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L'addio all'Europa di Angel Di Maria
24 apr 2024
24 apr 2024
L'ultima stagione del "Fideo" al Benfica, tra gioie e dolori.
(copertina)
IMAGO / SOPA Images
(copertina) IMAGO / SOPA Images
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Sotto una delle curve del Vélodrome – tra le poche, residue enclave di resistenza al mondo che conservano per lui un odio sincero – Ángel Di Maria sta per tirare il primo dei calci di rigore che definiranno chi giocherà la semifinale di Europa League tra Olympique Marsiglia e Benfica.

La sua partita è stata una via crucis: 120 minuti di lento, sofferente trascinamento, quasi sempre ai margini dell’azione, spogliato di ogni barlume di protagonismo, un’interminabile milonga sfiatata scandita, nelle timeline social dei tifosi del Benfica, da una specie di disperazione rassegnata mista a presagi nefasti.

Solo una manciata di ore prima, "el Dibu" Martínez ha perpetuato l’interminabile rivalità tra argentini e francesi eliminando, con una sontuosa messinscena performativa, il Lille, proprio ai rigori. A Marsiglia, a Di Maria non si perdonano troppe cose: essere argentino, essere stato parigino. La rincorsa è titubante, come sempre: i passetti, il rallentamento dei movimenti, la ricerca della scintilla che gli faccia intuire dove si butterà il portiere, e dove indirizzerà la palla.

Il volto che si accartoccia quando la palla sbatte sul palo, e gli occhi che si riempiono di lacrime poco dopo, quando raggiunge i compagni nel cerchio di centrocampo. Sono le ultime immagini che conserveremo del "Fideo" in Europa?

Il volto che si accartoccia quando la palla sbatte sul palo, al contrario, è la polaroid di un calciatore che nonostante i trentasei anni, nonostante la vittoria nel giro di poco più di un anno di Copa América, Finalissima e Mondiale che ne hanno coronato la carriera, ripagato sforzi e ricompensato sfortune, ha scelto di tornare – tappa di avvicinamento al ritorno alle origini ancora più primigenie dell’Argentina – alla squadra con cui si è consacrato in Europa per un’ultima stagione ad alti livelli: una sorta di farewell tour prima della last dance in Albiceleste con la Copa América in estate.

Può il rumore sordo di una sfera di cuoio che cozza contro un palo rovinare un amore? Far sbiadire all’istante, avvizzire una stagione comunque pazzesca? A Di Maria, come dicono in Argentina, nadie le va a quitar lo bailado. Nessuno gli toglierà quanto ha raccolto quest’anno.

Muito obrigado

Gli occhi, ancora una volta, pieni di lacrime. Il "Fideo" è un calciatore molto emozionale, che non nasconde mai i suoi sentimenti, dentro e fuori dal campo. Non si vergogna a commuoversi: oggi, dopo il trionfo in Qatar – quando lo abbiamo visto piangere di tensione, dopo la sostituzione e quando ogni cosa sembrava scivolargli dalle mani in brandelli, e poi di liquefazione dei sensi, prima della premiazione –, lo fa solo con una serenità d’animo diversa, pacifica. «Muito brigado», dice, ai tifosi che gli hanno tributato un’accoglienza ecumenica. Poteva scegliere l’Arabia Saudita, la MLS, e invece è tornato in Portogallo. Rui Costa fa capolino solo all’ultimo, elegantissimo: l’ultima volta che Di Maria aveva indossato una maglia del Benfica prima del giorno della presentazione, l’avevano fatto insieme, in campo.

