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Andy Murray non ha ancora finito
25 gen 2023
La carriera dello scozzese è un inno alla resistenza.
(articolo)
20 min
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IMAGO / Xinhua
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14 gennaio 2019

È passato solo qualche giorno da quando Andy Murray si è presentato in conferenza stampa annunciando il suo “possibile addio” al mondo del tennis dopo il prossimo Wimbledon. Nemmeno lui in quel momento pensava di arrivarci, il suo unico desiderio era quello di non provare più dolore all’anca. Le sue frasi avevano un tono da martire: «Non riesco a infilarmi nemmeno un calzino» o «continuare a così può danneggiare la mia vita privata». Avrebbe comunque partecipato agli Australian Open per l’ultima volta e di fronte al primo turno ci sarebbe stato Roberto Bautista Agut. Murray viene da un’operazione all’anca, che in un primo momento sembrava avesse dato buoni riscontri, ed era scivolato nel ranking alla posizione 240.

Fa strano pensare che fino alla seconda parte del 2017, un anno e mezzo prima, Andy Murray era numero uno al mondo da dieci mesi. Ora ha 32 anni, un età in cui di questi tempi i tennisti hanno appena superato il loro prime. E invece lui è già un fantasma.

La partita di primo turno con Roberto Bautista Agut inizia con contorni drammatici. Un uomo che sa di aver perso tutto, e non ha più tempo e modo per poter rimediare. Murray è lento negli spostamenti, falloso e pieno di dolore. Con un doppio 6-4 Bautista è vicino a una vittoria semplice, contro l’ex numero uno al mondo; Murray sembra un uomo (prima che uno sportivo) incapace di trovare una soluzione ai suoi problemi. Tormentato gira per il campo, il rovescio è senza spinta e ogni dritto è spento. Fa male guardarlo. La partita prosegue e Bautista è pronto a piazzare il break decisivo nel terzo parziale, che occasione dopo occasione, non arriva. Ci si scalda per qualche scambio vintage di Murray, ma subito dopo si torna a osservarne la debolezza dei colpi, l’opacità fisica. Si arriva al tie-break, aggrappato al servizio e alla leggerezza con cui il pubblico lo spinge, il set si chiude con uno schiaffo al volo di dritto dopo un ottimo servizio esterno. Murray è ancora in campo, stremato. Pronto al quarto set gridando “come on” ancora una volta, come sempre.

Il copione è lo stesso di prima, con Bautista che perde tutti i punti decisivi per chiudere la partita e Murray che con il passare del tempo, prende ossigeno e forza nel fisico martoriato. Di nuovo tie-break, di nuovo Andy Murray. Ora la partita è in perfetta parità nel delirio del pubblico australiano. Roberto Bautista Agut però è un perfetto sicario, ne ha tutta l’aria. Inizia il quinto set e non prova alcun tipo di emozione. Domina dall’inizio alla fine, con un tennis dal ritmo martellante. Non c’è partita. Murray perderà così il suo ultimo match della carriera? O è solo l’ultimo in Australia? Bautista mostra il bicipite, sguardo spiritato. Nessun lieto fine nella partita e per il pubblico, non c’è stato bisogno di nessun corpo a corpo finale, ma forse non è ancora finita per Murray: la sua ultima stagione è “appena iniziata”, dice.

13 marzo 1996

In campo urla, le vene sul collo, quasi sempre contro sé stesso. Fuori dal campo è pacato, brillante, le sue idee sono più complesse e interessanti della media degli altri tennisti. È equilibrato, preparato, sempre molto diretto. Ha preso scelte forti. Ha assunto una donna come coach, Amelie Mauresmo nel 2014; sull’Equal prize money è stato il più chiaro di tutti . È scozzese, non è inglese, non simpatizza Inghilterra “nemmeno ai mondiali” e si fa di certo riconoscere per il suo lato ironico extra sportivo.

