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Andrea Minciaroni
L'anno degli italiani
28 ott 2015
28 ott 2015
Il racconto della stagione ciclistica di Luca Paolini, Vincenzo Nibali, Fabio Aru e Diego Ulissi.
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Andrea Minciaroni
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Secondo l'UCI, l'organizzazione mondiale che coordina le attività agonistiche nel mondo del ciclismo, la stagione 2015 si concluderà ufficialmente il 20 dicembre con il Grand Prix di Youssoufia, in Marocco. Se prendiamo però in considerazione solo le gare più importanti, che solitamente, a esclusione del Mondiale, rientrano nei cosiddetti circuiti World Tour, possiamo invece dire che la stagione 2015 si è conclusa il 4 ottobre con la vittoria di Vincenzo Nibali al Giro di Lombardia.

 

Per il secondo anno di fila il corridore che ha totalizzato il miglior punteggio in questa classifica stagionale è stato ancora una volta Alejandro Valverde, con 675 punti. Come lo scorso anno neanche un italiano si è classificato nelle prime tre posizioni. A differenza del passato, inoltre, l'unica squadra italiana World Tour è la Lampre-Merida, dodicesima nella classifica a squadre.

 

Ciò nonostante, la classifica per nazioni—che raggruppa i punteggi di tutti i ciclisti di ogni Paese—ci vede ancora saldi al secondo posto dietro la Spagna. L'Italia ha totalizzato 1106 punti finali grazie a cinque corridori: Fabio Aru (448), Domenico Pozzovivo (242), Vincenzo Nibali (238), Diego Ulissi (98) e Luca Paolini (80).

 

Eppure questi numeri spiegano solo in parte l'andamento reale di questa stagione per gli italiani. Chi vuole provare a tirare le somme, a fare un bilancio generale, non può affidarsi unicamente ai ranking dell'UCI. Ad esempio, questi non possono spiegarci perché ancora una volta non siamo riusciti a essere protagonisti durante un Mondiale, come non possono spiegarci perché continuiamo a incontrare tante difficoltà nelle classiche, mentre rimaniamo competitivi nelle grandi corse a tappe, come non possono spiegarci la stagione pazza di Vincenzo Nibali, la gloria e la discesa all'inferno di Luca Paolini, la promessa mancata di Diego Ulissi, o la vittoria di Fabio Aru alla Vuelta.

 

Senza perdere troppo tempo dietro a numeri e statistiche, e astenendosi da giudizi tagliati con l’accetta, è meglio limitarsi a raccontare alcuni dei suoi protagonisti.

 



Dai tempi di Paolo Bettini non abbiamo più un vero corridore da classiche. L'ultima volta che un italiano ha vinto una classica monumento—se escludiamo Nibali quest'anno—dobbiamo tornare indietro al 2008, con la vittoria di Damiano Cunego al Giro di Lombardia. Sette anni passati a rincorrere qualche promessa: Pozzato, ma anche Ballan o Gasparotto, senza vedere mai realizzato il sogno di avere un Tom Boonen o un Fabian Cancellara italiano. È difficile spiegare per quale motivo non riusciamo più a sfornare corridori adatti a questa specialità, mentre invece continuano a emergere talenti per le grandi corse a tappe, come Fabio Aru, ma anche il meno conosciuto Davide Formolo.

 

Verso la metà di marzo, quando la stagione entra nel vivo con la Milano-Sanremo, è facile percepire nell'aria un senso di rassegnazione. Neanche i più ottimisti sperano di vedere qualche italiano primeggiare, anzi, tutti aspettano la partenza del Giro d'Italia.

 

Eppure è andata diversamente: un italiano ha vinto a marzo, e per giunta una classica del pavé, in Belgio. Luca Paolini, un corridore che nell'arco della sua carriera ha raggiunto alcuni risultati importanti—un podio alla Milano-Sanremo, uno al Giro delle Fiandre, un bronzo al Mondiale e qualche tappa al Giro e alla Vuelta—ma che non possiamo certamente definire un corridore di prima fascia. Diviso tra il ruolo di regista e gregario di lusso, Luca Paolini non è mai riuscito a conquistare una classica. Questo fino al 29 marzo 2015.

