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Dario Vismara
L’anno in cui Kevin Durant si è preso il suo anello
02 gen 2018
02 gen 2018
Nessuno ha determinato il corso del 2017 quanto KD.
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Dario Vismara
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Se chiudo gli occhi e provo a immaginare il momento più importante del 2017 nel basket NBA, è difficile che non mi si pari davanti l’immagine di Kevin Durant che segna “

” sopra il braccio proteso di LeBron James, di fatto chiudendo le Finals in favore dei suoi Golden State Warriors.


Da rivedere in tutte le lingue del mondo.


 

Per comprendere a pieno questo momento, però, bisogna fare diversi passi indietro, riavvolgere il nastro della carriera di Durant e provare a rimettere in ordine le puntate precedenti che lo hanno portato fino a lì. Innanzitutto bisogna tornare al 4 luglio 2016, il giorno in cui KD ha annunciato al mondo la sua scelta di lasciare gli Oklahoma City Thunder per trasferirsi sulla Baia. Una decisione che inevitabilmente ha cambiato la percezione che il mondo ha di lui, perché se fino a quel momento gli si poteva imputare “solo” di non aver mai vinto il titolo, dopo aver scelto di unirsi alla squadra che lo aveva appena eliminato dai playoff — oltre che quella delle 73-vittorie-e-9-sconfitte, oltre che quella del 3-1 in Finale, oltre che quella del primo MVP unanime della storia — il suo nome è diventato sinonimo di “tradimento”.


 

I giorni e i mesi successivi alla sua scelta sono stati una lunga processione di persone che, sempre con la verità a portata di tasca, si sono susseguite nell’esprimere la loro opinione su una decisione personale di cui, per forza di cose, non potevamo avere tutte le motivazioni. E di cui forse, per fortuna, non le avremo mai. In quei giorni e nei mesi successivi Durant si è sentito dire qualsiasi cosa, ma invece di farsi scivolare addosso tutto quanto, si è segnato per filo e per segno ogni cosa — tanto mentalmente quanto telematicamente, utilizzando il suo “burner account” (un altro dei motivi per cui questo è stato indiscutibilmente il suo anno) per prendere le difese di se stesso contro gli haters.


 

Poi — dopo aver accumulato tutto quanto e aver rinunciato alle Olimpiadi di Rio perché palesemente lontano dalla concentrazione necessaria — è passato al campo, si è inserito nel sistema di Golden State senza nemmeno dare l’impressione di doverlo imparare, è sopravvissuto a tutto il drama del suo rapporto con Russell Westbrook e del primo ritorno a OKC, ha superato indenne un infortunio al ginocchio che poteva mettere fine alla sua stagione e, una volta arrivato ai playoff, semplicemente ha dominato.


 

Fast forward fino a “the dagger” di Gara-3: gli Warriors erano reduci da quattordici vittorie consecutive per aprire i playoff senza subire neanche una sconfitta, un ruolino di marcia che non ha eguali nella storia della lega, ma erano sotto di 6 punti a due minuti e mezzo dalla fine della partita. I Cavs avevano giocato una gara eccellente fino a quel momento ma, proprio per lo sforzo di mantenere quel livello per 45 minuti, sono crollati nel finale: un canestro in transizione concesso a Steph Curry ha aperto un parziale a cui hanno fatto seguito due errori in fila di Irving e James, quindi Durant in isolamento contro Tristan Thompson ha firmato il -2 riaprendo una partita che sembrava a un passo dall’essere chiusa. A quel punto James ha costruito un tiro tecnicamente e tatticamente perfetto per Kyle Korver, liberando uno dei più grandi tiratori nella storia della lega in angolo per una conclusione solo semi-contestata da Curry: il fatto che abbia preso solamente il ferro ha lasciato però spazio a Durant per il suo appuntamento con la storia.


 

A rivederle oggi, quelle immagini sembrano quasi rallentate, restituendo un senso di inevitabilità, come se non potesse andare in nessun altro modo che non fosse quello:


 

il rimbalzo difensivo controllato tenendo lontano Kevin Love;


 

il palleggio di sinistro per prendere slancio in semi-transizione;


 

due palleggi di destro per risalire il campo e osservare la posizione di compagni e avversari;


 

l’ultimo palleggio da destra verso sinistra notando che James era un metro troppo lontano;


 

la decisione di arrestarsi in una frazione di secondo e lasciar andare il canestro del sorpasso sopra il braccio esteso del suo idolo e rivale.