Il "Fideo" non è più – come ha scritto Daniele Manusia all’indomani della vittoria del Mondiale – «uno spaghetto in equilibrio precario sulla punta della forchetta, tra il farcela e il non farcela». È un uomo – prima che un calciatore – diverso, nei tratti somatici prima che in campo: il taglio à la Gardel, con la brillantina e la riga, c’è ancora, ma il volto scavato dalle delusioni, dal fardello di far parte di una generazione di calciatori di talento incapaci di vincere, ha una cera rinnovata, e l’aria trasognante da personaggio tanguero si appalesa nelle rughe create dal sorriso. È un uomo lontano, ormai, dai problemi metafisici, dal bisogno – come scrive Onetti in un bellissimo passaggio de La morte e la bambina – "di catturare la bellezza [...], eterna e definitiva come schiacciare fra le mani una farfalla". Di Maria, ora, è un calciatore sorridente, la cui gioia esonda sul rettangolo di gioco.

Il ricordo che tutti, a Lisbona, conservano del "Fideo" è quello di un apripista: dopo di lui al Benfica sarebbero arrivati, per lasciare più o meno il segno, i connazionali Pablo Aimar, Javier Saviola, Nicolás Gaitán, Franco Cervi, Enzo Fernández. Il Di Maria arrivato nel 2007 era fresco campione del mondo, con l’Under 20 in Canada: avrebbe vinto un campionato, che aveva messo fine a un dominio quadriennale del Porto, e due coppe di lega. Aveva trovato un tecnico, Jorge Jesús, che ne aveva sviluppato la versatilità, facendolo giocare in ogni posizione del suo 4-4-2, ponendo le basi per la sua fioritura come uno dei migliori esterni al mondo, capace di adattarsi a compiti sempre diversi. Da campione del mondo, ancora una volta, è tornato al Benfica.

Al momento della presentazione non sa ancora – magari se lo augura, ma non si azzarda a sperarlo – che quella che sta per cominciare sarà una stagione da 16 gol e 13 assist nelle 43 partite giocate (fino al momento in cui sto scrivendo); una stagione per certi versi simile alle prime con la maglia del PSG, da protagonista assoluto, senza il giogo di dover giacere all’ombra di una stella più brillante, senza Mbappé, Neymar, lo stesso Messi, senza l’ineluttabile destino di doversi fare, a un certo punto, Sancho Panza. Il "Fideo" non ha mai avuto l’ambizione, o la personalità, forse, di reclamare per sé la palma di persona più interessante nella stanza: ha trovato anzi le più alte vette della sua personale realizzazione nella reiterata candidatura al premio come miglior attore non protagonista, in un angolo della festa, magari con l’intento, in buona fede s’intende, di conservare di lui un ricordo tale che con gli anni ci saremmo trovati a chiedere se casomai non l’avessimo sottovalutato.

Di Maria è sempre stato una cometa scintillante alla quale non abbiamo mai prestato la dovuta attenzione; forse perché intanto, nel firmamento, imperversavano tempeste solari.

I primi due mesi di Di Maria a Lisbona sono un perfetto monumento alla gioia contagiosa, alla leggerezza d’animo: il "Fideo" gioca come se nel cuore e nei piedi avesse una mongolfiera. Si libra pacifico, divertito.

Nell’esordio assoluto, a Basilea, segna un gol tagliando verso il centro dell’area da sinistra – una costante che si ripeterà spesso durante la stagione, anche a ruoli invertiti con Rafa Silva o David Neres: il cuore che forma con le mani, nel gesto della sua iconica esultanza, sembra troppo piccolo per racchiudere il momento, e magari ci si fa l’idea che si sgonfierà, quelli sono solo le fasi preliminari dell’amore, i momenti germinali e pertanto più emozionanti. E invece Di Maria non si sgonfia per niente, e il segreto risiede nel fatto che la prima impressione che desta, ecco, è che si diverta, oltre a essere in forma. Punta, partendo dalla zona di campo che ha messo a ferro e fuoco per vent’anni, la porta avversaria come sempre, meglio di sempre, dribbla, scavalca con uno scavetto. È così in forma, così in pace con se stesso al punto di spingersi oltre i limiti della lesa maestà, anzi che dico: del regicidio, anzi no: a giudicare dal lancio di occhiate successivo, dagli sguardi da compadre che pugnala i rivali nei vicoli di Buenos Aires, del vilipendio di cadavere.

