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L'anno di KD
12 ott 2015
12 ott 2015
Il titolo, l'addio, e tutto quello che sta nel mezzo del percorso che attende Kevin Durant, il personaggio più interessante della stagione NBA 2015-16.
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12 min
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È inutile girarci tanto intorno: la stagione che sta per iniziare rappresenterà, nel bene o nel male, lo spartiacque della carriera di Kevin Durant—e di conseguenza anche della storia della NBA.

Da qui a nove mesi potrebbe essersi laureato campione per la prima volta con i suoi Oklahoma City Thunder, aver firmato il più alto contratto della storia della Lega e essere pronto, a 27 anni, a dare vita a una dinastia insieme a Russell Westbrook e Serge Ibaka—che difficilmente lascerebbero OKC nel 2017 se KD decidesse di restare a lungo.

Oppure potrebbe essere eliminato un’altra volta ai playoff dai futuri campioni NBA—come gli è sempre successo tranne che nel 2013 con Memphis—e affrontare la free agency pieno di dubbi, chiedendosi se il suo tempo a OKC non sia finito e se non sia meglio ascoltare il richiamo delle sirene di Washington (casa dolce casa), Los Angeles (sponda Lakers, perché “it’s still Lakers town”), Houston (ricongiungendosi con James Harden), Miami (Pat Riley and South Beach, baby!), New Orleans (in coppia con, gulp, Anthony Davis), Golden State (sì, volendo ci sarebbero anche loro…) e sostanzialmente ogni altra squadra in grado di ritagliarsi i 25.1 milioni da cui partirà il suo prossimo contratto.

Oppure potrebbe scegliere la soluzione di mezzo: firmare un contratto di un anno con opzione per il secondo à la LeBron James, darsi un’altra opportunità per il titolo con Russ e Ibaka e decidere insieme a loro cosa fare nel 2017, quando potrà anche firmare un contratto più remunerativo (a partire da circa 30 milioni) perché avrà appena completato il decimo anno nella Lega.

Sono tutte opzioni a disposizione e ognuna con un suo senso, e sarà il risultato di questa stagione a influenzare direttamente la decisione più importante della carriera di Durant. Ed è questo ciò che rende gli Oklahoma City Thunder la squadra più interessante della stagione che sta per cominciare, anche se sembra che pochi se ne siano resi conto.

Il ritorno ignorato

Nella NBA contemporanea, un anno equivale a una vita—e Kevin Durant ha sostanzialmente saltato un intero anno di carriera, visto che le 27 partite disputate nella scorsa stagione sono un campione troppo piccolo per poterle considerare come una stagione completa nella sua evoluzione come giocatore. Tutto è iniziato circa un anno fa di questi tempi, quando nella parte esterna del suo piede destro è stata riscontrata una “Jones fracture” che lo ha tenuto fermo fino a inizio dicembre, con un rientro probabilmente affrettato vista la situazione in classifica (4-11 il record al suo esordio).

Proprio quando sembrava essere tornato ai suoi livelli abituali—segnando 30 punti in casa degli Warriors nel solo primo tempo—si è infortunato alla caviglia, probabilmente peggiorando le condizioni di un piede non del tutto guarito. Dopo altre 10 partite saltate tra fine dicembre e inizio febbraio, il persistente dolore lo ha portato prima a una procedura per alleviarlo e poi, a fine marzo, all’operazione definitiva che ha chiuso la sua stagione—e anche quella dei Thunder, incapaci di qualificarsi ai playoff nella tremenda Western Conference nonostante un paio di mesi sovrumani di Westbrook.

