Aurelio De Laurentiis arrivò la sera del 29 maggio con la gravità degli annunci imperiali. Una frase laconica e solenne, come era stata tutta la stagione del presidente del Napoli.

Gli azzurri stavano ancora festeggiando la vittoria del quarto Scudetto, e l’annuncio della permanenza di Conte fu celebrato dai tifosi come un piccolo rito collettivo in epigrafe al 23 maggio, data in cui la squadra aveva battuto il Cagliari e chiuso al primo posto un campionato logorante. Davanti ai giornalisti, Conte si limitò a pronunciare poche parole che risuonavano come un manifesto: «Ho deciso di restare perché io e il presidente siamo persone serie, c’è un contratto. E poi abbiamo uno Scudetto da difendere».

Dov’era l’imbroglio?

Per la prima volta ci trovavamo di fronte Conte sereno nella vittoria, in pace con l’idea che il matrimonio con il Napoli non potesse finire in anticipo. In fondo lo aveva promesso: «Sono venuto qui per gettare basi solide» ripeteva nella stagione 2024/25.

Dovevamo crederci?

Oggi è tutto cambiato, anche se nulla sembra cambiato. Il Napoli è a ridosso della vetta della classifica e ancora in corsa in Champions League. Proviene da un calciomercato sulla carta ambizioso e la squadra sembra avere tante potenzialità. Eppure. Eppure c'è tutto un altro modo per guardare alla situazione, un modo molto più cupo: guardarlo attraverso gli occhi di Antonio Conte, che da inizio stagione - in un climax sempre crescente di ansia e paranoia. Come in una sinistra profezia auto-avverante, finalmente i risultati della squadra hanno cominciato ad allinearsi alla visione pessimistica del suo allenatore.

La sconfitta di Bologna è la quinta da inizio stagione, ed è arrivata al termine di un giro di partite difficili cui la squadra esce con le ossa rotte. Se tutto sommato le difficoltà in campionato possono essere derubricate a lieve crisi, agli effetti della stanchezza, al valore dell’avversario, la Champions League tratteggia contorni oscuri.

Si cominciano a vedere in controluce problemi strutturali.

La testata vincente di Zambo Anguissa a Lecce è l’unico gol segnato nelle ultime quattro partite, ed è nato da un calcio di punizione. Su azione, il Napoli non segna dalla partita contro l’Inter del 25 ottobre.

L’esaurimento nervoso che Conte rilascia nell’ambiente dopo le sconfitte è tornato a incendiare, come un gas tossico, l’ambiente e lo spogliatoio. «Mi dispiace tirare fuori gli scheletri del passato, il decimo posto dopo lo Scudetto, ma dobbiamo riflettere» ha ammonito domenica Conte. Quando la squadra va male, Conte tira fuori gli spettri dentro casa. «Entrare nel cuore dei calciatori è compito mio. Ma a volte il cuore non c’è».

Fa impressione sentire un allenatore colpevolizzare i calciatori con tale violenza, e viene da chiedersi cosa si dicono nello spogliatoio, se non si è già arrivati a un punto di rottura nel Napoli.

A Bologna, il Napoli non ha semplicemente perso la partita: ha dato la sensazione di farsi divorare. Sconsolato, ai microfoni di DAZN, i suoi occhi puntavano a terra. Aveva la faccia triste e invecchiata di chi sta vivendo un trauma in tempo reale. Da dove sbuca questo Antonio Conte sinistro, le cui dichiarazioni sembrano uscite da un racconto di Edgar Allan Poe, con le paranoie che si stanno mangiando la realtà? Davvero i giocatori «pensano al proprio orticello» o è vero il contrario?