Quando nella prima partita davvero decisiva della stagione, quella che assegna la supercoppa nazionale, il "Fideo" viene nominato MVP di una partita in cui segna anche un gol, in cui diventa il secondo argentino più titolato della storia del calcio (33 titoli, alle spalle dell’inarrivabile Messi che ne conta 42), in cui continua a essere decisivo in una finale – proprio lui, che per le finali ha spesso dato l’impressione di avere una idiosincrasia –, è evidente che lo stato di grazia continuerà a lungo. Il calcio che sta giocando Di Maria in questa fase della sua vita, prima che della sua carriera, è amalgamato ma allo stesso tempo scisso da quello della sua squadra: è l’assolo di bandoneón che impreziosisce la milonga, ma che vale anche il prezzo del biglietto di per sé.

Va a segno ancora, con il Boavista, nonostante la sconfitta finale: e poi con il Gil Vicente, su rigore, un rigore che calcia rallentando la rincorsa, facendo i passettini, incurante, e ancora con il Vitória Guimarães, in una partita in cui è fuoco che arde: addomestica un pallone che gli piove sui piedi da venti metri con la grazia rustica di un gaucho annoiato per appoggiarlo a Kökçü, oltre a propiziare un autogol avversario con un cross di trivela, una delle sue signature move più amate.

Una lunga girandola di conferme e di addii

Le prime delusioni, chiaro, lo pensano tutti: arriveranno. E infatti: arrivano. Nell’esordio in Champions League, carico di aspettative, il Benfica viene sconfitto dal Red Bull Salisburgo, e il "Fideo" sostituito. Anche in Nazionale, contro l’Ecuador, nell’esordio per le qualificazioni mondiali, Scaloni gli preferisce Nico González. Ma il "Fideo" lo sa che con la pazienza anche la foglia di gelso diventa seta, lo ha sempre saputo, e il tempo gli è stato galantuomo: con la fascia da capitano al braccio, per l’assenza di Messi, disegna un arcobaleno per la testa di Tagliafico, e gioca in generale una partita in cui si carica sulle spalle tutto il fardello creativo della Selección.

Nessuna squadra è mai stata dipendente da Di Maria: eppure, in qualche modo, lo sono state tutte. Il suo apporto è spesso stato dato per scontato, forse perché distillato dall’appariscenza. Il senso della sua assenza, dei suoi chiaroscuri, emerge quando diventa decisivo, quando la sua classe riluce di un nitore tale da rendere troppo complicato tenerlo nascosto. Il differenziale di talento tra Benfica e Vizela, per esempio, è piuttosto evidente, eppure per piegare la resistenza degli avversari serve che il "Fideo" peschi dal repertorio un’abilità rimasta troppo spesso nell’ombra, obnubilata – sinestesia perfetta, in fondo, della sua carriera – da qualcuno che sa farlo meglio ancora: quella nei calci di punizione.

La partita con il Vizela arriva come preludio a una gara molto importante, uno dei superclassici del calcio portoghese, contro il Porto, in cui Di Maria va a segno tagliando da destra per raccogliere l’assist – al termine di una bella giocata, peraltro – di David Neres: il tocco è semplice, ma sarà il dagherrotipo che conserveremo di questa partita. Di Maria, forse per la prima volta nella sua carriera, almeno in partite che non assegnano coppe molto prestigiose, diventa protagonista anche quando le cose più belle, nella creazione del gol, le fa qualcun altro. Una caratteristica distintiva che è sempre stata la sua.

È un segno dei tempi? È di certo una testimonianza del nuovo posto al mondo del "Fideo", una specie di silente tributo alla remissione, alla secondarietà autoimposta. Oppure, da un altro punto di vista, il coronamento della parabola della nostra percezione di Di Maria, al quale siamo finalmente pronti – disposti, addirittura spinti – a riconoscere un ruolo di primo piano.