Nel 2005 l'erba di Wimbledon non è ancora diventata troppo lenta, Murray ha appena compiuto 18 anni e ha ricevuto una wild card per partecipare al torneo. Superati agevolmente i primi due turni, la partita di terzo turno lo vede di fronte a David Nalbandian, finalista tre anni prima. Murray strappa il primo set al tie-break rispondendo colpo su colpo a un Nalbandian che aveva impostato un piano partita semplice ma ingenuo. Voleva scambiare sulla diagonale di rovescio, quella su cui in quel momento è superiore a quasi tutti nel circuito. Non era colpa sua, se non conosceva ancora bene Andy Murray. Nel secondo set Murray prende il largo, 6-1, ma poi arrivano le nubi interiori. Murray deve combattere con sé stesso; tutti i tennisti lo fanno, per lui è una battaglia più aspra, più dolorosa. Nalbandian si fa sotto, inizia ad attaccare e a mettere pressione per accorciare lo scambio, perché tenere il palleggio con quello che in futuro sarà considerato uno dei migliori contro/attaccanti della storia, non era stata una buona intuizione.

L’esperienza ha un valore nel tennis e in poco meno di due ore Nalbandian si regala tre comodi set 6-1, 6-4, 6-1. Terminata la partita Murray, in lacrime per buona parte dell’ultimo set, racconta di come sia qui perché «voglio dare ai cittadini di Dunblane un motivo per essere felici».

Dunblane è famosa per la cronaca mondiali perché il 13 Marzo del 1996 tra le 9.30 e le 9.33 un uomo, Thomas Watt Hamilton, entrando nella Primary School della città uccise a colpi di pistola sedici scolari di età compresa tra i 5 e i 6 anni e la loro insegnante, prima di suicidarsi. Uno dei peggiori massacri nella storia avvenuti in Regno Unito. Andy Murray e suo fratello Jamie, il 13 Marzo del 1996 erano all’interno della struttura e si salvarono perché riuscirono a nascondersi sotto una cattedra. Andy sostiene che ci sono «voluti 3/4 anni per capire ciò che successe quel giorno» ma soprattutto che «La cosa più orrenda è che conoscevamo tutti quel ragazzo. Mia madre gli dava spesso un passaggio. È stato nella sua auto. È ovviamente qualcosa di terribile sapere che hai avuto un omicida seduto nella tua auto. Accanto a tua madre». Thomas Watt Hamilton era un ex capo scout, che aveva frequentato la struttura scolastica, ma fu allontanato per comportamenti “non convenzionali” nei confronti dei bambini. Murray ha più volte citato quell’avvenimento, mantenendo sempre il riserbo sui risvolti psicologici che ha creato dentro di lui quella mattinata spaventosa.

Estate 2012

Wimbledon è il sogno per ogni sportivo nato nel Regno Unito o forse è il sogno per ogni tennista punto. O, meglio ancora, su questo non abbiamo dubbi, Wimbledon è il sogno per ogni inglese appassionato di tennis. Vederlo vincere a un tennista inglese è il mantra del pubblico ormai orfano di Tim Henman. Andy Murray è scozzese - molto chiaro nel ribadirlo quando necessario- e gioca sotto i colori del Regno Unito. Wimbledon però è anche il suo sogno.

I giornali lodano il cammino dello scozzese, il pubblico lo sostiene fin nei primi turni, Murray arriva facilmente in finale, nessuna maratona, qualche set perso, ma sembra che “il predestinato britannico” così lo chiamano, forse sia pronto per l’incoronazione. Roger Federer ha 31 anni e ha vinto 16 tornei del grande slam. Ha appena eliminato Novak Djokovic in semifinale, viene da un paio di maratone non consuete nei turni precedenti, e questo torneo lo ha vinto già sei volte. Tuttavia il giorno della prima finale nel giardino inglese il pubblico è realmente affascinato dal suo sfidante, Roger Federer. Il re, il tennis, il custode del giardino.

