
Questa storia potrebbe cominciare durante una serata del lontano marzo 2001, quando mancano sei mesi all’attacco delle Torri Gemelle. Nella casa di qualcuno c’è una televisione a tubo catodico sintonizzata su Rai 1: in onda “Scommettiamo Che”, condotto quell’anno da Fabrizio Frizzi e Valeria Mazza. In studio ci sono Megan Gale e Bud Spencer. Stanno assistendo a una staffetta di quattro campioni master italiani, composta da atleti che hanno superato i settant’anni di età.
Oppure, la storia potrebbe cominciare a poche pagine dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Ci sono otto bambini che nuotano, al largo del porto di un paese che s’affaccia sul mare: fanno bracciate verso una paranza, tradizionale imbarcazione da pesca, ormai sostituita dai moderni pescherecci a motore. Dicevamo, ci sono otto giovani balilla e gareggiano per toccare le sponde della paranza. Sono osservati dai delegati del nuoto locale.
Ancora, questa storia potrebbe iniziare negli anni ‘80, un uomo sta nuotando in mare aperto da circa diciotto ore. Le luci delle isole Tremiti, circondate dal buio delle acque, fanno da malinconica meta di un viaggio lungo più di quaranta chilometri di mare Adriatico.
Facciamo invece iniziare la storia verso fine agosto, poche settimane fa. Le temperature cominciano finalmente a far respirare dopo un’estate rovente. Siamo a Termoli, cittadina di mare che sta nel mezzo tra due regioni. Attraversando tutta la costa di Termoli, porto dell'Adriatico, si ripercorre parte della storia d’Occidente: c’è il castello svevo e le sue mura che ricordano la guerra dei mari tra cristianità e mondo arabo; i palazzi eleganti del Novecento, pescherie, baretti che emanano ancora l’odore del legno perso, le stradine strette di sanpietrini bollenti; mentre verso sud, direzione terra foggiana, brillano atmosfere di un immaginario costellato di villette tirate su direttamente sulla spiaggia, a ricordare il periodo d’oro dell’edilizia sfrenata e trasognata degli anni ottanta. Si inseguono in parallelo la linea dei treni e quella automobilistica della statale che a nord conduce nel vastese, Abruzzo, puntellata di villaggi turistici, un grattacielo pallido di vecchiaia e qualche stazione di benzina frequentata da camionisti e bevitori seriali di Peroni da 66cl.
Io e una mia amica abbiamo un appuntamento con Antonio Casolino, figura leggendaria del nuoto locale. Ci siamo organizzati per incontrarci in una delle piccole piazze centrali del centro storico.
Sono le dieci di mattina, la via che ospita il nostro incontro è invasa dall’odore dei caffè appena serviti, delle pizze al taglio appena sfornate; i camerieri già si apprestano a disporre i tavoli e a stendere le tovaglie per i clienti del pranzo. Antonio Casolino è seduto a uno dei tavoli di una pizzeria. Indossa degli occhiali da sole. Le lenti non nascondono l’evidente espressione di chi non si può dire d’essere pregno di felicità.
Me ne rendo conto quando ci avviciniamo per salutarlo. «Buongiorno professore!». Un silenzio di interminabili, pochi, secondi, «Siete in ritardo». Guardo l’orologio al polso, «... Di cinque minuti». «Io sono sempre in orario».
Sorrido imbarazzato verso la mia amica e mi scuso, ma non potevamo fare a meno di fermarci - proprio cinque minuti - per un caffè sulla via del corso. «Quindi, cosa volete fare?».
Cosa voglio fare? Bella domanda. Antonio Casolino ha 94 anni ed è stato una figura storica per il nuoto locale. Tutti i termolesi lo hanno visto aggirarsi decine di volte in bici per le vie del centro o, poco ma sicuro, ne hanno sentito parlare per una delle sue imprese marinare. Intervistare una persona che ha superato le soglie della terza età da tempo può essere operazione difficile per una lunga serie di motivi, ma intervistare una persona anziana con un carattere complesso e coriaceo come quello del signore che ho davanti lo è stato ancora di più.
Gli dico che ci piacerebbe fargli un’intervista, parlare della sua vita: dentro e fuori dall’acqua. Dopo qualche minuto di silenzio ci dice che lui ha una stanza dedicata ai suoi trofei e che se vogliamo possiamo vederla. Antonio ci fa entrare nello stabile proprio dietro di noi, la stanza dei trofei è subito al piano terra.