***

La conferma di Conte sulla panchina del Napoli, al di là dell’entusiasmo della piazza in quel momento, portava con sé alcune incertezze. Fino al giorno dell’ufficialità, non si parlava d’altro che di un suo imminente passaggio alla Juventus. Alla vigilia di Monza-Napoli, in piena corsa Scudetto, la conferenza stampa divenne una specie di palcoscenico di Conte, una lettera minatoria d’addio al club: «In questi mesi mi sono reso conto che tante cose qui a Napoli non si possono fare». Il riferimento plateale era al trasferimento di Kvaratskhelia al PSG, con il georgiano ceduto nel bel mezzo di gennaio e poi sostituito da Noah Okafor.

Conte è suscettibile. Quando sente diminuire la sua influenza sull’aria che tira nello spogliatoio, così come tra i vertici della società per cui lavora, saluta, non senza aver prima rovesciato in pubblico le proprie sofferenze. È la storia delle dimissioni dalla Juventus, della rescissione con il Tottenham, ma anche dell’addio al Chelsea. I toni attorno al Napoli sono da fine impero perché Conte ha iniziato a usare il suo linguaggio da fine impero, che ormai conosciamo. La costellazione di frasette passivo-aggressive, l’aria torva, le frecciate a tutti. In queste ore si cita la famosa conferenza di Southampton in cui, di fatto, finì la sua esperienza londinese: “La storia del Tottenham è questa. 20 anni che c'è questo proprietario e non hanno mai vinto nulla. Perché?”. Avete presente, quando Conte pare fare di tutto per farsi licenziare?

Per Conte deve essere stato un duro colpo rimanere inerte di fronte al mancato mercato di gennaio del Napoli. Arrivato al termine del campionato, ha voluto assicurarsi il potere di plasmare la rosa a sua immagine e somiglianza. E ci è riuscito: da giugno De Laurentiis lo celebra come l’uomo da seguire in tutto e per tutto, e gli consegna - a lui e a Manna - oltre 150 milioni di euro per rinforzare l’ossatura capace di vincere due Scudetti in tre anni.

Aleggiava uno spettro: Conte sarebbe finalmente riuscito a gestire una squadra impegnata in due competizioni? Che forma avrebbe preso, quel Napoli marziale, scheletrico ma durissimo, che si faceva forza dei propri limiti?

Il Napoli ha allungato la rosa, che è quello che si chiedeva a una squadra che doveva giocare due partite a settimana e non due. Lo ha detto Conte stesso, ovviamente insoddisfatto, a fine settembre, a chi parlava di grande mercato: “abbiamo messo tanti giocatori, ma molti devono crescere ancora tanto. E purtroppo non c’è molto tempo. Non ce n’è a sufficienza”. Uno dei primi momenti in cui comincia a prendersela con i giocatori, e con i nuovi arrivati in particolare.

Nonostante le difficoltà lo scorso anno a fare gol, il Napoli è rimasta, a fine mercato, una squadra dall’identità ancora difensiva. Lorenzo Lucca è arrivato come cambio di Lukaku, Noah Lang come un esterno di difficile collocazione tattica, forse più utile a partita in corsa. E poi è arrivato Kevin De Bruyne, naturalmente, che avrebbe dovuto aumentare la qualità del Napoli nell’ultimo passaggio, ma accompagnato da qualche dubbio sulla coesistenza con McTominay, che in fondo era il miglior giocatore della scorsa stagione.

Conosciamo la prudenza maniacale delle squadre di Conte: quanta panchina ha dovuto sorbirsi, dopo tutto, Christian Eriksen all’Inter? Quante volte abbiamo visto David Neres scaldarsi ed entrare a dieci minuti dalla fine, a risultato già acquisito, per un Politano spolpato, incapace di dare anche il più sottile contributo in attacco?

Passati tre mesi, si può dire che Conte abbia già smobilitato la campagna acquisti. Lang, corteggiato da gennaio e acquistato per quasi 30 milioni di euro, ha giocato appena una partita da titolare; Beukema è stato rottamato dopo la disfatta di Eindhoven, e si è visto scavalcare nelle gerarchie da un soldato di Conte come Juan Jesus; infine, pur di non far giocare Lucca anche in assenza di attaccanti, contro l’Inter è stato impiegato David Neres come falso nove.