8 Luglio 2012: Andy Murray ha 25 anni, 3 finali slam perse (2 contro Federer, 1 contro Djokovic) e l’impressione che da un momento all’altro qualcosa nella sua carriera potrebbe cambiare. L’approccio alla partita, e alle finali soprattutto, sono una caratteristica che si costruisce nel tempo, eppure Murray sul 4-4 del primo set fa il break, serve e vince il primo set 6-4. Il secondo set sembra la fotocopia del primo fino al 4-4, poi palla break per Murray, dopo una bella discesa a rete sul 40 pari. Federer serve benissimo, Murray risponde, Federer entra in campo con un dritto in diagonale e Murray alza un pallonetto, primo smash non preciso di Federer, Murray si salva ancora, di nuovo smash di Federer e palla break annullata. Si arriva al 6-5 per Federer e servizio Murray. 30-0 Murray, poi Federer inizia ad accorciare lo scambio cercando di raggiungere la rete il prima possibile. Murray corre, corre tantissimo e arriva a servire sempre più stanco. Federer risponde con i piedi dentro del campo, accorcia il tempo, Murray corre, Federer raggiunge la rete. Il set finisce 7-5 per Roger Federer, dopo quella sanguinosa palla break. Il pubblico è in visibilio per Federer, che regala una prestazione magistrale. Murray continua a correre, Murray continua a parlare con la sua testa. Finisce 4-6, 7-5, 6-1, 6-4 per Federer, anche se Murray annulla un paio di match-point e nel quarto set tenta disperatamente di rientrare in partita. La delusione è tanta, ci sono molte lacrime, siamo 0 su 4 con le finali slam e forse a 25 anni, nonostante una montagna di partite e tornei vinti, qualcuno inizia a sentire quel senso di incompiutezza.

Ormai considerato da tutti il presente e futuro numero 4 al mondo, un paio di settimane dopo ci sono i Giochi Olimpici di Londra, si gioca di nuovo a Wimbledon, e in finale ancora una volta Murray incontra Federer. Questa volta il pubblico di casa però è tutto per Andy, che in queste settimane olimpiche non è scozzese ma britannico a tutti gli effetti. Sul centrale il risultato non lascia spazio a nessun tipo d’interpretazione: Murray vince 6-2, 6-1, 6-4. Aleggiano però diversi interrogativi: forse Federer avrebbe preferito vincere la medaglia olimpica e Murray Wimbledon? Che senso ha questa vittoria dopo la delusione per la sconfitta precedente? Murray può vincere solo partite del genere e non riuscirà mai a centrare uno Slam?

Si leggono tantissime cose sui tabloid inglesi e qualche domanda è giusto porsela. Ma in quella vittoria per Andy Murray c’è anche la spinta e la consapevolezza che forse si sta entrando davvero nell’epoca dei fab4. Non è solo un imbucato. Poche settimane prima aveva detto quella frase tragica, «so piangere come Federer, ma non so giocare come Federer», ma ora non può pensarlo, non completamente. Per certi versi la Golden Era del tennis mondiale nasce proprio in quel mese del 2012. Da lì a poco, agli US Open, sarebbe arrivato anche la prima vittoria Slam per Andy Murray e poi una nuova finale persa in Australia. Infine sarebbe arrivato Wimbledon 2013.

Gennaio 2023

Matteo Berrettini è in forma. Viene da un periodo fisico abbastanza positivo dopo il terribile finale della scorsa stagione. In Australia nell’edizione 2022 ha raggiunto le semifinali e negli Slam è un giocatore tenace, che non sbaglia mai l’obbiettivo. Non si può dire che Berrettini, dopo l’ascesa definitiva, abbia mai mancato i primi turni di uno Slam. Servizio e dritto sono tra i migliori del circuito e, se il fisico resiste, può essere un giocatore difficile da battere per chiunque.

La partita con Andy Murray arriva al primo turno; Andy dopo il suo ritorno definitivo non è più riuscito a raggiungere l’obbiettivo di essere testa di serie nei grandi tornei del circuito. Gioca perché si diverte e ama ciò che fa. Si è sposato, sono arrivati quattro figli e moltissime sconfitte. Negli ultimi anni 4 anni, il suo rapporto vittorie/sconfitte è di poco sopra al 50% (in carriera, prima del 2019 toccava il 77% di vittorie/sconfitte) e non possiamo dimenticare di averlo visto perdere al challenger di Mallorca Challenger contro Matteo Viola, onesto tennista italiano di 35 anni che ha raggiunto il suo best ranking alla posizione numero 118 circa dieci anni prima, dopo una battaglia di quasi 3 ore negli ottavi. Oppure quando a Biella ha perso in finale - sempre di un challenger - in poco più di 60 minuti da Illya Marchenko con un perentorio 6-2, 6-4.

Si può vedere Andy Murray perdere al tie-break decisivo del terzo set nettamente contro Matteo Viola?

È cresciuto, ha recuperato quel minimo di confidenza con il suo tennis, ma le sconfitte che ci hanno fatto pensare ”chi te lo fa fare?” sono continuate, soprattutto nelle grandi prove dello slam, dove è stato difficile vederlo perdere, un anno fa, proprio in Australia, al secondo turno con Taro Daniel 6-4, 6-4, 6-4. In mezzo qualche lampo, qualche testa di serie caduta, più giovane e forse meno pronta ad affrontare le partite ad alto tasso di battaglia, pensiamo a Shapovalov a Madrid lo scorso anno, dove Murray ha prevalso 6-1, 3-6, 6-2, prima di non scendere in campo per il match con Novak Djokovic il turno successivo. Il suo ultimo titolo, il 250 di Antwerp, lo ha vinto in una finale vintage contro Stan Wawrinka, dopo aver superato una battaglia di quasi tre ore con Marius Copil nei quarti di finale.

Murray ha continuato ad allenarsi, a lottare in partite di primo turno in campi periferici contro avversari dimenticabili. Il suo tennis più lento, più spento, ma con ancora dentro una scintilla di grandezza. Era possibile vederla soprattutto nei momenti in cui la partita diventava più aspra e metteva a nudo quello che in lui non morirà mai, lo spirito competitivo, la resistenza mentale. Vinceva qualche partita, ne perdeva molte di più. Continuava ad allenarsi. Poi ha sostenuto un’altra operazione all’anca, un’altra protesi di metallo. Di nuovo: riabilitazione e allenamento.

È gennaio, ci sono gli Australian Open e la Rod Laver Arena è un forno. Murray non deve più convivere col dolore, l’ultima operazione ha dato realmente ottime risposte al suo fisico. Però sembra comunque finita: 35 anni e migliaia di partite di tennis appesantiscono il suo corpo, oltre alla protesi di metallo. Berrettini ha vinto gli ultimi tre scontri diretti tra i due, l’ultimo di questi, agli scorsi US Open, ha fatto presagire che la partita poteva mettersi male per l’italiano. Dopo i primi due set in controllo, Murray è riuscito a calibrare la risposta soprattutto sulla prima palla e, una volta iniziato lo scambio, risultava ancora un giocatore efficace nello scambio allungato, più cerebrale. Perso il terzo set al tie-break, Berrettini trova alcune soluzioni interessanti come la palla corta e la discesa a rete per togliersi subito dalla battaglia da fondo, che sul cemento resta ancora terreno fertile per Andy Murray. Vince la partita al quarto set, mostrandosi più incisivo nei punti decisivi, qualità che lo ha portato più volte nei momenti clou dei grandi tornei.

In Australia invece Berrettini parte contratto; fisicamente si vede che sta bene, ma il suo tennis non è così efficace. La partita scorsa ha lasciato qualche scoria? Il servizio non riesce ad affondare, mentre Murray ci ricorda cosa significa saper contro-attaccare nel tennis, ovvero esser in grado di passare da una situazione difensiva a una offensiva. Murray vince i primi due set 6-3/6-3. Poi Berrettini torna a servire la prima, Murray concede il terzo, e Berrettini sembra aver ripreso in mano la partita. Nel quarto set lo scontro si fa duro, il corpo a corpo diventa estenuante e se non entra la prima, per l'italiano sulla seconda palla di servizio iniziano i problemi. Berrettini trema, ma quando hai quel servizio nel tennis moderno, trovi anche la capacità di tirarti fuori dalle difficoltà con un gesto tecnico che può darti una certa fiducia. Servizio e dritto.

Murray corre, gli scambi diventano più lunghi, la partita supera le quattro ore. Si va al quinto set. Sul 5-4 e servizio, Murray sembra non stare più in piedi, Berrettini ne approfitta e accorcia lo scambio. Si va al match-point sul servizio di Murray. Lo scozzese serve bene, Berrettini si difende, poi Andy decide di seguire a rete una poco dignitosa palla corta ben intuita da Berrettini. Campo aperto di rovescio, ma la palla finisce sotto la rete.

Da quel momento bizzarro (come si può seguire a rete una palla corta che poi in realtà è a metà strada che il tuo avversario deve solo spingere dall’altra parte?) inizia una nuova partita. Si va al super tie-break, la tela di Murray fatta di lunghi scambi e improvvise accelerazioni manda l’italiano fuori dalla partita con il suo servizio. Dopo quasi 5 ore, Andy Murray è ancora dentro al torneo, nonostante avesse vinto e poi perso la partita. Il tutto lungo una serata che è diventata notte, in una mattina che diventa pomeriggio in Italia.

Nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo, con il pubblico australiano in delirio e i commentatori che ringraziano per la tenace partita che Thanasi Kokkinakis, beniamino di casa e reduce dalla vittoria in coppia con Kyrgios lo scorso anno, proprio qui nel primo slam della stagione, sta conducendo per due set a zero contro Murray, giocando un tennis senza sbavature. I primi due set, per dovere di cronaca sono stati belli, intensi e Kokkinakis ha dimostrato di essere un giocatore migliore della sua attuale classifica ATP. Sono due set che durano oltre due ore, finiti 6-4, 7-6 con Murray concentrato e stremato. Tra smorfie e dialoghi interiori, nel terzo set Kokkinakis fa subito il break, va sopra 2-0 e poi Murray ha la palla del contro break e succede questa cosa qui, un punto che sembra un trailer della carriera di Murray, forse addirittura della vita dello scozzese, una capacità di difendersi muovendo i piedi e la testa, capendo le intenzioni dell'avversario e non rinunciando mai allo scambio.

Nemmeno l’euforia del contro break che Murray si ritrova di nuovo sotto 5-2. A Kokkinakis, che ha dimostrato di saper reagire ai momenti difficile del match, basterebbero solo quattro punti per vincere. L'australiano non riuscirà però ad avvicinarsi a meno di due punti dal match, con il set che finisce 7-6 per Murray.

Mettiamoci comodi: è passata la mezzanotte in Australia e lo stadio non ha intenzione di svuotarsi. Murray continua a tirare fuori il pugnetto verso il suo angolo, continuerà ad alzarlo dopo ogni punto vinto fino alla fine del match. Kokkinakis reagisce, tenta di stare dentro la partita. Perde il quarto set 6-3, consapevole di doversi giocare tutto al quinto. Riparte con il suo servizio e con i suoi fondamentali per appropriarsi della partita. Murray zoppica, cammina lento. Ogni punto dura un minuto, i game si allungano, Murray continua a prendere un po’ di partita ogni turno di servizio di Kokkinakis. Arrivano anche le palle break, Kokkinakis le cancella con grande autorevolezza. Ma Murray sta lentamente entrando al terzo turno: piano piano, risposta dopo risposta. L’obbiettivo è quello di giocare sempre un colpo in più, non importa come, ma farlo giocare un colpo in più.

La sfida tra questi due è già da considerarsi una delle partite migliori di questo 2023, perché nel quinto set, in palese stato di annebbiamento fisico e tattico, si lasciano andare a grandi colpi senza pensare troppo. C’è molto spettacolo in tutto ciò. Murray sembra alle corde, ogni punto vinto, sembra l’ultimo della sua vita. Ogni punto perso, credi che possa ritirarsi. Kokkinakis non è brillante ma resta nel match, continua a urlarlo. Poi Murray prende campo, fa il break e serve per il match. Vince la partita. Kokkinakis non ha parole, Murray tira fuori il pugno. Il pubblico è in delirio. Nell’intervista post- partita c’è una perfetta sintesi di tutta una carriera: il commentatore, forse stanco perché sono quasi le 4 di mattina, ci tiene a dire «Andy non hai solo un cuore grande»la risposta di Murray, con faccia dura, stanca e arrabbiata, non si fa attendere«Mia moglie non sarebbe d’accordo» tra le risate generale di una battuta detta con estrema schiettezza, incalza «No sul serio chiediglielo». Murray è capace di smorzare l’adrenalina del suo stesso corpo, con compostezza e una sincera dose di ironia che va in perfetta contrapposizione con la sua faccia dura e incazzata. Dopo la partita scriverà un tweet che forse aveva in bozze da tempo: «Nel 2017 un medico mi disse "la buona notizia è che il tuo problema all'anca può essere aggiustato ma non sarai più in grado di praticare sport professionistico di nuovo". Penso che abbiamo smentito questo mito negli ultimi 5 giorni. Buonanotte».

Il biennio 2015/16

Quando si racconta uno sportivo la narrazione si prende uno spazio, tra il reale e lo statistico, che definisce la percezione di un atleta. Certi sportivi sono “sottovalutati”, altri sono “sopravvalutati“ e molti hanno raccolto “meno di quello che avrebbero meritato”. Ci sono anche sfumature più sottili, sempre più remote, ipotetiche; “se avesse avuto una testa diversa” oppure “il tempo renderà giustizia alle qualità di queste vittorie”.

Esistono piccole vittorie in un oceano di avvenimenti che restano nella storia dello sport, così come esistono grandi sconfitte, che diventano leggendarie. In questo matrimonio di “pensieri e carriere”, tra partite ed episodi, il senso della storia è qualcosa che viene riservato ai più grandi di sempre. Andy Murray è atipico anche in questo, nel rapporto con il tempo e il bilancio narrativo di una carriera. È stato uno dei fantastici 4 nella Golden era del tennis, ha battuto per 28 volte, su varie superfici, i tre mostri sacri Djokovic, Nadal e Federer. Certo, ci ha perso più volte di quanto abbia vinto, ma ha vinto comunque quasi 30 partite. Un numero che mai nessuno raggiungerà. Durante questa era dorata, durante il monopolio del Mostro a tre teste, è stato numero uno del mondo. Ha vinto 2 ori olimpici, 3 Slam, 50 tornei ATP. Stiamo parlando di appena sette anni fa, ma sembra un tempo lontanissimo. Mentre Djokovic, Nadal e Federer hanno continuato a vincere, o a provare a vincere grandi tornei, fino all’ultima partita giocata o che giocheranno. Per Murray è andata diversamente: mentre i suoi avversari trovano energie anche nei loro corpi esangui, lui non ha dimostrato alcuna qualità superomistica. Murray è un essere umano, con un fisico logorato dallo sport professionistico, e ogni partita glielo (e celo) ricorda. Non ci sarà nessun finale glorioso, nella sua storia che pure gloriosa è stata. Non lo avrà perché in un certo senso lo ha anche rifiutato.

Quando ha deciso di ritornare, ben consapevole di quanto sarebbe stata lunga e accidentata la strada, lo ha fatto per dimostrare qualcosa, agli altri e a sé stesso. È stato un fare i conti col tempo in modo aperto, senza alcun super potere ma con un senso dell’eroismo del tutto umano, e quindi disperato. Murray sembra volerci dire, ogni volta che lo si vede su un campo da gioco, che c’è ancora qualcosa da fare, il punto dopo da conquistare, quello ancora colpo dopo. Non è ancora finita, lo vedi e te lo ripete.

Non era finita nel 2013, quando si presentò in finale di Wimbledon contro Novak Djokovic e riuscì a vincere. Poi, prima degli US Open, i problemi alla schiena, la prima caduta, la discesa nelle classifica, la risalita, il 2015 e il 2016. La Coppa Davis delle 11 vittorie, di un altro Wimbledon, della seconda medaglia olimpica consecutiva e del primo posto al vertice della classifica ATP. Nel 2016, Murray vinse 78 partite e ne perse 9, chiuse la stagione al numero uno al mondo e fu eletto giocatore dell’anno dai sui colleghi. Da quel momento l’anca iniziò a usurarsi sempre di più, appena compiuti i 30 anni. Dopo venne la prima operazione, il ritorno e il nuovo declino, la seconda operazione, il dolore straziante. Il primo ritiro, la terza operazione. Ed eccoci qua. A divertirci in campo lui dice, a scherzare con la storia, senza pensare a statistiche o trofei, giocando colpo dopo colpo, perché il punto che viene è il prossimo, non quello precedente.

Il tempo scolorirà tutto questo, tutti questi successi, tutti questi patimenti. Li renderà delle piccole parentesi curiose nel grande libro dell’età d’oro del tennis?

21 gennaio 2023

Anche Roberto Bautista Agut ha quasi 35 anni. Quattro in più di quando aveva battuto Murray in quella che avrebbe dovuto essere l'ultima partita della sua carriera. Nel frattempo si è tolto qualche soddisfazione, una semifinale a Wimbledon, un quarto a Melbourne. Un giocatore sottovalutato sulle superfici veloci. Ora la sua carriera sembra tornata a una normalità senza grossi picchi, però quel giorno sa che parte favorito. Di nuovo nel ruolo di sicario dal volto di pietra. Murray è reduce da 10 ore sui campi da tennis australiani. Oggi, come quattro anni fa, non sembra che i due abbiano una grande simpatia reciproca. Gli appassionati si scaldano all'idea che Murray possa ritrovare Djokovic in semifinale, il pubblico è chiaramente tutto per lo scozzese e Bautista per non correre rischi, parte subito con un 6-1 nel primo parziale. Poi durante un secondo set in controllo, Murray tra una smorfia e un urlo, porta il set al tie-break e grazie alla varietà dei colpi riesce persino a vincerlo.

Lo stadio è caldissimo, sembra di rivivere l’ennesima maratona vincente dove lo scozzese in qualche modo riuscirà a portare la partita a casa, invece Bautista Agut inizia a non sbagliare più. Gli scambi diventano pesanti, dentro lo stadio c’è solo un piccolo nucleo di spagnoli all’angolo che applaudono (ma non sempre va detto). Nelle battute finali, fatte di possibili palla break per Murray, Bautista non cede a un sentimento, a un tremore; Murray corre, da una parte all’altra, riesce a tirare fuori energie da un serbatoio mentale infinito. Poi litiga con la sua testa, sbaglia e riparte.

Non riesce più a servire, la schiena ha ceduto. Sono praticamente due seconde palle lavorate, eppure la partita continua e qualcuno in fondo pensa possa accadere qualcosa. Ma non accadrà nulla - la partita scivola via, con due set tiratissimi 6-3, 6-4. Bautista Agut urlerà fortissimo dopo averla vinta. I due si saluteranno con estrema freddezza. Murray uscirà dal campo, travolto dal calore del pubblico, zoppicando, arrabbiato.

Ma tanto tornerà, ci riproverà, perché ancora non è finita.

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