 

A questo punto conviene mettere un attimo in pausa l’azione e parlare un po’ di quanto questo canestro sia iconico proprio perché segnato in faccia a LeBron James. La storia tra i due risale a cinque anni fa, quando Durant era il leader 23enne dei Thunder insieme a Russell Westbrook e James Harden mentre LeBron, quattro anni più grande, era al secondo assalto al titolo con i suoi Miami Heat dopo aver perso in maniera rovinosa un anno prima contro Dallas. Durant era il volto pulito della NBA, il miglior giocatore di una squadra che un po’ tutti erano sicuri potesse dominare per i successivi dieci anni se tutto fosse andato per il verso giusto; James invece era uno dei più odiati protagonisti della lega, per quanto fosse riuscito a riprendersi un po’ del credito perduto con The Decision vincendo il terzo titolo di MVP della sua carriera.


 

Il loro primo incontro fu più tirato di quanto racconta il 4-1 finale in favore degli Heat, ma possedeva la stessa aura di inevitabilità vista lo scorso giugno: semplicemente LeBron non poteva permettersi di perdere quell’anello, o avrebbe passato un’altra stagione di puro inferno insieme ai suoi demoni, mentre Durant aveva ancora tutto il resto della carriera davanti per infilarsi multipli anelli alle dita. I successivi quattro anni ci hanno raccontato una storia diversa, con “KD” che non è più riuscito a tornare alle Finals e James invece sempre puntuale all’appuntamento di giugno, vincendone altri due e perdendone altrettanti. In quelle stagioni Durant è riuscito a vincere un titolo di MVP, ma non è mai riuscito a legittimare la sua candidatura al trono del miglior giocatore della NBA ai playoff, pur andandoci sempre vicino o quasi.


 

Per questo quel tiro era così importante: dopo anni a essere il secondo, segnare quel tiro avrebbe permesso a Kevin Durant di ascendere a quel rango a cui lui stesso non sentiva di appartenere, certificando il suo posto tra i più grandi del gioco. Lui stesso lo ha descritto in questi termini: «È stato il momento più bello che io abbia mai vissuto» ha dichiarato a GQ. «Ho segnato il tiro della vittoria nelle Finals contro il mio fottuto idolo. Una persona che ho seguito davvero, davvero, davvero tanto sin da quando avevo 10 anni. E ho sentito che in quel momento mi stava passando il testimone». Successivamente KD ha dovuto spiegare quest’ultima affermazione, specificando di non sentire di averlo superato James, ma che «mi stava facendo entrare in un circolo ristretto. Quello in cui ci sono LeBron, Wade, Anthony, Pierce, Bird, Dr. J, tutti questi grandi giocatori. Era il mio turno di potermi sedere con loro e godere di essere uno dei migliori al mondo».


 

Oggi la foto di quel tiro fa bella mostra di sé nei corridoi del campo d’allenamento degli Warriors, immortalando per sempre uno dei momenti più alti della storia della franchigia ma anche il culmine di un’annata in cui Durant ha dovuto sviluppare altre parti del suo gioco per inserirsi nel sistema di Golden State. In un solo anno KD si è scoperto un difensore più continuo rispetto a quanto fatto solo intravedere a sprazzi in passato, un passatore più volenteroso, una superstar meno “egoista” e un uomo più consapevole di se stesso, per quanto ancora incline a commettere errori talvolta incomprensibili come quello del “burner account”.


 

L’ultimo incontro di Natale tra i due non ha fatto altro che confermare il fatto che Durant ora va considerato quantomeno dello stesso livello di James, e la superiore familiarità con i compagni ci sta permettendo di vedere un giocatore universale, in grado di pareggiare la produzione offensiva con un impatto difensivo assurdo, trasformandosi nella versione Ultimate di qualsivoglia unicorno.


 

Ora che è anche riuscito a vincere, non c’è davvero nulla che KD non sappia fare su un campo da pallacanestro: ci sono voluti tanti episodi per arrivare al Season Finale di questo 2017, ma finalmente Kevin Durant è arrivato.


 

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