 

La Gand-Wevelgem venne creata nel 1934 da George Mattys come gara riservata ai dilettanti. Solamente nel 1945, dopo undici anni, diventa una corsa aperta ai professionisti. Si disputa in Belgio ogni anno nel mese di marzo con un percorso che congiunge le Fiandre Orientali con la città di Gand, e le Fiandre Occidentali con la città di Wevelgem. Tra le classiche del pavé è sicuramente quella meno prestigiosa, niente a che vedere con la Parigi-Roubaix o il Giro delle Fiandre, che infatti vengono definite come classiche monumento.

 

L'edizione di quest'anno misurava 239 km ed è stata caratterizzata soprattutto dal maltempo, un fattore che è in grado di determinare lo sviluppo e gli esiti di qualsiasi corsa. Su oltre duecento partecipanti solamente in trentanove sono riusciti a raggiungere il traguardo. Il freddo, la pioggia, e un forte vento laterale—con raffiche fino a 50 km/h—sono stati gli ingredienti di una selezione naturale che non ha risparmiato nemmeno corridori del calibro di Peter Sagan.

 

Luca Paolini è stato il primo tra quei trentanove corridori che sono riusciti a raggiungere il traguardo finale, registrando un tempo di 6 ore 20 minuti e 55 secondi; undici in meno di Niki Terpstra e Geraint Thomas, piazzati rispettivamente secondo e terzo. Una vittoria costruita negli ultimi 6 km di corsa, con un attacco che ha permesso a Paolini di rimanere in testa da solo senza il pericolo di uno sprint negli ultimi metri.

 

La vittoria di Luca Paolini alla Gand-Wevelgem, a prescindere da come è stata costruita, può essere definita un'impresa, soprattutto considerando l'età del corridore e il maltempo.

 



 

Il 7 luglio del 2015, a distanza di oltre tre mesi da questa vittoria, durante un controllo antidoping, Luca Paolini è stato ritrovato positivo alla cocaina. C’è da dire che chi oggi nel ciclismo vuole alzare le proprie prestazioni con il doping non lo fa utilizzando la cocaina. Una sostanza del genere, al pari dell'EPO, è troppo facile da rintracciare e non è poi cosi efficace. Depennare in un colpo solo—come troppe volte è stato fatto in questo sport—l'intera carriera di Luca Paolini, dimenticando il corridore che è stato in quindici anni di professionismo, sarebbe ingiusto. La positività alla cocaina prescinde dalla sua carriera di corridore, e pare essere più associata a questioni personali.

 

Se provate ad andare su Google e digitate "Luca Paolini" tra i primi risultati che trovate, oltre al suo profilo Twitter e la biografia su Wikipedia, non compare alcuna menzione della sua vittoria alla Gend-Wevelgem.

 

Se tutta l'informazione ruotasse solamente intorno ai primi dieci risultati di Google, come in parte già accade, a Paolini non sarebbe riconosciuta la vittoria della classica belga. Luca Paolini è un corridore professionista dal 2000 e, nonostante alcuni risultati importanti, è solamente nei quattro mesi finali della sua carriera che è balzato all'onore delle cronache. In questo periodo ha conquistato una classica del pavé e poi si è fatto beccare a un controllo antidoping per cocaina. Gloria e discesa agli inferi concentrati in soli quattro mesi su quindici anni di carriera.

 



La stagione di Vincenzo Nibali è stata una delle più pazze degli ultimi anni, sicuramente la più strana di tutta la sua carriera. Nel primo periodo dell’anno sparisce dai radar per mesi interi, presentandosi poi al Giro del Delfinato con una condizione indecifrabile in vista del vero obiettivo stagionale: il Tour de France 2015.

 

Da quel momento succede di tutto: prende il via al Tour con la maglia numero uno sulle spalle e guadagna un discreto vantaggio sugli avversari fin dalla prima tappa a cronometro, poi le cadute e la sfortuna nei giorni successivi lo costringono a una rincorsa sfrenata, e infine il crollo: sulla prima salita, nella tappa pirenaica verso La Pierre Saint-Martin. Bastano dodici km per far saltare Nibali, l'attacco di Chris Froome che con quell'azione ammazza il Tour nella prima settimana e annulla le speranze di competere per la maglia gialla.

 

Nibali al Tour de France ha dimostrato una condizione fisica e psicologica decisamente inferiori rispetto allo scorso anno e la possibilità di una vittoria finale

remota fin dalla prima settimana. Mentre Vinokurov—il direttore sportivo dell'Astana—si è dimenticato presto del corridore che gli ha fatto vincere la maglia gialla solo un anno prima, e in molti hanno iniziato a pensare a un possibile ritiro dalla corsa, Nibali ha continuato a rimanere in sella alla sua bicicletta, macinando km senza il pensiero di una vittoria sfumata e di un podio sempre più lontano.