Si è discusso già ampiamente dell’impatto a lungo termine di Conte e della sua metodologia di lavoro. Alzare di proposito i toni del discorso, esacerbando le reazioni di calciatori e ambiente, sottoporre un gruppo di lavoro a continue scosse di assestamento – nei comportamenti e nelle dichiarazioni – genera uno stress collettivo allucinante, che nelle seconde stagioni di Conte le sue squadre finiscono per pagare. Forse siamo a quel momento. Già prima dell’inizio del campionato, era chiaro dove Conte volesse andare a parare per tenere sull'attenti il gruppo: «Questo per noi sarà l’anno più complicato in assoluto. Armiamoci e combattiamo». A piccole dosi, e nel breve, il veleno di questo tipo di comunicazione finisce per trasformarsi in energia positiva. Ma che succede quando la cura si trasforma in una tossina?

La sensazione è che di fronte alle difficoltà in questo inizio di stagione – i continui problemi muscolari, la discontinuità nelle prestazioni, il doppio impegno che ha usurato alcuni titolari inscalfibili – Conte abbia individuato il nemico del Napoli nel Napoli stesso. «Forse inserire nove teste nello spogliatoio è stato un errore» aveva detto Conte non più tardi di qualche settimana fa. «I vecchi, quelli che c’erano l’anno scorso, devono alzare i giri del motore. I nuovi devono stare in silenzio e lavorare».

Sembriamo matti a parlare con questi toni di una squadra che tutto sommato era prima fino a pochi giorni fa. Un Napoli che ha battuto 3-1 l’Inter nella partita più importante di inizio stagione. Eppure il clima è questo e il piccolo paradosso rispetto ai risultati rende ancora più evidente il lavoro di Conte di auto-sabotaggio: «Siamo primi in campionato e sento sempre critiche. Il Napoli in alto evidentemente dà fastidio» diceva qualche giorno fa. Conte sente i toni alti attorno alla squadra, e allora decide di alzarli di più. Un classico.

***

L’acquisto a parametro zero di Kevin De Bruyne non sarebbe stato preso in considerazione in altre epoche del Napoli di De Laurentiis. Testimonia la fiducia incondizionata in Conte; anzi, secondo qualcuno KDB è stato preso proprio per convincere l'allenatore delle ambizioni della proprietà. De Bruyne è avanti con l’età, con problemi fisici in aumento, un problema finanziario evidente, accettato però in cambio della sua creatività, del suo piede destro, di una competitività immediata per assorbire le sfide di campionato e Champions: «Quando Kevin ha la palla, vede cose che altri non vedono. È uno dei migliori centrocampisti al mondo» dice Conte.

L’elefante nella stanza, però, è diventato presto evidente. Come avrebbe convissuto De Bruyne insieme alle due mezzali-robot del Napoli? Gli inserimenti di Scott McTominay e Zambo Anguissa sono stati il segreto della squadra che ha vinto lo Scudetto. Il 4-3-3 di base costruito da Conte non poteva prescindere dal loro impatto fisico al centro, sia in fase realizzativa (12 gol McTominay, 6 Anguissa), grazie agli appoggi da boa di Lukaku, sia in fase di pressing.

Il Napoli allargava il gioco con gli esterni d’attacco per invadere gli spazi in area di rigore proprio con il vigore atletico delle mezzali. In alcune partite, questo assetto meccanico ma studiato nel dettaglio, ha funzionato bene. Il Napoli, che pure aveva avuto una regressione dopo l’addio traumatico di Khvicha Kvaratskhelia, si distingueva per la grande solidità difensiva (a fine campionato i gol subiti sono stati solo 27, miglior dato dei top 5 campionati europei) e per un gioco lineare con la palla tra i piedi, in cui tutti i giocatori occupavano con disciplina la propria posizione.

