Ci sono due punti in particolare, della lunghissima e drammatica sfida di ieri contro Roberto Bautista Agut, che più di tutti hanno lasciato un segno profondo non solo sull’andamento dell’incontro, ma più in generale sull’essenza più profonda di Andy Murray.
Nel primo il britannico è sotto per 2 set a zero, sta servendo e deve fronteggiare una palla break sul 4-4 del terzo parziale. Claudicante per colpa dei dolori all’anca che lo hanno costretto ad annunciare in lacrime e controvoglia il ritiro dal tennis, Murray alza il livello del rischio dei suoi colpi come mai prima in carriera. Il suo rovescio lungolinea lambisce la linea che demarca il campo dal corridoio e taglia le gambe a Bautista. Il suo come on! ha lo stesso timbro e la stessa ruvidezza delle più importanti partite della sua carriera. Stavolta però sono tutti davanti al televisore a fare il tifo per lui, stringendosi attorno a un’improvvisa presa di coscienza della sua umanità. Nessuno percepisce più quel come on! con fastidio.
L’altro punto di cui vogliamo parlare arriva nel quinto set. Quando i due tennisti arrivano al tie-break anche nel quarto parziale, attorno a Bautista si addensa una nube di incertezze, la paura di essere caduto vittima di un disegno sovrasensibile. Murray entra in una dimensione mistica in cui, come per miracolo, riesce a non sentire neanche dolore.
Il primo scambio del secondo game del quinto set spezza la resistenza fisica di Murray, ma finché lo scozzese prolunga il suo incantesimo c’è ancora spazio per procurarsi un’ultima occasione per provare a vincere la partita contro ogni realismo. Murray va avanti 0-30 e nel terzo punto ha una palla comoda a metà campo sul suo colpo migliore, il rovescio. Perde la misura della conclusione in diagonale e in quel momento si scioglie tutta la sua tensione agonistica. Le energie si prosciugano e dal fondale non può che emergere il dolore, forte come non mai. Ancora una volta, la natura e il tempo che passa hanno la meglio sulla semplice volontà.
L’incompiutezza
In quell’occasione mancata per procurarsi tre palle break all’inizio del quinto set c’è l’altra faccia di Murray, quella che attiene alla sfera della sua incompiutezza e delle sue fragilità. E in un certo senso questa sua dimensione, più volte mostrata in campo durante la carriera, è forse figlia proprio di una ruvidezza sulla quale non ha mai adeguatamente lavorato. Per lo meno provando a controllarla nelle manifestazioni esteriori.
Dopo l’annuncio del suo Andy Murray sembra lasciarci una vaga sensazione di incompiutezza, almeno nel senso di qualcosa di non terminato. Anche questa ultima sconfitta, in una partita che a un certo punto avrebbe potuto prendere una piega diversa, e lo stesso fatto che ancora non si sappia con certezza se sia stata o meno la sua ultima partita in carriera, sono soltanto gli ultimi incerti episodi che fanno parte di una narrazione da sempre controversa attorno alla sua figura.
Murray ha sempre danzato in quell’indefinibile limite tra la realizzazione di sé e il rimpianto del non finito. In fondo sarebbe difficile etichettare come incompiuto un tennista che ha vinto tre Slam (due Wimbledon), quattordici Master 1000, due ori olimpici, un’edizione delle ATP Finals, una Coppa Davis e ha concluso una stagione - quella 2016 – da numero uno del mondo. Eppure l’accostamento agli altri tre grandi del tennis della sua epoca ha sempre delineato attorno a lui un’aura di inferiorità, di mancato completamento del suo percorso, al di là dei freddi risultati. Il momento in cui è riuscito a raggiungerli è stato brevissimo: proprio nel momento in cui sembrava aver varcato quel gradino, si è sgretolato.
Murray non ha mai davvero evoluto il proprio gioco, esplorando il potenziale della propria sensibilità. Forse soltanto nel primo periodo con Lendl, nelle stagioni 2012 e 2013, ha aumentato di sicurezza e aggressività con il dritto, ma se c’è un aspetto nel quale Murray ha dato prova di incompletezza è proprio il fatto che non abbia mai limato davvero i propri difetti. Una sensazione acuita probabilmente dal fatto che viviamo in un’epoca tennistica in cui i giocatori arrivano a spremere ogni goccia del proprio potenziale.
Forse è stata anche una questione di fragilità mentale, la stessa che lo ha spinto più volte ad assumere atteggiamenti negativi in campo. La pressione data dalla presenza degli altri grandi e l’aspettativa di pareggiare il loro livello potrebbero averlo caricato di troppe tensione per dominare a quei livelli. Forse questo lo ha portato a cercare sempre la via più sicura per vincere le partite: quella della passività, sfruttando il suo fisico, e alla fine logorandolo prima di tutti gli altri.
I quarti di finale contro Kei Nishikori allo US Open 2016. Nel picco della sua carriera, questa è una delle partite che Murray avrebbe dovuto vincere e che gli avrebbe probabilmente aperto la strada al quarto Slam vinto.