 

Mentre Chris Froome dominava la Grand Boucle praticamente senza rivali, la condizione di Nibali è iniziata lentamente a migliorare, una netta ripresa che ha raggiunto il suo apice nella vittoria della diciannovesima tappa da Saint-Jean-de-Maurienne a La Toussuire. Il giorno dopo

gli ha dedicato la prima pagina, con una foto che lo ritrae mentre urla in vista del traguardo, e un titolo sintetico e molto efficace: "Pour l'honneur".

 

Se, però, dovessi scegliere una singola immagine per rappresentare quello che è stato il Tour de France di Vincenzo Nibali, non sarebbe quella prima pagina. C'è un’immagine che forse è ancora più significativa perché rappresenta, nella semplicità del suo momento, l'elemento che ha caratterizzato buona parte della stagione del siciliano: la sfortuna.

 

L'immagine è quella che lo ritrae mentre, poco prima dell'attacco dell'ultima salita del Tour de France, l'ultima occasione per attaccare Valverde e salire sul podio, si accorge di aver forato.

 

https://youtu.be/pDYInF6kXnU?t=22m24s

Il momento in cui prende consapevolezza di non poter fare nulla. È costretto al cambio bici, ma è andata.



 

Sarebbe inopportuno, però, parlare solo di sfortuna, data l’ingenuità che lo ha visto protagonista alla Vuelta. Nella seconda tappa, dopo un problema meccanico, Nibali ha deciso di attaccarsi a un'ammiraglia, facendosi trascinare per alcuni metri, così da recuperare più velocemente il ritardo accumulato nei confronti dei suoi avversari. Poteva essere il momento del rilancio, con un’ottima condizione per una possibile vittoria finale ed è stato bruciato all'improvviso.

 

Nel ciclismo, si sa, scorrettezze di questo tipo accadono spesso, questo però non giustifica il comportamento di Nibali, come non giustifica il linciaggio mediatico a cui poi è stato sottoposto nei giorni seguenti. Nibali non ha potuto prendere parte a qualsiasi altra corsa fino al termine della Vuelta, e sui social network è stato oggetto di molti commenti negativi. Rimproveri e insulti che lo hanno spinto, per un breve periodo, a

il suo profilo ufficiale di Twitter.

 

Ma anche questo aspetto fa parte della pazzia che ha caratterizzato la sua stagione. L'anno di Nibali è stato totalmente imprevedibile, l'aver fallito sia il Tour che la Vuelta forse lo ha motivato di più a fare meglio nella seconda parte della stagione. Le conquiste di gare “minori” prima del Mondiale, come la Coppa Bernocchi e la Tre Valle Varesine, sono lì a testimoniarlo. Senza dimenticare la conquista, per il secondo anno di fila, del campionato italiano.

 

Accompagnato da un sentimento di rivalsa, e da una condizione esplosa in ritardo rispetto all'obiettivo Tour, Nibali ha poi conquistato una vittoria di grandissima importanza: il Giro di Lombardia.

 

Certo, una cosa va sottolineata: il fallimento della Nazionale al Mondiale. Con i gradi di capitano affidatigli dal c.t. Davide Cassani, Nibali non è riuscito a rendersi protagonista, non è praticamente mai uscito allo scoperto durante la corsa, neanche nei tre brevi strappi finali, quelli decisivi.

 



La Vuelta a España, per un pubblico poco abituato a seguire il ciclismo, può risultare meno interessante rispetto al Tour de France o al Giro d'Italia. A prescindere dall'andamento poco entusiasmante di questa edizione, dovuto forse anche a una carenza di pubblico senza precedenti, la Vuelta resta comunque una corsa fondamentale per chi aspira a diventare un corridore specializzato nelle grandi corse a tappe.

 

Quasi un passaggio obbligatorio, una palestra utile a consacrarsi poi su palcoscenici più illustri. L'ultimo italiano ad aver indossato la maglia roja portandola fino a Madrid è stato Vincenzo Nibali nel 2010, prima della conquista del Giro d'Italia nel 2013 e del Tour de France nel 2014.