Tutti questi continui problemi, oltre a far nascere dei dubbi sulla gestione dell’infortunio da parte dei Thunder e sulle prospettive della sua carriera a lungo termine, hanno fatto quasi dimenticare che comunque l’MVP uscente è lui, visto che non ha avuto la reale possibilità di difendere il premio che sembrava averlo ormai proiettato allo status di miglior giocatore del mondo. Invece non solo quello scettro è saldamente tra le mani di LeBron James, come affermato candidamente dallo stesso nelle scorse Finali NBA, ma nella ideale classifica dei migliori giocatori NBA si è visto scavalcare—quantomeno nelle quotazioni, se non nel “sentire comune” — anche da Anthony Davis, Steph Curry e James Harden.

No, KD non è particolarmente d’accordo.

Allo stesso modo, anche i suoi Oklahoma City Thunder stanno venendo un po’ snobbati alla vigilia di questa stagione—come se nei quattro anni precedenti all’ultima stagione non avessero vinto il 71% delle loro partite, arrivando due volte in finale di conference (2011 e 2014) e una in Finale NBA (2012), quando hanno avuto tutti i giocatori più importanti a disposizione. Al momento, San Antonio, Golden State e Cleveland vengono tutte considerate favorite rispetto a loro, sostanzialmente messi alla pari dei Clippers dai bookmakers. Lo stesso KD ha detto che la squadra si sta avvicinando alla stagione “under the radar”, a riflettori spenti—una cosa che riesce difficile credere, visto che nessun altro può contare su due giocatori come Kevin Durant e Russell Westbrook.

Il non-problema Russ-KD

Paradossalmente, il motivo per cui i Thunder vengono considerati così forti, ovverosia la presenza contemporanea di due candidati MVP come Russ & KD, è anche il motivo per cui una certa parte della critica, ormai da anni, storce il naso davanti alle loro reali possibilità di titolo. Secondo alcuni, il finale di stagione di Westbrook—9 triple doppie, di cui quattro consecutive da metà febbraio in poi, con 31 punti, 10 assist, 8.6 rimbalzi e 2.2 recuperi di media—ha anche cambiato un po’ le gerarchie all’interno della squadra, ora più tendenti verso il Russ in versione Point Godzilla Supercharged piuttosto che verso KD, dando vita a domande tipo: “Come si reintegra Westbrook con Kevin Durant?”.

La risposta, molto semplicemente, potrebbe essere “come hanno sempre fatto”: a volte, stando a qualcuno, sembra che Russ e KD non abbiano mai giocato insieme o che siano totalmente incompatibili, mentre al contrario non hanno sostanzialmente fatto altro nel corso delle loro carriere e hanno raggiunto risultati migliori di tante altre coppie di stelle.

Certo, quando uno dei due è stato indisponibile per infortunio l’altro ha messo su cifre incredibili—KD nei playoff del 2013 e nel 2014 in versione “Slim Reaper”, Russ l’anno scorso—ma è quello che succede a tutte le superstar NBA quando il compagno più importante non può scendere in campo. E, alla resa dei conti, entrambi sono stati incapaci di trascinare la propria squadra alla vittoria da soli. È anche banale dirlo, ma è solo insieme che possono riuscire a vincere il titolo, non separati. Ed entrambi lo sanno meglio di chiunque altro. Quello della loro convivenza, tutto sommato, è un non-problema.

Intanto scaldano i motori così contro il malcapitato Fenerbahçe di Gigi Datome.

Questo però non significa che non si possa gestire meglio la loro incredibile prolificità offensiva nel corso della partita e all’interno della rotazione di squadra. Per anni Scott Brooks si è intestardito nel farli giocare insieme praticamente in ogni minuto delle partite—e fino a quando c’era James Harden questo ragionamento aveva un senso, ma ora che sono rimasti solo loro due ad avere “punti nelle mani”, potrebbe essere più sensato suddividere i minuti in modo tale che uno dei due sia sempre in campo, per non lasciare il resto della squadra in balia di molti minuti di Dion Waiters come prima opzione offensiva perimetrale (auguri...).