Per inserire De Bruyne Conte ha dovuto rinunciare a questi principi di gioco. Fin dal secondo ritiro estivo a Castel di Sangro, l’allenatore ha adottato un sistema con quattro centrocampisti insieme: Lobotka-Anguissa-McTominay-De Bruyne.

Il Napoli aveva bisogno di creare più occasioni – gli azzurri hanno vinto il campionato segnando appena 59 reti – e il nuovo assetto tattico era pensato per arrivarci attraverso il possesso palla. In questo senso vanno letti altri due acquisti: Miguel Gutierrez dal Girona, terzino sinistro con il piede di un trequartista, abile a venire a giocare dentro al campo, e Milinkovic-Savic dal Torino – portiere con un calcio lungo da football americano. Sulla carta sarebbe dovuto arrivare un altro attaccante esterno, che su sua stessa ammissione Conte aveva individuato in Ndoye del Bologna, ma alla fine il club ha deciso di non intervenire, puntando su Lang, David Neres e Politano.

La stampa parla dei “Fab Four” come la fusione tra il Napoli passato e quello futuro. Nelle prime uscite stagionali il Napoli colleziona effettivamente percentuali bulgare di possesso palla: contro Sassuolo e Cagliari tocca addirittura il 70%. Eppure la coperta è corta: se da un lato il Napoli migliora la circolazione del pallone con De Bruyne, perde dall’altro lato efficacia in difesa. Non è più una squadra che può giocare in transizioni lunghe, senza il lavoro di Lukaku in campo aperto e con pochi giocatori veloci. La squadra comincia allora ad adottare un pressing uomo su uomo a tutto campo troppo dispendioso per una rosa che è, insieme all’Inter, la più vecchia in Europa. Conte parla di transizione verso un «gioco europeo», che però si vede a intermittenza.

La manovra del Napoli, che pure diventa una squadra più incline a tenere il pallone tra i piedi grazie all’influenza di De Bruyne, non è mai fluida o veloce. Si gioca su una fascia sola – quella destra dei pretoriani Di Lorenzo e Politano –, mentre a sinistra McTominay taglia verso l’area di rigore, lasciando libera la corsia al terzino. L’unica idea del Napoli per segnare, però, rimane bombardare di cross l’area avversaria, ammassando quanti più corpi possibili negli ultimi sedici metri.

Ciò che stupisce di più sono i compiti che Conte assegna a De Bruyne. A differenza del decennio passato al Manchester City, il belga non calpesta mai la zona della trequarti: è invece il primo costruttore del Napoli, colui che detta i tempi di uscita del pallone. In certi spezzoni di partita, De Bruyne gioca in verticale con Lobotka, sulla carta il vero playmaker della squadra.

Così, se già solo la sua presenza migliora la trasmissione del Napoli a centrocampo, Conte non ha ancora saputo sfruttare del tutto le potenzialità di De Bruyne. Da bombardiere di cross tagliati da destra verso il secondo palo, a Napoli De Bruyne è diventato la versione ecumenica ma un po’ grigia che è con il Belgio: un numero dieci usato come regista, mentre la squadra fatica a essere pulita con passaggi filtranti al limite dell’area.

Pure in questa versione di compromesso, De Bruyne ha avuto un impatto. Ha segnato 4 gol e servito 2 assist. Con il suo infortunio la squadra ha perso ogni coordinata offensiva. A quel punto l’assenza di esterni di attacco è diventata pesante. È rimasto il Napoli dello scorso anno, ma più stanco e confuso, senza punti di riferimento. E senza Lukaku, infortunato, che contro il Bologna sarebbe servito per offrire una scappatoia semplice al pressing.

