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Foto di Julian Finney / Getty Images
Calcio Tommaso Giagni 31 maggio 2019 7'

Andy Robertson non sente la fatica

L’ascesa del terzino del Liverpool, dal lavoro come telefonista alla finale della Champions League.

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Nel 2012 giocava in un club non-professionistico e per non chiedere soldi ai genitori lavorava ad Hampden Park, lo stadio che ospita le gare della nazionale scozzese, rispondendo al telefono per prendere ordini d’acquisto di biglietti di concerti e partite di calcio.

 

Cinque anni dopo, Andrew Robertson viene acquistato dal Liverpool. I suoi compagni di squadra sono gente come Coutinho, Salah e Firmino. Il suo allenatore è Jürgen Klopp, che dirà: «Adoro la sua storia, il suo percorso professionale per raggiungere questo punto».

 

Una cosa che gli succede spesso oggi è passare, nel giro di poche ore, dal ricevere le ovazioni di Anfield al cambiare il pannolino ai figli. Gli amici d’infanzia concordano che Andy sia rimasto lo stesso, i piedi ancora per terra. Dal canto suo, rivendica l’importanza di staying in touch with the real world.

 

La prima volta che ebbe modo di parlare con Klopp, si sentì «rapito da lui e dai suoi programmi». I programmi di Robertson sono stati sconvolti più spesso di quanto accade di solito a un calciatore di venticinque anni. Sorprese negative, sorprese positive – il tipo di altalena da cui si scende dubitando dei programmi. Nel disorientamento però ha saputo restare concentrato su di sé, su quello che voleva.

 

Robertson-Klopp

Il rapporto con Klopp. (Foto di Oli Scarff / AFP / Getty Images).

 

Da ragazzino era il tipo che usciva a correre anche durante le vacanze con gli amici. Il suo migliore amico, Martin Coughlin, ricorda che non beveva, non gli interessava passare il tempo all’Xbox, amava uno sport di pazienza e controllo come il golf. Il giorno che lo trovò inserito in un videogioco, Martin si rese conto che Andy aveva raggiunto il suo sogno («Però quel personaggio non gli assomigliava»).

 

Curava il corpo e la forma fisica, ma a un certo punto sembrò che quell’applicazione non bastasse.

 

La sua struttura esile fece sì che il Celtic Glasgow, quando Andy era arrivato all’Under-15, lo mandasse via. Si considerò che il ragazzo non fosse pronto e che verosimilmente non lo sarebbe stato più avanti: «Too small». Glielo dissero in faccia, a lui e ai suoi genitori convocati per l’occasione.

 

 

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Happy birthday to my good friend Martin, 19 years and counting! Can look into booking Vegas now! Have a good one tonight and I’ll be up the road soon 👍🍀 @officialmartincoughlin #fapper

Un post condiviso da Andrew Robertson (@andyrobertson94) in data: 18 Dic 2015 alle ore 5:55 PST

Andy bambino col suo migliore amico Martin.

 

Nelle giovanili del club più prestigioso del Paese, Andy era entrato a nove anni. Era anche la sua squadra del cuore. A Glasgow ci era nato, l’11 marzo 1994, e il tifo per il Celtic doveva essere stato qualcosa di inesorabile: «Ero un fan dalla nascita». Il suo mito era Henrik Larsson, come suo padre aveva idolatrato Kenny Dalglish (motivo di simpatia familiare per il Liverpool).

 

Nella scuola cattolica che Andy frequentava, dov’è il capitano della squadra di calcio, conosce Rachel – che diventerà la sua compagna e con cui avrà due figli. La scuola è nei dintorni di Glasgow e da quelle parti c’è un istituto di beneficienza per il quale molto tempo dopo, in occasione del suo ventunesimo compleanno, Andy chiederà di effettuare donazioni.

 

Il più bravo a giocare a calcio, in casa Robertson, sembrava essere il fratello maggiore Stephen. Era un attaccante un po’ statico ma segnava tantissimo. Oggi ha ventisette anni e dopo una partita a calcetto si sente il corpo a pezzi, ha detto al fratello (che l’ha detto al sito del Liverpool). In quella confidenza, ha aggiunto Andy, c’era il primo complimento che abbia ricevuto da parte di Stephen: «Non so come fai, tu».