Nei finali di partita, poi, si può certamente fare meglio degli “isolamenti a turni” che spesso sono stati l’unica opzione dei Thunder per decidere la gara nel quarto periodo. Durant e Westbrook hanno abbastanza talento per poter segnare anche in situazioni statiche di questo tipo, visto che possono battere dal palleggio il loro uomo e terrorizzare ogni difesa anche 1 contro 5, ma un attacco del genere sul lungo periodo è destinato a fallire.

Per questo, metterli nelle migliori condizioni possibili è il principale compito del nuovo coach Billy Donovan: «Kevin e Russell devono giocare secondo la loro identità, e io devo cercare di creare delle situazioni che gli permettano di andare in campo e fare quello che sanno fare. Devo rendere loro tutto più semplice». Già solo questo potrebbe bastare per migliorare esponenzialmente la pericolosità dei Thunder, una squadra che non solo fa pochi assist (20.5 a partita, 23.esimi nella Lega) ma anche pochi passaggi—anche perché i lunghi non hanno esattamente la visione di Boris Diaw e Tim Duncan, per quanto il pacchetto formato da Ibaka, Adams, Kanter, McGary e Collison sia il migliore della storia recente dei Thunder.

L’impatto difensivo

Una parte estremamente sottovalutata dell’evoluzione di Kevin Durant sono i passi in avanti che ha fatto come difensore. Sono ormai lontani i tempi in cui LeBron James poteva attaccarlo costantemente e mandarlo in difficoltà con i falli come successo nelle Finali del 2012, perché ora KD—oltre a essersi guadagnato credibilità presso gli arbitri e essere più concentrato nel corso della gara—ha finalmente capito come sfruttare il ben di Dio che mamma Wanda gli ha messo a disposizione.

Ora KD è più grosso, più atletico e più lungo di qualsiasi suo avversario diretto, sia che giochi da 3 o da 4—perché, anche se non vuole farcelo sapere, i suoi centimetri sono diventati almeno 211…—ed è in grado di reggere i contatti in post quanto di cambiare su tutti i blocchi. Non è un caso che nella scorsa stagione i Thunder abbiano avuto una difesa top-3 nelle 27 partite con lui in campo (99.5 punti concessi su 100 possessi) e la 20.esima senza di lui (104.3). Inoltre, è una furia a rimbalzo difensivo (cattura 3 palloni su 4 che finiscono dalle sue parti, 1° in tutta la NBA) e ha concesso meno del 45% al ferro ai suoi diretti avversari, pur su soli 2.5 tiri a partita.

Che KD sarebbe diventato uno degli attaccanti più forti della storia della NBA lo sapevamo più o meno già dai tempi di Texas University, ma è la sua ascesa al rango di perenne-candidato-MVP è dovuta ai miglioramenti nella sua metà campo, oltre al coinvolgimento (emotivo quanto tecnico) dei suoi compagni sia in campo che fuori. Proprio quello del supporting cast è il vero punto di domanda su questi Thunder: i giocatori perimetrali che dovranno supportare Russ & KD, a partire dal probabile titolare André Roberson fino a D.J. Augustin, Dion Waiters, Kyle Singler e Anthony Morrow, hanno tutti caratteristiche peculiari, ma nessuno unisce una difesa e un tiro da tre di alto livello—il classico “3&D” che diventa sempre più importante per l’economia dei sistemi moderni.

