Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
L'anno della consacrazione per Lorenzo Pellegrini?
14 ott 2021
14 ott 2021
Il trequartista della Roma sembra definitivamente maturato.
(di)
(foto)
Dark mode
(ON)

Lorenzo Pellegrini è arrivato alla Roma nel 2017 dopo due anni al Sassuolo, e da quel giorno sono successe tante cose, mentre lui rimaneva più o meno sempre lo stesso. È cambiata una presidenza, tre direttori tecnici, quattro allenatori, un numero difficile da ricostruire di compagni. E mentre tutto cambiava, Pellegrini sembrava sempre più solido, affidabile, piantato. L’influenza di Pellegrini, inevitabilmente, ha cominciato a crescere.


 

Il 6 dicembre del 2019 si gioca Inter-Roma e senza né Florenzi né Dzeko in campo, diventa scontato mettere la fascia sul braccio di Lorenzo Pellegrini. È la prima volta che è capitano della squadra che tifa da quando è un bambino. Era arrivato due anni prima e aveva già attraversato diverse fasi del ciclo di entusiasmo e scetticismo che appartiene ai giovani calciatori della Roma: la delusione iniziale, la gioia del primo gol al derby, con un gol di tacco strafottente, poi i problemi fisici, i cali, i dubbi. E poi di nuovo una centralità, in quella Roma di Fonseca che riusciva a coniugare difesa a 4, gioco e risultati. Una settimana prima di quella partita, a Verona contro l’Hellas, aveva servito a Justin Kluivert un assist visionario. Una verticalizzazione di sinistro cadendo, con le spalle alla porta; la palla che viaggia per quaranta metri sulla corsa del compagno, che segna il primo gol di una vittoria complicata. Con la maglia giallorossa quel tipo di passaggi - in cui un centrocampista sembra lanciare con gli occhi spalancati dietro la testa - prima di Pellegrini li faceva solo Francesco Totti.


 

Qualche mese dopo Dzeko ha litigato con Fonseca, Florenzi ha litigato con la Roma e dare la fascia a Pellegrini in modo definitivo è stato inevitabile. Ancora una volta, mentre le cose intorno crollavano, lui rimaneva fermo. La fascia di capitano, però, come l’anello magico di Tolkien, avrebbe potuto corroderlo come già aveva fatto con Florenzi. Il povero cristo che si è caricato sulle sue spalle la frustrazione di una tifoseria che ha visto in lui, manifestata, l’irreplicabilità di Totti e De Rossi. Pellegrini, forse anche grazie all’esempio di Florenzi, se l’è messa al braccio con uno strano misto tra leggerezza e gravità.


 

A Pellegrini piacciono le responsabilità, e da quando ha la fascia al braccio il suo rendimento non ha fatto che crescere. Lo scorso anno, ancora con Fonseca in panchina, ha giocato 47 partite alternandosi nel ruolo di trequartista e mediano. La generosità è uno dei suoi pregi che a volte rischia di diventare un difetto. Ha stabilito il suo record di gol stagionali (11) e ne ha segnati in momenti chiave, in cui la Roma pareva sul punto del collasso nervoso. Come quando contro lo Spezia, pochi giorni dopo il cataclisma di Coppa Italia, ha segnato il gol decisivo all’ultimo minuto dopo che la squadra si era fatta da recuperare da 3-1 a 3-3. Maglia tolta e sventolata, sorriso di gioia.


 



 

C’era qualcosa di Pellegrini che però non convinceva del tutto. Fra i due mediani davanti alla difesa non aveva l’ordine nelle letture che si richiede a un ruolo del genere; sulla trequarti però non pareva avere la qualità necessaria per produrre i gol e gli assist di cui la Roma aveva bisogno. Il suo ruolo naturale, quello in cui è cresciuto, in fondo è quello della mezzala, come ha ammesso in un’intervista al Corriere: «La differenza è la gestione degli spazi da mediano o trequartista, ma quello che devi fare è simile. E poi il mio ruolo naturale è la mezzala». Pellegrini sembrava per certi versi dentro l’equivoco di un giocatore che sa fare più o meno tutto senza brillare in niente. L’impressione, però, è che mancasse ancora qualcosa per ammirare la sua versione definitiva, quella più entusiasmante. Quella versione che sembra essere arrivata quest’anno.