Ci sono decine e decine di medaglie, una quarantina di coppe contate a occhio. Ci sono foto, per lo più risalenti agli anni ‘90: parlano di gare vinte dal Marocco al Canada, dalla Slovenia a tutta la costa adriatica italiana. Gli chiedo di mettersi in posa per uno scatto, che per Casolino è qualcosa di naturale. Quella sala della gloria sembra addobbata così per invitare lo spettatore a richiedere la presenza del suo protagonista. Sono anni che Antonio si fa immortalare nella camera dei trofei: dai parenti e amici, dai giornalisti locali e da chi ha seguito le sue imprese durante tutta la seconda metà del novecento. Tra le fotografie che rappresentano per lo più un trionfante Casolino in costume spicca uno scatto diverso dagli altri: è quello del primo piano di una donna, una foto probabilmente risalente agli anni ‘30 o dintorni. È la mamma di Antonio.
Dopo qualche minuto Antonio ci dice se vogliamo spostarci. Do un’ultima occhiata a tutti quei metalli brillanti, dico di sì, usciamo dalla camera e ci spostiamo all’interno del ristorante di fianco. Chiede ai camerieri di tenerci per qualche minuto in una sala (spoiler, saranno due ore), ci sediamo a un tavolo. Antonio ci fissa negli occhi. Almeno penso. Fa una pausa lunga, ne farà tante tra un monologo e l’altro. Indossa la t-shirt dei Mondiali di Montreal del ‘94. «Nel 1899 mia madre è nata in quell’angolo», ci dice.
Volevo incontrare un nuotatore per sentirne le imprese sportive, ma nell’ora successiva avrei scoperto che tutto quello che contava nella vita di quell’uomo è sempre stato fuori l’acqua. Anzi, la vita di Casolino, fin dall’infanzia, è legata a uno dei lavori più terrestri che si possano immaginare: quelli del carbonaro e del taglialegna.
Antonio ci racconta della madre che a nove anni già lavorava in una rivendita di carbone, che lui di fratelli e sorelle ne aveva sette ed era il più grande. Che ha lavorato cinquantuno anni con la mamma e in totale sono settantuno. Per anni ha spaccato legna che per lo più veniva utilizzata per cuocere pane e pizza per i privati, ristoranti e pizzerie. Quando parla di “record”, per la prima volta nel nostro incontro, non lo fa per parlare di quelli del nuoto.
«Ogni inverno spaccavo migliaia di quintali di legna, l’ho fatto per decenni». Cinquemila quintali di legna, ci dice. «Lo sai quanti sono? Cento camion di legna da cinquanta quintali l’uno. Nel ‘61 ho fatto il record, settemila quintali. Era l’anno in cui è morta mia madre. In un giorno ne ho fatti 93, è stato il mio record».
Antonio è ossessionato dai numeri, che sono il denominatore comune dei suoi monologhi. Che siano quelli dei suoi record personali, degli anni degli eventi della vita, che siano i metri quadri di appartamento che gli è rimasto e nel quale vive; o siano faccende di soldi, storie familiari che lo infastidiscono, che siano i 160 metri quadri di area fabbricabile che si è fatto da solo, dei 120 quintali di legna che scaricò a mano durante una tormenta di neve. L’ossessione per la misura ovviamente invade anche la sua vita da nuotatore. Tutti a Termoli - tranne il sottoscritto - conoscono come nasce il Casolino nuotatore.
Ci racconta di quando da bambino passava le ore a guardare il mare seduto sul costone dietro al Palazzo degli Onorevoli (uno dei palazzi storici del borgo antico). «Meditavo sopra questa bellissima scogliera. Aspettavo che passasse il gruppo dei nuotatori di Termoli, dei giovani grandi - fascisti - comandati da un colonnello fascista. Li vedevo passare sotto i trabucchi, tutte le mattine».
Nella foto potete ammirare un trabucco, proprio dietro Antonio e le sue medaglie.