 

Dal 1935, l'anno in cui è stata inaugurata la Vuelta, solamente cinque italiani sono riusciti a vincerla: Angelo Conterno (1956), Felice Gimondi (1968), Giovanni Battaglin (1981), Marco Giovannetti (1990), e Vincenzo Nibali (2010). A questi cinque nomi quest'anno si è aggiunto quello di Fabio Aru.

 

Classe 1990, nato a San Gavino Monreale, in Sardegna, Fabio Aru ha iniziato la sua carriera da professionista solamente tre anni fa: il 20 agosto del 2012, quando, con la maglia dell'Astana, ha debuttato nel Tour of Colorado. Prima del suo debutto come professionista, già tra i dilettanti, ha dato mostra di un talento puro per le corse a tappe, soprattutto quelle più dure, come il Giro delle Valli Cuneesi e il Giro della Valle d'Aosta, entrambe conquistate nel 2011.

 

In soli tre anni da professionista Fabio Aru conta già un palmarès di un certo livello: ha conquistato tre tappe di montagna al Giro d'Italia—una nel 2014 e due nel 2015—si è piazzato secondo nella classifica generale 2015, ha poi vinto due tappe di montagna alla Vuelta—tutte e due nel 2014—e la classifica generale dell'edizione 2015. A soli 25 anni è riuscito già a scrollarsi di dosso l'appellativo di "promessa" e oggi è forse tra i primi corridori al mondo per i grandi giri. Non è un caso se Vinokurov l'ha voluto fortemente con sé, e se Davide Cassani ha deciso di portarlo al Mondiale di Ponferrada lo scorso anno.

 

Provare a immaginare il futuro di Fabio Aru è forse ancora presto, è difficile capire se sarà in grado di mantenere costante questo livello da qui ai prossimi cinque, otto anni. Se ci riuscirà, probabilmente l'Italia potrà vantarsi di un corridore che farà incetta di qualsiasi grande giro a cui prenderà parte. E questo fa sperare che, a prescindere da quello che farà Nibali, non bisognerà più aspettare altri sedici anni per vedere un italiano vincere a Parigi.

 

Nonostante la vittoria di Fabio Aru alla Vuelta abbia suscitato poco clamore da parte dei media nazionali, più concentrati a dare risalto alla finale tutta italiana degli US Open tra Flavia Pennetta e Roberta Vinci, la conquista di una corsa a tappe di ventuno giorni da parte di un italiano è un evento raro. È vero che questa edizione non è stata così brillante, nonostante i prestigiosi nomi alla partenza: Chris Froome, Nairo Quintana, Alejandro Valverde e Vincenzo Nibali. Praticamente, escluso Alberto Contador, i protagonisti più importanti del Tour de France. Nessuno tra questi però, forse a causa della stanchezza accumulata nella partecipazione al Tour, ha rappresentato un vero pericolo per Fabio Aru. L'unico che è riuscito a tenergli testa fino alla fine è stato un outsider: Tom Dumoulin.

 

Un corridore che nessuno immaginava potesse rappresentare un pericolo per Fabio Aru è riuscito ad arrivare in maglia rossa fino alla penultima tappa della Vuelta. Facendo leva sulle sue qualità di cronoman, e riuscendo a limitare i danni in salita, Tom Domulin ha rischiato seriamente di compromettere la vittoria di Fabio Aru. Solamente nell'ultima tappa di montagna, da San Lorenzo de El Escorial a Cercedilla, ha ceduto la maglia di leader della generale. Con un attacco deciso, e supportato dalla perfetta tattica di squadra dell'Astana, Aru è riuscito a isolare il corridore della Giant-Alpecin già a 50 km dall'arrivo. Una resa senza condizioni che ha spianato la strada ad Aru verso la vittoria finale.

 



 



Il 25 giugno 2014, in uno dei momenti più brillanti della sua carriera, viene diffusa dall'UCI la notizia della positività di Diego Ulissi a un controllo antidoping. Una squalifica di nove mesi lo costringe a rinunciare al Mondiale, e la Lampre-Merida, squadra con cui corre dal 2010, decide di sospenderlo provvisoriamente. La sostanza ritrovata nelle urine di Diego Ulissi al termine dell'undicesima tappa del Giro d'Italia 2014 e risultata poi positiva ai test antidoping è il salbutamolo: un composto a breve durata d'azione che viene utilizzato come farmaco broncodilatatore per ridurre condizioni patologiche come l'asma.