Anche la circostanza del suo infortunio e del suo ritiro non hanno contorni chiari. A un’età in cui nel tennis molti giocatori ancora riescono a dare tanto sul campo, specie in questi ultimi anni in cui la carriera di tutti sembra essersi allungata, Murray si ritrova improvvisamente la strada sbarrata, non per sua volontà. Sotto una certa prospettiva, però, l’infortunio che è arrivato solo pochi mesi dopo aver vinto il primo Master e aver raggiunto per la prima e ultima volta la posizione numero uno a fine anno, sembra averlo quasi aspettato giusto in tempo per dare finalmente un senso di compiutezza alla sua carriera.
Eppure nella sua conferenza stampa dopo il match contro Bautista Agut, Murray ha lasciato ampio spazio ai rimpianti. Ha iniziato parlando dei programmi di allenamento: «Mi sono allenato duramente, ma forse troppo in alcune fasi della mia carriera. Questa cosa la cambierei, se potessi tornare indietro». È passato poi a parlare del suo gioco: «Ho espresso tutto il mio gioco e le mie caratteristiche, però sento che avrei potuto fare alcune cose meglio, diversamente. Ci sono partite che vorrei rigiocare per avere un’altra possibilità, ma ho dato comunque il massimo». E per finire ha espresso anche un altro tipo di rimpianto, più personale: «Volevo che le mie figlie vedessero una mia partita, però ora so che non accadrà e questo mi rende un po’ triste».
I limiti della spontaneità
Questa confessione finale, nella quale Murray si è sciolto per raccontare tutto se stesso, fa parte di un’autenticità che lo scozzese ha sempre dimostrato, nel bene e nel male. Anche quando Murray parla di aver espresso il suo gioco e le sue caratteristiche, fa riferimento alla sfera più naturale di se stesso, che sembra non aver mai forzato durante la sua vita sportiva. Come non ha mai lavorato a fondo per completare il suo gioco, imbastardendolo in un certo senso, Murray allo stesso modo non ha mai smussato adeguatamente gli spigoli più impulsivi del suo carattere, riducendo le manifestazioni negative di rabbia che spesso ha pagato a caro prezzo. La sua dimensione di campo e quella umana, in questo senso, sono davvero inestricabili tra loro.
La parte più autentica del suo temperamento è stata anche la parte più ruvida, quella dei come on! digrignando i denti o dell’autoflagellazione. Questo percuotersi - come per punire se stesso e il proprio corpo - non è mancato neanche nell’ultima partita. Murray ha più volte colpito la gamba destra – quella dolorante – ogni volta che lo abbandonava durante un recupero o il caricamento della torsione per eseguire un dritto, rinfacciandole quasi un tradimento.
La sua asprezza gli ha anche creato problemi a livello mediatico, rendendo più difficile la connessione con il pubblico rispetto a giocatori più caldi da questo punto di vista, come Djokovic o del Potro. La ruvidezza, stavolta sotto forma di turpiloquio, gli è costata anche una separazione strana: «Ho lasciato Murray perché non sopporto che dica parolacce in campo» ha detto nel 2016 la sua ex coach, Amelie Mauresmo, al momento del suo addio.
Nella stessa intervista, però, la Mauresmo ha sottolineato anche un altro tratto di Murray: «Andy è complesso», disse la francese, «sul campo può essere l’opposto di com’è nella vita». In campo forse Murray ha troppe volte mostrato il lato negativo della sua spontaneità, ma al di fuori non si è fatto problemi a esporsi in posizioni anche scomode nel contesto ultra-conservatore del tennis.
Più volte si è mostrato ostile nei confronti dell’Inghilterra («Le tiferò contro ai Mondiali», disse una volta, come riportato recentemente da Elena Pero su Sky Sport 24) e il suo impegno sociale si è concentrato principalmente sulle battaglie femministe. Dal cosiddetto equal prize money – la necessità di parità di montepremi tra uomini e donne nei tornei combined – alla difesa della sua scelta di assumere un coach donna – la Mauresmo, appunto – in mezzo a vergognose critiche maschiliste anche da parte degli addetti ai lavori, che lo hanno portato a dire che «questa esperienza mi ha aperto gli occhi su quanta discriminazione esista ancora nei confronti delle donne».
«Non è sempre facile sedersi con cinque o sei uomini attorno a un tavolo in un ambiente competitivo», disse Murray all’epoca. «Spesso ho sentito che era difficile aprirsi e parlare di sentimenti perché viene considerato un segno di debolezza». Non solo Murray non ha mai rinunciato alla parte più naturale di sé, ma ha dato prova in questo modo anche di volerla esprimere privatamente, senza ipocrisie.
«Cercavo chi mi capisse», disse Murray al momento dell’assunzione della Mauresmo nel 2014. «La sua complessità mi ha creato confusione, ero lì per aiutarlo ma ho avuto la sensazione di non poter andare fino in fondo», controbatté la francese due anni più tardi, dopo la separazione. Se neanche una persona assunta come coach per condividere aspetti più intimi e psicologici è riuscita a decifrare fino in fondo determinate ambiguità di Murray, probabilmente sulla figura dello scozzese non verrà mai risolta una certa aura di mistero. Ma è forse proprio questa a renderlo, oggi, al momento del suo ritiro, un personaggio più affascinante di quanto non sia stato percepito nei migliori anni della sua carriera.