«E mi dicevo che io c’ho otto anni, ma sono capace di nuotare come loro». «Se lo immaginava?». «Sì. E una mattina mi sono deciso. C’era un viottolo che scendeva dalla scogliera: mi sono messo a correre, poi mi lascio il pantaloncino sopra lo scoglio e mi butto in acqua per avvicinarmi a loro. Nuotavamo dal porto a Rio vivo (la costa sud della città, ndr). Quella mattina un signore mi vide nuotare e mi propose di partecipare a una gara di balilla che sarebbe avvenuta qualche giorno dopo. Mi ricordo ancora quando mi disse “Antò, ci sta una gara dei cinquanta metri”. Vinceva chi avrebbe toccato per primo la paranza che faceva da traguardo. La mia mano fu la prima, e da allora non ho più smesso di nuotare. Nemmeno sotto le bombe della seconda guerra mondiale».
Nei racconti del post 1945 Antonio ha lavorato per sedici mesi nel campo di aviazione di Ramitelli (frazione di Campomarino). Si occupava di supporto alle squadre di medici e infermieri, successivamente, di costruzioni di piccole abitazioni per i soldati americani.
Lavorava con un’intera divisione di soldati afroamericani e ci dice di aver conosciuto il figlio del primo generale americano nero. Conducendo qualche ricerca sulla rete penso di poter confermare che la divisione della quale parlava Antonio fosse la Tuskagee Airmen, un reparto di piloti da caccia riservato agli uomini di colore. Venivano chiamati anche Red Tails, tant’è che esiste un film prodotto da George Lucas e interpretato da Cuba Gooding Jr. che ne parla.

La base aerea di Ramitelli nel 1944 (US Army/PhotoQuest/Getty Images).
Ramitelli non ha conservato i vecchi e gloriosi spazi militari della Tuskagee, sostituiti da campi coltivati dedicati all’agricoltura locale. C’è un momento in cui gli chiedo se, in quegli anni, si fosse fatto amico dei soldati o compagni di lavoro. «In quegli anni dopo la guerra non avevo nemmeno un amico. Per avere un amico devi poter parlare, un amico significa avere tempo libero da spendere: ma io non avevo tempo da perdere». La dialettica di Casolino è perennemente legata a un’idea di performance che a volte mi suona dolorosa, seppur sempre volontaria.
Ci racconta della fondazione del CSI (Centro Sportivo Italiano), successivamente all’armistizio italiano dell’8 Settembre: a livello nazionale quello che stava succedendo era la riformulazione delle organizzazioni senza scopo di lucro, post-governo fascista e su indicazione e guida dell’Azione Cattolica. Antonio successivamente fonderà la Termoli nuoto e nei suoi decenni come maestro passeranno migliaia di allievi. Nel 1950 costruisce da zero la squadra della pallanuoto, campo incluso, utilizzando come rete quelle vecchie dei pescatori.
In quegli anni ci sono le maratone dell’Adriatico, in quelli successivi tre titoli mondiali ed europei. Dopo circa un’ora di storie, per lo più familiari, non avevo ancora sentito parlare di quello che più mi faceva fantasticare sulla sua figura: la traversata verso le Isole Tremiti. Per chi è nato e cresciuto sulla costa penso esista, nei confronti delle isole, una sorta di fascinazione naturale: una porzione di terra per lo più visibile, da ammirare nei giorni più chiari d’estate. Le Isole Tremiti hanno una lunga storia di civilizzazione, che affonda al terzo secolo dopo Cristo. Vengono chiamate isole Diomedee perché, racconta una lontana leggenda, a fondarle fu Diomede, eroe acheo di ritorno dalla guerra di Troia, con le rocce della distrutta città di Pergamo. Frontiera marina per uomini di fede e luogo d’esilio fin dai tempi di Carlo Magno, negli ultimi anni sono note per essere state una delle mete più amate da Lucio Dalla quando era in vita. E poi c’è una curiosa diatriba di politica internazionale, quando nel 1987 Gheddafi dichiarò la sottomissione dell’isola al governo libico per una questione legata alle deportazioni dell’era giolittiana.
Quando si scopre la storia di un’isola viene spontaneo immaginare quanto fosse diverso vivere un luogo che oggi è facilmente raggiungibile grazie ai collegamenti navali assicurati dalla modernità. Si può speculare immaginando la navigazione e i suoi rischi nei secoli passati, ma nessuno si sogna di raggiungere un’isola, dalla costa, direttamente a nuoto. O almeno nessuno prova a farlo per davvero. Antonio Casolino sognava di raggiungere le Tremiti fin dal 1936, l’anno in cui decise di sfidare gli altri sette balilla.