A questo punto, sentiamo montare un sentore di nostalgia, di mancanza: quando si perde le gare di qualificazione ai Mondiali con Paraguay e Perù per infortunio, mentre si confessa con Dalma Maradona nel suo La hija de Dios raccontandole che dopo ogni gol nel trittico di finali ha sussurrato «gracias, Diego», quando dopo la vittoria importantissima in Brasile si piglia gli ingenerosi sputi della torcida – e, picarescamente, li restituisce –, ci monta in testa un dilemma troppo a lungo soffocato, lasciato da parte: come sarà quando Di Maria non ci sarà più? Perché quel momento è meno lontano di quanto vorremmo.

Dopo il trionfo al Maracanã scrive, su Instagram: "Bene, è arrivata per me l’ultima partita delle eliminatorie. Non so spiegare a parole quanto mi abbia riempito l’anima l’ovazione della gente in questi ultimi tempi". Quando il Fideo ufficializza quello che era verosimile, e cioè che con la Copa América si concluderà la sua avventura in Albiceleste, ecco: scopriamo di non essere pronti.

Farewell tour

Dal momento in cui la certezza di trovarci di fronte a un timer a scadenza si cristallizza, ogni partita di Di Maria comincia a diventare un episodio spettacolare dell’ultima stagione di una serie che ci ha accompagnati negli ultimi vent’anni ma che non abbiamo mai messo nella nostra top 3, di cui abbiamo parlato sempre troppo poco durante gli aperitivi, nei nostri social.

La vita proseguirà, certo: ci innamoreremo di altre serpentine dinoccolate, di altri fendenti su punizione, ma in quegli slalom irriverenti, e in quegli arcobaleni brutali, cercheremo ancora il profilo segaligno del "Fideo", un angolo del suo orecchio, una piega del suo sorriso. L’arco teso di un suo cross – l’ennesimo cross – che diventa magia, la tracotante magia di un gol olimpico.

Quando segna in questo modo contro il Red Bull Salisburgo, il Benfica è ormai fuori dai giochi in Champions League – così come dalla Liga Portugal, dopo il pareggio con il Farense poco prima della sfida di Champions: lo Sporting Clube ha allungato il divario a quattro punti, un vantaggio che perdurerà per tutta la stagione. Però, con quel gol, le "Aquile" si sono garantite l’accesso all’Europa League: il fuoco che Di Maria ha preparato per il suo ultimo asado non è del tutto sopito, e anzi si arricchisce di sfumature nuove, affascinanti.

In Europa League Di Maria ha segnato una delle sue reti più belle del precedente – il primo – passaggio per Lisbona: in rabona, ad Atene. Quell’anno il Benfica si sarebbe spinto fino ai quarti di finale, eliminato dal Liverpool: in qualche modo, il "Fideo" ha un conto aperto – l’ennesimo, e allo stesso tempo uno degli ultimi – con l’Europa League, «l’unica coppa che mi manca di vincere», dice. Cosa sarebbe successo se, contro il Red Bull Salisburgo, il Benfica non avesse vinto? Se fosse rimasto fuori dall’Europa? Cosa ne sarebbe stato, di Di Maria?

Forse sarebbe tornato anzitempo a Rosario, dove è chiaro che finirà per calcare gli ultimi campi, produrre gli ultimi cross, inscenare le ultime gambetas indiavolate, regalare le ultime emozioni della sua carriera. Magari togliendosi una soddisfazione, come quella di giocare una Libertadores (il Central, attualmente, sta disputando la Libertadores). «El fútbol es así», dice «te va llevando». Ti porta dove vuole lui, non dove vorresti tu. E ogni snodo è un ganglio fondamentale nel dipanarsi della trama.

A maggior ragione, quindi, l’ultimo semestre europeo di Di Maria sembra un contenitore in cui riversare aspettative e tentativi di rendere possibile l’impossibile, una lunga, interminabile eppure compiuta parentesi di tempo in cui godersi una sciabolata di controbalzo, cross che – come nella favola del brutto anatroccolo – stufi di starnazzare si fanno cigno, cross ammantati di un pulviscolo soprannaturale, ma così soprannaturale da ispirare una rovesciata di Arthur Cabral.