 

Connettore


Mourinho lo ha ulteriormente responsabilizzato, sia fuori dal campo che dentro. Nell’amichevole contro la Triestina, la prima che ha giocato, lo ha confermato capitano pur con Dzeko in campo. Poi ha rilasciato una serie di dichiarazioni smielate per indurlo a firmare il rinnovo di contratto il prima possibile - «Deve firmare domani, dopodomani»; «Rinnova presto o andiamo tutti sotto casa del procuratore». Ne ha auspicato la clonazione, ha detto che «sa fare tutto», che «sarà capitano per tanti anni». Quando è stato espulso contro l’Udinese, Mourinho si è presentato ai microfoni con una faccia da funerale. L’idea di giocare il derby senza di lui lo aveva gettato nello sconforto. L'allenatore portoghese era addirittura arrivato a dichiarare che avrebbe percorso qualsiasi strada possibile per farlo giocare lo stesso.


 

Non era difficile da credere: non c’è oggi nella Roma un calciatore importante come Lorenzo Pellegrini. Così importante e influente che i giallorossi hanno preso via via la forma del suo talento. Quello di un giocatore peculiare, ricco di contraddizioni, meno semplice di quanto sembri.


 

Pellegrini con la corsa elegante e sempre a testa alta, ma con uno spirito di sacrificio da mediano. Fra i giocatori con più di duecento minuti giocati, è il decimo del campionato per chilometri percorsi. Capace di illuminazioni improvvise, ma anche di lunghi tratti di inconsistenza e vacuità. Centrocampista col gusto del bello, della giocata deliziosa, del tocco di suola, come i calciatori tecnici a cui piace mettere ordine, ma al contempo calciatore disordinato, istintivo, che per assecondare una creatività elettrica ha bisogno del massimo della libertà possibile, del lusso di poter sbagliare mentre esplora le sue idee.


 

Mourinho gliel’ha concessa. Rispetto allo scorso anno Pellegrini si muove con una libertà incondizionata per il campo, grazie anche alla nuova organizzazione della Roma. La squadra gioca con un difensore in meno e un giocatore offensivo in più. Pellegrini lo scorso anno doveva condividere il reparto con due giocatori, quando giocava sulla trequarti, mentre quest’anno con tre. Avere meno spazio da coprire con le corse, e partendo da trequartista centrale, gli permette di seguire di più il suo istinto. Non corre meno, ma può correre dove preferisce lui; gioca trequartista, ma il suo ruolo è fluido e indefinibile. Può abbassarsi per aggiungersi ai due mediani per aiutare l’uscita del pallone, può defilarsi per creare superiorità numerica sull’esterno, può offrire un riferimento sulla trequarti e permettere al centravanti di dare profondità, o può andare lui stesso in area di rigore, seguendo tempi di inserimento mai banali. Insomma, Pellegrini è lasciato libero di diventare protagonista del gioco della squadra seguendo il suo amore per la versatilità. Le funzioni che ricopre nella Roma sono molteplici, e dire che collega centrocampo e attacco è riduttivo.


 

Per capire meglio il ruolo di Pellegrini in questa Roma vale la pena prendere in prestito una definizione di Mourinho all’apparenza vaga. Dopo la partita con l’Empoli ha detto: «Pellegrini si trova bene in tante zone del campo, hanno provato a marcarlo a uomo, ma lui ha creato tanti punti di connessione con tanti compagni». Pellegrini in effetti è un connettore tra i vari giocatori della Roma, impiegandosi in una serie di movimenti sempre diversi. Collega la Roma in verticale e in orizzontale. La Roma con lui è più imprevedibile, ma al contempo più stabile.


 

[gallery columns="8" ids="74512,74513,74516,74515,74514"]

Alcuni dei movimenti da connettore di Pellegrini.


 

È questa capacità di muoversi, creare connessioni e cucire i pezzi della squadra altrimenti spaiati, che regala alla Roma una specie di equilibrio, in una stagione in un cui Mourinho sembra avervi rinunciato. L’unica partita saltata da Pellegrini quest’anno, il derby contro la Lazio, la Roma è sembrata una squadra amorfa: senza equilibrio difensivo, ma senza neanche una brillantezza offensivo che in un certo senso lo giustificasse. Mkhitaryan, che giocava al suo posto, è meno capace di cucire il gioco e a giocare in zone centrali; la Roma sembrava giocare con un uomo in meno senza Pellegrini. C’è una sensazione che restituisce più profondamente l’importanza di un giocatore?