Conte, nel frattempo, se la prende con i giocatori: "A Noa Lang piace molto la musica, è un buon cantante e buon ballerino, ma per me è importante che sia un buon calciatore” aveva detto Conte dopo Eindhoven, in risposta a un giornalista che gli chiedeva quando avremmo visto Lang titolare. Uno dei migliori giocatori della stagione è stato - finché è durato - Leonardo Spinazzola, che senza un esterno di ruolo davanti a sé ha interpretato il ruolo di terzino ultra-offensivo, mettendo a frutto un gol e due assist.

La maniacalità con cui il Napoli cerca di sviluppare questa manovra rarefatta, con entrambi i terzini alti e pochi giocatori a protezione dei due difensori centrali, ha esposto la squadra a brutte figure. Prende gol in tutte le partite: due da Pisa, Milan e Manchester City, uno da Sporting, Genoa, Fiorentina e Torino, addirittura sei (sic!) dal PSV.

Il Napoli 2025/26 sembra, per ora, un compromesso mal riuscito tra Conte e i suoi demoni: si può ancora dipanare questo nodo?

***

Il lavoro è sempre difensivo. I tre clean sheet consecutivi prima di Bologna avevano dato l’impressione di un Napoli tornato solido. In realtà, contro Como e Lecce il Napoli ha concesso due rigori ingenui, da squadra che non appena si distrae combina una frittata. Ne è uscito indenne grazie all’istinto di Milinkovic-Savic, ma l’odore della superficialità è tornato al Dall’Ara, dove la squadra di Conte ha concesso due gol dal limite dell’area piccola. Un rovesciamento della realtà.

In queste settimane abbiamo visto Antonio Conte andare incontro a un burnout selvaggio. Anche di fronte alla domanda più pacifica ha messo in scena un’aggressività fuori scala persino per lui. Quando a inizio novembre gli hanno chiesto come mai gli attaccanti del Napoli non segnano – e non è un tema da poco: Politano, Neres e Lang hanno racimolato zero gol e quattro assist in tre – la scena è diventata ridicola: «Prima il problema era la difesa, ora non prendiamo gol e si parla dell’attacco. Qualcuno deve aver fatto gol, perché siamo primi in classifica».

Non più tardi di sei mesi fa Antonio Conte ha vinto il quinto Scudetto su sei campionati di Serie A in cui ha allenato dall’inizio alla fine. Nell’altro, quello in cui non ha vinto, è arrivato secondo. È un record che si fonda anche sull’inaccettabilità del fallimento. Sbagliare la stagione, attraversare anche solo un momento di crisi, non è contemplato. Per questo il Napoli sembra morto nonostante sia ancora in corsa per tutti i suoi obiettivi, per questo - viceversa - è ancora in corsa per i suoi obiettivi nonostante sembri morto.

Ieri Conte si è incontrato con De Laurentiis e nel frattempo sui alcuni giornali si scriveva che aveva dato le dimissioni - rifiutate. Una storia smentita dal presidente su X. “Una favola”.

De Laurentiis è orgoglioso di avere al suo fianco un uomo “capace di sacrificare ogni secondo della sua vita per la sua professione”. Mentre soffre, a Conte è impossibile far domande: sull’impostazione tattica della stagione, sulla prevenzione degli infortuni, sulla gestione delle energie fisiche e mentali di un gruppo logorato.

È passato un anno e poco più da quando Conte è diventato l’allenatore del Napoli. I tifosi lo hanno bramato per mesi, durante la stagione del decimo posto, come l’unica soluzione possibile. Lui si è presentato promettendo serietà, e questo ai tifosi è piaciuto. Mentre tutti gli eroi dello Scudetto facevano carte false per andarsene, o se ne erano già andati, nel buio il Napoli si era affidato a un uomo solo. E ora con un uomo solo sembra poter implodere, mentre quello stesso uomo parla come se non avesse alcun potere sugli eventi: “Qualcosa bisogna fare, perché io non ho voglia di accompagnare un morto”.

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