Nella realtà lo fa due volte, la prima nel 1987 insieme a un eroe del nuoto del Gargano, Paolo Pinto. Quando mi dice che la distanza tra Termoli e le isole è di 45 chilometri, finalmente sorride: «ci ho messo diciotto ore, nella mia vita l’ho fatto solamente due volte perché è stato faticoso». Non c’erano pause, erano seguiti da una barca di supporto che di tanto in tanto permetteva ad Antonio di bere dell’acqua. La seconda volta lo fa a settanta anni.
Non è stata l’unica impresa che mi piace definire "superumana": ci sono i 33 chilometri della Termoli-Vasto, i 5 dell’attraversamento del lago di Guardialfiera (in Molise).
A 85 anni diventa campione del mondo ai Mondiali di Riccione, con 15’16 nella Categoria dei Master. A Riccione ne vince due di mondiali, ai quali si sommano quelli in Canada e Marocco. Confesso di avere avuto difficoltà a segnare gli anni, i tempi e tutti i luoghi raccontati da Antonio. C’è poi questo aneddoto che vale la pena di ricordare: quando Casolino ha partecipato a una staffetta (da record, ovvio) durante una puntata di Scommettiamo Che. Nel 2001 la staffetta di ventenni australiani aveva imposto un record nella 4x100 di stile libero di 3’13’’: l’obiettivo era di fare una 4x50 e stare sotto quei tre minuti. La metà dei metri in cambio di una sessantina di anni di differenza a nuotatore. Erano Luciano Canessa, Aldo Caputi, Domenico Antonio Casolino e Celio Brunelleschi: fecero 2’52’’. In studio c’è Bud Spencer che, quando era solamente Carlo Pedersoli, fu il primo a infrangere il muro del minuto nei 100 metri stile libero. Il legame a livello biografico tra Casolino e Pedersoli si rifà ai tempi del militare, entrambi nuotavano per la SS Lazio.
I camerieri del ristorante che ci ospita infilano la testa e fanno qualche timido passo verso di noi. Erano passate circa tre ore dal nostro incontro ed era arrivato il momento di preparare i tavoli per i turisti che sarebbero arrivati a pranzo. Confesso a me stesso la stanchezza e mi lancio nella domanda più banale di tutte: a cosa pensa quando nuota? «Penso a cosa devo fare fuori dall’acqua, a cosa sto facendo. A volte piango. Bagno gli occhialini, mi fermo, li asciugo, riparto». «Per la stanchezza?», «Non l’ho mai sentita la stanchezza».
Antonio Casolino è un uomo del secolo scorso. Non ha studiato al liceo (direbbe che non ha avuto tempo, sicuramente), ma i decenni passati all’interno delle organizzazioni sportive, anche come insegnante, gli hanno fatto guadagnare l’appellativo di professore. E nonostante una dichiarata ed evidente fede cattolica (sogna per la sua città una statua di Gesù Cristo a braccia spalancate, finemente posato sullo scoglio più esposto al mare) nei suoi pensieri e nei suoi gesti vive una una visione del mondo che mette al centro l’uomo e le possibilità, nessuna divinità. Quando parla di nuotare cita l’infinito e la ricerca di qualcosa che non può trovare se non dentro di sé.

Antonio si porta appresso 94 anni di racconti, abitati da persone (più o meno care) perlopiù decedute nel tempo; i suoi istinti iper-lavorativi e quel suo agonismo invadente mi fanno venire in mente una frase di Neon Genesis Evangelion: “Gli esseri umani non potranno mai affrancarsi dalla solitudine”. Alla fine di questo incontro penso che l’impresa sportiva e agonistica, quella individuale, tenti solo di sublimare questa solitudine esistenziale.
Quando torniamo all’aperto e usciamo dal ristorante la via si presenta con un volto diverso rispetto a quella di qualche ora prima: i turisti abbronzati passeggiano alla ricerca dello scorcio migliore da fotografare e i camerieri trafficano sui tavoli. Un signore ci passa di fronte ed entra nello stesso palazzo che ospita l’appartamento e la sala dei trofei di Antonio.
«Chissà se quello l’ha mai spaccato un pezzo di legno», dice Antonio. Poi sorride, finalmente.