 

Dietro una superficie ruvida, il loro rapporto è ottimo, basato sul supporto reciproco. Il minore dei Robertson trova ci sia un parallelismo fra quando il maggiore va a vederlo giocare e quando lui è andato a vederlo laurearsi.

 

Scacciato dal Celtic, Andrew era a un passo dal lasciar perdere. Era frustrato, scriveva tweet come: «Senza soldi la vita a quest’età è uno schifo» con l’hashtag #needajob. Decise di intraprendere un percorso universitario, per diventare insegnante di educazione fisica o comunque occuparsi di sports science.

 

Invece arrivò la chiamata del Queen’s Park, concittadino povero di Celtic e Rangers, primo club di calcio fondato in Scozia (1867) e finito nella quarta serie del Paese. Come società dilettantistica non dava stipendi ai suoi giocatori, ma in compenso poteva essere un buon accomodamento per l’attenzione che riservava ai giovani.

 

Robertson accettò. Parallelamente, andava in palestra per aumentare il volume e lavorava come telefonista nello stadio dove giocavano la nazionale e lo stesso Queen’s Park. Prima di firmare l’accordo, si era confrontato con i genitori: «Datemi un anno» disse. Loro lo sostennero.

 

 

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Proud wee brother yesterday ❤️👨🏻‍🎓

Un post condiviso da Andrew Robertson (@andyrobertson94) in data: 30 Giu 2017 alle ore 2:46 PDT

I fratelli Robertson alla laurea di Stephen nel 2017.

 

Per quanto lui vivesse con insoddisfazione il suo rendimento («Non ero tanto bravo, per la prima volta dubitavo di me»), la stagione al Queen’s Park andò molto bene. Al suo talento si aggiunse una combinazione fortunata: era l’anno in cui i Glasgow Rangers erano naufragati in Third Division, quindi il campionato godeva di un’attenzione anomala.

 

Lo notò Jackie McNamara, ex capitano del Celtic e in quel momento allenatore del Dundee United, che lo portò con sé dai Terrors, sulla costa del Mare del Nord. Così, a vent’anni, Andy rientrò dalla finestra nel calcio professionistico.

 

Venne subito schierato titolare, non perse più il posto, a ottobre esordì pure nell’Under 21 scozzese. Intanto era diventato un giovane uomo alto quasi un metro e ottanta.

 

Nel 2014, la prima grande svolta. Le sue prestazioni a Dundee convincono al punto che Andy guadagna la nazionale (esordisce il 5 marzo 2014) e l’approdo nella Premier inglese: quell’estate l’Hull City investe quasi 4 milioni di euro. Anche stavolta, a volerlo è direttamente l’allenatore, Steve Bruce, figura leggendaria nella storia del Manchester United. Anche stavolta, ci si mette un po’ di fortuna: il giorno prima dell’inizio del campionato, il titolare Liam Rosenior si infortuna.

 

Saranno tre stagioni difficili, in generale per il club e individualmente per il distacco da casa (la madre gli telefona quattro volte al giorno), eppure Andy migliorerà di mese in mese.

 

Robertson-Hull-City

Nel novembre 2014, con la maglia dell’Hull City. (Foto di Laurence Griffiths / Getty Images).

 

Nell’arco di poche settimane dell’estate 2017, diventa un giocatore del Liverpool (per 9 milioni di Euro) e padre per la prima volta.

 

Molto presto sarebbe stato un intoccabile di Klopp, un terzino di spinta capace di divorare la fascia (“One Man Wing” lo ha definito Joel Sked), il protagonista di un lieto fine fiabesco. Avrebbe anche presentato Kenny Dalglish a suo padre – per la prima volta avrebbe visto il signor Robertson paralizzato dall’emozione.

 

Quest’anno Andy ha realizzato 11 assist in campionato, tra i primi dieci in Europa nella specialità. Dallo scorso settembre indossa la fascia di capitano della nazionale scozzese. Il prossimo 1° giugno giocherà la sua seconda finale consecutiva di Champions League; tra le due c’è stata, a gennaio, la nascita della seconda figlia.

 

Oggi dice che essere mandato via dal Celtic Glasgow è stata la cosa migliore che potesse capitargli.

 

Tags : andy robertsonliverpool

Tommaso Giagni è nato a Roma, nel 1985, e tifa per la Lazio. Ha pubblicato due romanzi per Einaudi Stile libero: "L'Estraneo" (2012) e "Prima di perderti" (2016).

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