La faida con Stephen A. Smith e la mean attitude

Nel corso degli ultimi anni, anche l’immagine pubblica di Kevin Durant è cambiata. Nei primi anni di carriera era considerato il “Nice Guy” per eccellenza, quello senza tatuaggi (almeno sulle braccia) che parlava poco e venerava la madre baciandola prima di ogni partita. Oggi invece—complice anche il passaggio di agenzia, firmando con la Roc Nation di Jay-Z—il suo atteggiamento nei confronti di avversari e soprattutto dei media è molto più aggressivo. Lo si poteva intuire con la nuova campagna Nike (“KD is Not Nice”), che pur scherzosamente cercava di cambiare il discorso attorno al suo personaggio. Lo si è potuto osservare nella conferenza stampa con i media durante l’ultimo All-Star Weekend («Voi ragazzi non sapete veramente un c***o. A essere sincero, sono qui solo perché devo. Davvero non mi interessa. Non siete miei amici. Scriverete quello che volete scrivere. Un giorno ci amate e il giorno dopo ci odiate. Fa tutto parte del gioco. Perciò devo solo imparare come trattarvi»). Lo si è potuto leggere in questo lungo pezzo su Grantland sul rapporto tra i suoi Thunder e i media locali, e se ne è avuta l’ennesima conferma nelle ultime settimane con la “faida” con Stephen A. Smith.

Tutto è nato da una delle innumerevoli sparate del volto black di ESPN nel suo programma con Skip Bayless—«Mi dicono che se non rimarrà a OKC, il suo obiettivo principale è Los Angeles, invece che South Beach o anche Washington»—a cui KD ha risposto con un secco: «Io non parlo con Stephen A. Smith, e nemmeno lo fa la mia famiglia o i miei amici. Perciò è un bugiardo […] che si inventa le cose». A quel punto, come se non aspettasse altro, Smith ha colto la palla al balzo e ci si è buttato a capofitto con un monologo di 10 minuti che potete trovare qui in versione integrale oppure qui in versione-Vine:

Adesso immaginatevi Mario Sconcerti che in trasmissione guarda fisso in telecamera e dice a Mauro Icardi: «Tu non mi vuoi come nemico», due volte.

Al di là di chi abbia ragione o chi abbia torto, è interessante notare questa ennesima evoluzione del personaggio-KD, molto più spontaneo ed emotivo anche a costo di risultare aggressivo e maleducato. Dopo anni a nascondersi dietro la maschera del Nice Guy, KD ci ha fatto vedere chi è veramente nel bene—come nel celeberrimo discorso per il premio di MVP o, in tono minore, quando con GQ ha parlato anche sulla sua storia d’amore finita con la giocatrice WNBA Monica Wright, oppure durante l’ultima Summer League parlando del suo recupero—e nel male, come nel caso di Stephen A. o all’All-Star Weekend. Un’attitudine che ha portato anche in campo, dato che la sua frequenza di schiacciate-in-faccia-alla-gente seguite dalla “mean face” sono andate via via crescendo nel corso degli anni.

E pensare che schiacciare non è nemmeno la cosa che gli riesce meglio.

Il finale del libro

Cercare di capire ora cosa farà KD tra 9 mesi è impossibile anche perché, banalmente, non lo sa nemmeno lui. La scommessa più sicura sarebbe quella di puntare i propri soldi sulla sua permanenza a OKC—non solo perché potranno offrire più soldi di tutti, ma anche perché si è esposto pubblicamente più e più volte nel ribadire quanto ami la città e quanto sia importante per lui la comunità. Inoltre, quante altre squadre sono in grado di fornirgli due compagni come Westbrook (classe ’88) e Ibaka (’89) con cui ha anni di familiarità e che stanno per entrare solo adesso negli anni migliori delle loro carriere?

Certo, erano ragionamenti che si facevano anche per LaMarcus Aldridge solo un anno fa, quando sembrava veramente improbabile che lasciasse Portland, e molte cose sono destinate a cambiare da qui a luglio 2016. Il modo in cui Durant e tutti i Thunder riusciranno a gestire la pressione dovuta all’incombente free agency del giocatore più importante della storia della franchigia sarà una delle trame più interessanti dell’intera stagione NBA. E anche se si potrebbe già intuirne il finale, nondimeno siamo tutti curiosissimi di continuare a leggere il libro della sua carriera, per scoprire se la storia d’amore tra Kevin Durant e gli Oklahoma City Thunder è destinata a proseguire vita natural durante o se, a fine anno, ci troveremo a commentare la fine di una dinastia che, purtroppo, non è mai realmente cominciata.

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