«Gioco per essere felice», dice il Fideo. Che ha smesso di sembrare un milonguero triste e si è trasformato, in un potrerofanghiglioso, nel re del carnevale.

Non sarà sempre un sentiero pavimentato da petali di rose, certo. Ci saranno le sconfitte cocenti con il Porto (0-5), con lo Sporting, e il campionato diventerà una chimera irraggiungibile. Tutte delusioni che però non possono relegare la stagione di Di Maria neppure a una briciola meno di quel mezzo capolavoro che è stata: una stagione da 3.3 tiri a partita, da 2.8 passaggi chiave a partita, da splendido trentaseienne ancora capace di trasformarsi, a volte, nell’ologramma di se stesso quando gli avversari cercano di afferrarlo.

La rincorsa all’Europa League si interromperà su quel palo del Vélodrome, dopo la doppietta contro il Tolosa (con due rigori che avevano attestato una mezza specie di infallibilità dal dischetto, dato che in quel momento il suo tasso di conversione era di 3 rigori su 4), dopo le prestazioni brillanti contro i Rangers, dopo la stessa gara di andata al Da Luz, contro l’Olympique Marsiglia, in cui aveva dialogato, per l’ennesima volta, nella lingua che meglio conosce, con David Neres.

Ora, alle porte, c’è la Copa América. Della Selección è diventato, nella recente amichevole con El Salvador, il secondo massimo assistman: meno di Messi, che guida la classifica con 54, ma più di Maradona, che si è fermato a 27. E il settimo massimo goleador, dopo un capolavoro, su punizione, contro Costa Rica, al termine di una partita piena di fughe elettrizzanti, uno contro uno gonfi di protervia, giocate che sprizzavano talento da ogni poro. Ancora una volta, con la fascia da capitano al braccio.

Poche ore prima di questo gioiello di gol, la famiglia del "Fideo" aveva ricevuto una minaccia raggelante: «Dì a tuo figlio Ángel che a Rosario non torni più, perché sennò gli ammazziamo qualcuno della famiglia. Noialtri non tiriamo in campo papelitos. Tiriamo piombo e morte», hanno scritto in un messaggio recapitato alla madre. De Paul ha raccontato di averlo trovato, quella mattina, con le lacrime agli occhi. Paredes, che era in stanza con lui, lo ha visto «impaurito, parlava al telefono e quasi piangeva per quello che gli raccontavano». I responsabili delle minacce sono stati arrestati poche settimane più tardi: al momento del fermo indossavano tute della Selección, con le quali probabilmente avevano festeggiato il Mondiale che proprio Di Maria, tra gli altri, gli aveva regalato.

Non sarà di certo un’intimidazione a distogliere "il Fideo" dal pensiero – dal sogno – del suo ritorno in patria. Così come nessuno le va a quitar lo bailado, nessuno potrà togliergli la possibilità di realizzare la più grande soddisfazione a cui ancora anela, e che non è riuscito a godersi appieno: giocare – per più di cinque partite, il tempo esiguo trascorso in gioventù – per il suo amato Central. Che intanto, quando a fine marzo ha presentato le liste per la Libertadores, ha lasciato inassegnati ancora tre numeri di maglia: il 22, sognando un ritorno di Franco Cervi; il 9, sperando nell’ennesima resurrezione di Marco Rubén. E soprattutto la maglia numero 11.

Rivedere Di Maria con la camiseta canalla sarebbe un orgoglio non solo per lui, ma anche e soprattutto per i suoi tifosi: non solo quelli canallas, ovviamente, ma tutti.

Tutti quelli che amano il calcio, le sue incarnazioni più malinconiche, che il Fideo racchiude nella stessa segaligna figura. Quella che si muove in campo puntando l’avversario, che caracolla sulla fascia, che è rimasta cristallizzata, in qualche modo, alla corsa nella finale del Mondiale qatariota. Che fa sorridere mio figlio Giulio quando la palla arriva a Di Maria, e guidando Di Maria segna.

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