 

L’utilizzo di farmaci da parte dei corridori è una vicenda complessa: nel tempo ha coinvolto diversi atleti come Alessandro Petacchi e Chris Froome. I broncodilatatori sono consentiti nei limiti dovuti, lo stesso Froome utilizza inalatori come il Ventolin, che permettono, a corridori con un deficit di questo tipo, di continuare a svolgere una regolare attività fisica anche ad alti livelli.

 

In Diego Ulissi la percentuale di salbutamolo era però a un livello quasi doppio rispetto ai limiti consentiti: 1900 ng/ml rispetto al limite fissato di 1000 ng/ml. La camera disciplinare che ha deciso la squalifica di nove mesi ha tuttavia motivato la sentenza senza riconoscere la volontà del corridore di migliorare le proprie prestazioni, ma unicamente per una questione di negligenza. È anche per questo motivo che la squalifica ha avuto una durata di soli nove mesi, e il 26 marzo di quest'anno Diego Ulissi è stato reintegrato ufficialmente dalla sua squadra ed è tornato a correre.

 

A mio avviso questo episodio rappresenta uno snodo fondamentale nella carriera di Diego Ulissi. Come è cambiata la sua attitudine alle corse dopo aver scontato una squalifica di nove mesi per doping? A prescindere dalla sentenza in sé, dove non è stata riconosciuta la volontà di elevare le prestazioni attraverso il doping, la squalifica ha rappresentato per Diego Ulissi uno stop improvviso, che lo ha costretto—con tutte le conseguenze del caso—a un fermo di quasi un anno intero.

 

Nel momento forse migliore della sua carriera, dopo aver conquistato una tappa al Tour Down Under, il Gran Premio Città di Camaiore, due tappe al Giro d'Italia, e soprattutto dopo aver ricevuto la chiamata in Nazionale da Davide Cassani, Diego Ulissi è stato costretto a scendere dalla bicicletta. Per un corridore non poter prendere parte per quasi un anno a una corsa significa perdere progressivamente le condizioni fisiche e psicologiche ideali per poter competere con gli altri.

 

Professionista dal 2014, messosi in luce già tra gli allievi e i dilettanti per le sue qualità, Diego Ulissi è un corridore che possiamo definire ibrido: abile in salita, anche su strappi brevi, discreto in volata e a cronometro. Un identikit che lo avvicina a un possibile corridore da classiche, quello che manca alla nostra Nazionale, ma che pecca però in un punto di non poco conto: la tenuta su percorsi che superano i 200 km di corsa. Una cosa non trascurabile per chi ambisce a diventare un corridore da classiche. Quest'anno, però, Diego Ulissi è riuscito a smentire questo fatto, vincendo in volata la tappa più lunga del Giro d'Italia: la Grosseto-Fiuggi, 264 km.

 

Il 2015 di Diego Ulissi è difficile da decifrare per diversi motivi: in primis, a causa della squalifica, ha iniziato tardi la stagione. Nonostante questo ha dato mostra delle sua qualità vincendo una tappa al Giro d'Italia e il Memorial Marco Pantani. Si è poi piazzato secondo al campionato italiano vinto da Vincenzo Nibali, e ha corso da protagonista il Giro di Polonia. C’è il “ma” del fallimento ai Mondiali di Richmond. Un percorso adatto alle sue caratteristiche, dove non è riuscito a imporsi, anche a causa di un lavoro di squadra assente.

 

Nonostante questo, per i pochi mesi di attività della sua stagione, non possiamo definire l'anno di Diego Ulissi come fallimentare. Come abbiamo detto a inizio articolo, provare a fare dei veri bilanci serve a poco, una domanda però risulta interessante: quale sarà il 2016 di Diego Ulissi?

 

Il prossimo anno per lui sarà quello della verità, con tutto il tempo necessario per programmare la stagione, consapevole di poter disputare un anno intero senza l'incubo squalifiche, e dopo aver raggiunto un'età (27 anni) adatta per emergere a livello internazionale, sembra veramente arrivato il momento di fare sul serio.

 

Diego Ulissi sarà in grado di vincere una classica monumento come la Milano-Sanremo? Sarà in grado di diventare un protagonista nella Nazionale di Davide Cassani? La speranza è quella di poter rispondere di sì a entrambe le domande, e nel più breve tempo possibile.

 
 

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