 

Eppure è proprio questo squilibrio che la Roma quest’anno ha accettato con Mourinho, che è il suo difetto principale, a esaltare Pellegrini. Pur essendo un centrocampista tecnico, il suo gioco prolifera nel disordine, negli alti volumi. Pur essendo diventato più cauto col tempo, rimane un giocatore che non ama le giocate interlocutorie, con una certa frenesia nel giocare in verticale e far diventare ogni passaggio l’ultimo passaggio. In una Roma che accetta serenamente lo squilibrio e il disordine, il talento di Pellegrini è perfettamente a proprio agio, molto di più di quanto lo era nel gioco più codificato col pallone di Paulo Fonseca. Al contempo è il muro portante della squadra, senza cui il tutto crollerebbe. Per come riesce ad armonizzare la struttura in possesso, per come si sacrifica in non possesso, ma soprattutto per la sua incisività negli ultimi metri.


 

Decisivo


Finora ho parlato solo dei benefici strutturali e indiretti della presenza di Pellegrini in campo. Non ho ancora parlato di quello che è sotto gli occhi di tutti, ovvero l’efficacia diretta del suo gioco: i gol che segna, gli assist che serve, le invenzioni di cui ricopre le sue partite che lo rendono uno dei calciatori più divertenti da guardare in Serie A. In questa stagione ha già infilato una serie impressionante di giocate memorabili. Il gol di tacco da spadaccino contro il Verona, quello astuto a pallonetto contro il CSKA Sofia in Conference League, ma ha regalato anche perle più nascoste, come questo clamoroso dribbling di tacco contro l’Empoli.


 


 

 

Ma anche il sombrero sulla testa di un difensore contro la Fiorentina, proseguito con un cross per Abraham che ha colpito la traversa. Il suo giocatore preferito era Ronaldinho.


 

Dietro questi decori tanta sostanza: 6 gol e 1 assist in 8 presenze stagionali e un miglioramento facilmente visibile nelle statistiche avanzate. Pellegrini ha aumentato in modo sensibile gli xG e gli xA per novanta minuti rispetto alla sua migliore stagione, la 2019/20. In più ha migliorato in uno degli aspetti che più ne minavano la considerazione negli scorsi anni, ovvero la freddezza sotto porta. Questo è il primo anno in cui Pellegrini segna più gol di quanti ne sono attesi: 2 in più. Già lo scorso anno era migliorato, non underperformando, ma il salto di questa stagione è evidente. Magari non riuscirà a reggere questo tasso di conversione, ma è difficile possa regredire troppo per un giocatore con le sue qualità balistiche (in più da piccolo giocava centravanti). Lo strano era il contrario di un paio di stagioni fa.


 

La centralità che Pellegrini ha oggi ci può far dimenticare che viene da mesi piuttosto sfortunati. Ha saltato la partita più importante di questo inizio di stagione, il derby, e l’Europeo in cui l’Italia ha vinto il titolo e in cui avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di dodicesimo uomo di qualità (ruolo poi di fatto ricoperto prima da Locatelli, una delle rivelazioni del torneo, e poi dal compagno di squadra Cristante, con caratteristiche totalmente diverse). Ha giocato poi le partite della fase finale di Nations League, segnando da subentrato contro la Spagna e giocando dal primo minuto contro il Belgio. Una partita in cui ha messo in mostra almeno due o tre giocate che nessuno in Italia può fare: nessuno ha il suo estro se c’è da saltare un giocatore in spazi stretti o mettere in porta un compagno. Tuttavia è parso anche leggermente fuori contesto, in una squadra che ama attaccare in modo ordinato e che si concede solo una grande eccezione alla regola come Chiesa (o anche Spinazzola, quando era disponibile). Nel suo ruolo Verratti consente più controllo e dominio del pallone, mentre Pellegrini accelera e disordina ogni volta che ha la palla. È per questo forse che Mancini lo ha schierato a volte (contro Finlandia, Polonia e Olanda) da esterno offensivo: un ruolo che per lui potrebbe ancora avere futuro nella squadra, nonostante farebbe perdere all’Italia la connessione fondante tra Insigne e Verratti.


 

Il 2 ottobre ha ufficialmente rinnovato il contratto con la Roma per altri cinque anni, poche settimane dopo che Francesco Totti lo ha incoronato: «È veramente forte e ha tutte le doti morali che servono per essere leader. Sa comportarsi, sa stare al suo posto, è umile. È un degno capitano». In un’intervista ha detto che gli dà fastidio sentir dire che a Roma uno scudetto ne vale dieci, perché lui vorrebbe vincerne dieci. Dice che per lui è un vantaggio vivere lo spogliatoio in maniera sentimentale. Nei giorni tranquilli gli piace camminare da casa fino al Colosseo insieme alla sua compagna. Sembra esattamente dove vorrebbe essere.


 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura