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Stefano Piri
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01 set 2015
01 set 2015
Non nascerà un altro Andrea Pirlo.
(di)
Stefano Piri
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Un corollario del calcio del possesso di palla è l’aumento di importanza dell’aggressività e dell’abilità di rubare il pallone agli avversari, tanto che potremmo ugualmente parlare di “calcio del recupero di palla”. A pensarci bene Guardiola non ha inventato il tiqui-taca, che era nel DNA delle squadre iberiche da sempre, ma ha inventato il modo di renderlo efficace risolvendo il problema del recupero delle palle perse.

 

Il calcio di oggi si gioca con un pallone incandescente e assomiglia a un duello di sciabola in cui le due squadre saltano da una parte all’altra del campo facendo scintille, chiudendo tutti gli spiragli e cercando allo stesso tempo un punto debole nell’avversario. I grandi attacchi d’Europa sono colate di lava che scavano furiosamente in cerca di una via di sfogo, e un pallone perso a centrocampo è spesso una vertigine da cui ci si risveglia con l’attaccante avversario a calciare davanti al portiere. Per questo la morfologia del centrocampista medio è così cambiata negli ultimi anni, e al piglio aristocratico del pensatore si sono sostituite creste da working class, quadricipiti tatuati e sguardi spiritati da ipertiroidismo.

 

In questo contesto, il gioco di Andrea Pirlo è una via di mezzo tra follia ed eroismo. Gioca davanti alla difesa, nella zona in cui perdere il pallone è più pericoloso, e tiene il pallone tra i piedi molto più a lungo degli altri, pur essendo nella maggior parte dei casi disperatamente inferiore agli avversari sul piano del fisico e della velocità. Molto spesso le possibilità di riuscita delle sue giocate migliori dipendono proprio dalla capacità di resistere con il pallone tra i piedi fino all’ultima frazione di secondo possibile, un sospiro prima di venire scaraventato a terra da qualche Vero Uomo e apparire irrimediabilmente ridicolo, con la barba da svogliato e il taglio di capelli fuori moda.

 

Della leggerezza quasi metafisica e della perfezione euclidea dei suoi lanci si è già detto e scritto davvero tutto, così come della sua velocità e precisione di pensiero, ma con Andrea Pirlo il calcio italiano perde anche il calciatore più spericolato della sua generazione, un campione di sangue freddo e consapevolezza che verrebbe bene come personal trainer per curare i vari talentini italiani della generazione millennial in perenne crisi esistenziale.

 

Questo aspetto della sua personalità diventa ancor più affascinante alla luce della sua storia: Pirlo è nato baciato dagli dei del calcio. Dal punto di vista del tocco di palla è probabilmente il migliore al mondo della sua generazione, e forse uno dei migliori cinquanta della storia del calcio. Se fosse nato dieci anni prima Pirlo avrebbe fatto il trequartista e sarebbe diventato senza difficoltà una superstar globale già da giovanissimo. Invece ha avuto la sfortuna di affacciarsi al calcio a cavallo del 2000, ovvero esattamente in corrispondenza dell’estinzione dei giocatori come lui. I trequartisti di passo lento e grande visione di gioco avevano dominato i decenni precedenti, ma adesso nessuno dei nuovi sistemi tattici ne prevede l’utilizzo. Ma ve lo immaginate uno come Pirlo, uno che non aveva mai avuto bisogno di osservatori in vita sua e fin da quando aveva 15 anni era sui taccuini di tutte le migliori squadre europee, come dev’essersi sentito a venire sballottato in prestito su e giù per l’Italia, tra Reggio Calabria e Brescia, mentre i suoi massimi momenti di notorietà nazionale gli derivavano dal ruolo di eterno capitano dell’Under-21?

 

Nel 2001, a 21 anni, dopo aver giocato poco e niente per mezza stagione nell’Inter, Pirlo viene prestato per 6 mesi al Brescia, la squadra in cui è cresciuto. Visto che dietro le punte c’è già Roberto Baggio, Mazzone lo arretra a regista di centrocampo. Fa alcune ottime cose, tra cui il lancio in verticale per il famosissimo aggancio-dribbling di Baggio contro la Juve, ma dopo 10 partite si rompe un piede e la sua stagione finisce li. Quando torna all’Inter Pirlo è un giocatore ancora molto giovane, ma non più un enfant prodige, non ha un ruolo ben definito ed è considerato fisicamente fragile. Non so in quanti, a quel punto, avrebbero scommesso su di lui. Invece quell’estate va al Milan e grazie ad Ancelotti inizia a lavorare sull’intuizione di Mazzone e a sfidare i suoi ovvi limiti, oltre che il semplice buon senso che sconsiglierebbe di schierare a protezione della difesa uno dei trequartisti più statici e leggerini in circolazione. Oggi sappiamo tutti come è andata a finire, ma il successo di una trasformazione del genere non era affatto scontato, anche perché deve aver richiesto a Pirlo quel tipo di lavoro quotidiano sui propri difetti che solitamente riesce doppiamente difficile a chi viene dall’aristocrazia del talento.

 

https://www.youtube.com/watch?v=owN0W1c90zw

La verticalizzazione di Pirlo, l’aggancio di Baggio: trent’anni di calcio italiano in due tocchi.


 

Insomma, della squadra campione del mondo 2006 al calcio italiano mancano senz’altro le urla fanatiche dei Cannavaro e dei Gattuso, nati soldati e diventati generali sul campo, ma uno come Pirlo sarà ancora più difficile da rimpiazzare, perché i generali nati poeti sono i più rari di tutti, e di solito sono quelli che scrivono la storia.

 



«Il bebè Pirlo del Brescia (classe ’79!) che per passo e tocco molti paragonano a un certo Rivera». Questo ritrattino, letto in una meravigliosa paginata “Nuovi Talenti” del

piena di immagini e box di testo colorati, mi rimase impresso parola per parola come i primi versi di

e certe frasi di

(avevo 12 anni, per cui adesso non mettetevi coerenza e qualità dei miei consumi culturali).

 

“Per passo e tocco” mi sembrava un’espressione elegantissima, e anche se non sapevo che faccia avesse Rivera mi avevano raccontato che era stato il 10 più italiano più forte di tutti, tecnico, indolente e sofisticato, ovvero esattamente il tipo di giocatore che accendeva la mia fantasia preadolescente. Soprattutto mi sembrava che il Guerin Sportivo mi avesse fatto un meraviglioso regalo, condividendo con me il segreto dell’esistenza di un giocatore fortissimo che nessun altro ancora conosceva, di cui avrei potuto parlare con i miei amici chiamandolo “il mio pupillo”.

 

Una quantità imprecisata di tempo dopo ci portarono allo stadio con la scuola, genoani e sampdoriani insieme, presumo in una di quelle campagne per il tifo sano che ogni tanto le società si costringono a fare. La partita era Genoa-Brescia, e siccome mi ricordo nitidamente la doppietta del belga Goossens con l’aiuto di Google posso collocare precisamente la partita nel tempo: 15 dicembre 1996. Il Genoa batté 4 a 0 il Brescia primo in classifica e all’ottantunesimo Pirlo, che aveva da poco compiuto 17 anni, entrò in campo al posto di Maurizio Neri. Io naturalmente mi affannai a raccontare ai miei compagni la storiella del nuovo Rivera, ma non mi diedero granché corda, e siccome i dannati ragazzini non hanno memoria quando poi Pirlo divenne Pirlo nessuno si ricordava più di questa storia.

 

Comunque tenni duro, e Pirlo divenne il mio giocatore preferito per tutta l’adolescenza. Feci un tifo esagerato per lui quando all’Inter cercarono di distruggergli la carriera e il mio interesse per lui calò parzialmente solo quando divenne

, con le grandi vittorie al Milan e in Nazionale.

 

Va detto comunque che gli altri giocatori a cui il

mi aveva spinto a pronosticare un futuro certo ai vertici del calcio mondiale erano i gemelli brasiliani

e

, e il loro connazionale

, per cui i miei meriti di talent scout vanno ridimensionati, e temo anche quelli della testata.

 



(

Alessandro Alciato) è un’autobiografia uscita nel 2013 in cui Pirlo scrive come un giornalista di Sky che ha letto

, ma non è del tutto convinto che una cosa del genere possa funzionare sul mercato italiano, per cui ci sono due o tre momenti di

sulla solitudine del campione diluiti in un mare di aneddotica simil-oratoriale da spogliatoio e edificanti tirate antidoping. (Ok, adesso il fatto che io l’abbia letto fino in fondo suona abbastanza male, ma a mia discolpa va detto che ci si mettono meno di due ore. Sono sicuro che ciascuno di voi nell’ultima settimana ha sprecato due ore della sua vita in modo almeno altrettanto stupido. Diciamo nell’ultimo mese).

 

Una delle scene di

è quella in cui Pirlo sedicenne negli Allievi del Brescia gioca in lacrime saltando avversari e compagni, perché si è reso conto che questi ultimi sono invidiosi e non gli passano il pallone. Non so se sia mai successo esattamente in questi termini, ma sicuramente è una scena verosimile. Come già detto, Pirlo è stato uno dei ragazzini predestinati del calcio italiano, come Baggio prima di lui e più tardi Cassano e Balotelli. Da adolescente basta vederlo calciare il pallone per capire che è diverso da tutti gli altri e sa già imprimere alla sfera le traiettorie misteriose che qualche anno dopo diventeranno famosissime. Gioca a testa alta e vede tutto il campo con la naturalezza di un ragno al centro della tela. Lo chiamano in tutte le Nazionali possibili a partire dall'Under-15, e diventa la stellina dell’Under-16, dell’Under-18 e dell’Under-21, una dopo l’altra.

 

Ha il tocco e il portamento del grande numero 10, che è uno degli archetipi della tradizione calcistica italiana, e persino il taglio di capelli da

gli conferisce una dimensione un po’ fuori dal tempo. Per noi italiani i numeri 10 sono importanti, perché abbiamo sempre giocato così: grandi difensori e centrocampisti di corsa, con un centravanti implacabile e un fantasista geniale a trasformare in oro le poche occasioni della partita. Forse è questo il motivo per cui, da sempre, quando un ragazzo sembra avere le potenzialità di un grande 9 o di un grande 10 gli scateniamo intorno attenzioni tecniche e mediatiche spropositate. Pirlo non fa eccezione.

 

Uno dei suoi primi allenatori racconta così Pirlo quattordicenne: «Già allora non gli potevi dire niente, al massimo di non specchiarsi troppo. Per il resto era ed è perfetto: se a te dalla panchina viene in mente che potrebbe fare una cosa, sta' certo che l'ha già pensato».

 

Esordisce in Serie A due giorni dopo aver compiuto 16 anni, nell’anno della retrocessione del Brescia. A 17 anni è titolare in Serie B con Reja e segna anche 2 gol,

che sblocca la partita della festa promozione con il Venezia.

 

L’anno dopo è titolare anche in Serie A, non prima che Lucescu abbia sedato una sorta di rivolta dei senatori della squadra. Il ragazzo infatti in allenamento non dà prova di particolare umiltà, e si diverte a dribblare e controdribblare giocatori che hanno quasi il doppio dei suoi anni. Alla fine gioca 29 partite e segna 4 gol. Alla trentunesima di campionato contro il Bologna incrocia per la prima volta i tacchetti con il suo idolo Roberto Baggio e in un ideale passaggio di consegne segna con la prima, splendida, punizione “alla Pirlo” tra i professionisti.

 

Alla fine del campionato 1997/98, a 19 anni appena compiuti, Pirlo passando all’Inter realizza il sogno di giocare con Baggio, che al contempo arriva in nerazzurro dal Bologna. Esordisce in un’amichevole estiva contro il Liverpool di Owen e fa vedere cose straordinarie, attirandosi gli elogi entusiastici di allenatore e compagni di squadra. Simoni

: «Questo è un genietto del calcio, vede la partita e serve sempre il compagno davanti al portiere. Potenzialmente è uno dei più forti giocatori del mondo, appena l'ho visto ho detto a Moratti di prenderlo. Mi aveva fatto la stessa impressione che mi fece Bruno Conti, quando lo scoprii nella Primavera del Genoa. Campioni si nasce e ogni età è buona per dimostrarlo. Rivera a 16 anni lo era, e Rivera è la prima cosa che mi viene in mente quando vedo Pirlo».

 

«Se Owen vale 100 miliardi, Pirlo nel vale 150» rincara la dose il terzino Colonnese, con quella che all’epoca sembra una sparata e invece alla luce della carriera dei due appare oggi come una valutazione fin troppo generosa nei confronti dell’inglese. «Lo sto aiutando a crescere» chiosa Baggio.

 

Invece la stagione dell’Inter, in shock post-traumatico dopo lo scudetto perso al Delle Alpi e il fallo-di-Iuliano-su-Ronaldo, sarà un calvario. A novembre Ronaldo si rompe il tendine rotuleo contro il Lecce. Simoni viene sostituito da Lucescu, poi da Castellini e infine da Hodgson. L’Inter arriva ottava, Pirlo gioca pochissimo e non segna nemmeno un gol. In estate viene girato in prestito alla Reggina, insieme all’altro giovane talento Kallon.

 

Forse è una fortuna, perché a Reggio Calabria, con Franco Colomba in panchina, si ha la più alta manifestazione di Andrea Pirlo nel ruolo di trequartista. Il quasi coetaneo Baronio, un altro capellone démodé che all’epoca sembrava destinato a grandi cose, si posiziona davanti alla difesa a giocare in modo molto simile al Pirlo che conosciamo oggi. Pirlo invece gioca alle spalle di Kallon e Possanzini, libero di inventare e di concentrarsi sulla fase offensiva.

 

Con 28 presenze e 6 gol è la rivelazione del campionato. La sua principale qualità resta quella di aprire spazi per gli attaccanti, ma dietro le punte dà prova di un’ottima capacità di liberarsi al tiro e anche di inserirsi in area di rigore (una qualità che andrà fatalmente perduta con il cambio di ruolo di qualche anno dopo). È già un fenomeno dei calci piazzati, anche se per le punizioni non usa ancora la maledetta: calcia a giro di interno, la classica “foglia morta”, ma gli effetti che dà al pallone sono già incredibili. La punizione più bella dell’anno è quella che segna contro il Lecce, in cui il tiro sembra davvero alto sopra la traversa, di almeno mezzo metro, finché misteriosamente non si abbassa ed entra in rete.

 

https://youtu.be/EEcmrLQgD4c

Un’altra traiettoria inspiegabile.


 

Alla fine del campionato Pirlo parte con l’Under-21 per partecipare da stella annunciata all’Europeo di categoria in Slovacchia. Il CT è Tardelli e in rosa ci sono Abbiati, Gattuso, Matteo Ferrari, Cristiano Zanetti, Coco, Ventola e Comandini (che nei filmati di quell’Europeo sembra semplicemente

). L’Italia vince facilmente la prima partita contro l’Inghilterra e Pirlo segna su rigore, ma alla seconda contro la Slovacchia prende due ammonizioni assurde e si fa cacciare. Rientra per la finale contro la Repubblica Ceca e porta l’Italia in vantaggio su rigore. I cechi riescono a pareggiare, ma a dieci minuti dalla fine c’è una punizione dalla zolla preferita di Pirlo, che fa la sua magia a giro sopra la barriera, incastrando il pallone all’incrocio dei pali. L’Under-21 è campione d’Europa, Pirlo è il capocannoniere dell’Europeo e vince il premio di miglior giocatore. «Punizioni? Le ho sempre tirate» è il suo modo di festeggiare in conferenza stampa.

 

https://www.youtube.com/watch?v=CCEljoLoDN4

L’âge d'or in cui l’Under-21 italiana era tipo la Nazionale cinese di tuffi. Il dubbio non era se vinceva, ma quanto.


 

Torna quindi all’Inter circondato da grandi aspettative, anche se la fiducia in lui è sempre in qualche modo condizionata: Moratti cerca di inserirlo come contropartita nell’affare Verón con la Lazio, ed è Pirlo stesso a scegliere di restare in nerazzurro. Dopo la prima di campionato però si presenta una grossa opportunità, quando Lippi viene esonerato e al suo posto viene chiamato proprio Tardelli, il CT con cui Pirlo ha vinto l’Europeo in estate. Anni dopo Moratti

addirittura di aver scelto Tardelli proprio per valorizzare Pirlo.

 

Invece le cose andranno malissimo e, sempre nell’autobiografia, Pirlo racconta di aver vissuto sei mesi orrendi e di aver iniziato a guardare Tardelli con crescente ostilità («sai dove te lo puoi mettere, quell’urlo?») fino alla cessione in prestito al Brescia a gennaio, dove Mazzone gli cambierà il ruolo e un infortunio al piede gli impedirà però di incidere più di tanto.

 

In estate Pirlo passa al Milan nell’ambito di un’operazione a oggi non del tutto chiara. Le leggende metropolitane parlano di uno scambio Pirlo-Guly o Pirlo-Brncic, ma la verità è che Pirlo venne valutato in totale 35 miliardi e Guly e Brncic vennero ceduti all’Inter come conguagli parziali, mentre anche Brocchi passò al Milan. Quali furono le valutazioni reali non si sa con esattezza, anche perché in quegli anni i bilanci venivano compilati con una certa creatività.

 

Pirlo al Milan prende la maglia numero 21, e lo stesso faccio io nella squadra della mia classe di liceo. Ho anch’io i capelli lunghi fino alle spalle e gioco al centro del campo. Cerco di imitare i movimenti di Pirlo e soprattutto cerco di imitarne il modo di calciare, con una miriade di tocchi e tocchetti di interno a giro. Non ci riesco molto bene, perché al di là delle ovvie proporzioni di livello sono alto dieci centimetri abbondanti più di lui e ho probabilmente tre o quattro numeri di scarpe in più. Per imitare Pirlo oltretutto rinuncio a fare in campo le cose che so fare davvero discretamente.

 

Del resto nel bene e nel male è questa la sconfinatezza dell’adolescenza: non saper distinguere tra chi vorresti essere e chi sei, e non essere capace di vederti da fuori.

 



«È sempre divertente vedere gli sforzi che fanno le altre squadre per cercare di fermarlo, e come lui distrugga tutti i loro piani in un secondo». Questa l’ha detta Gigi Buffon e mi pare l’epigrafe perfetta per il gioco del Pirlo regista, che nasce e sboccia nel Milan, trionfa in Nazionale e trova una seconda giovinezza alla Juve.

 

Nel canone calcistico tradizionale il regista e il trequartista sono figure che si avvicinano, ma non si sovrappongono. I tratti in comune sono i piedi buoni, il gioco a testa alta, l’abilità nel passaggio. La differenza principale invece è che mentre dal trequartista ci si aspetta l’imprevedibilità, al regista si chiede il metodo. Il trequartista si esalta negli episodi, mentre il regista deve fornire alimentazione continua al gioco della squadra. Il trequartista quindi si prende più rischi e commette più errori, mentre il regista deve giocare lineare e non può sbagliare quasi mai, altrimenti sono guai per tutta la squadra. Insomma, più o meno c’è la stessa differenza che passa tra un intellettuale e un artista.

 

Secondo me non è corretto dire che Pirlo al Milan si trasforma in regista. È meglio dire che smette di essere un trequartista e diventa una cosa nuova, che prima non esisteva e che difficilmente sarà replicabile in futuro. Non a caso Pirlo non assomiglia più di tanto a nessuno dei grandi “registi” contemporanei. Xavi è un giocatore diversissimo, molto più orizzontale e molto più di fraseggio. Xabi Alonso già è più simile, per posizione e gittata, ma è più geometrico e nelle linee sta a Pirlo come Mondrian sta a Kandinskij. Soprattutto Alonso rende al massimo in campo largo, perché non ha la stessa capacità di Pirlo di attirare il pressing degli avversari per aprire tempi e spazi agli inserimenti dei compagni (l’esempio più noto di questa qualità è l’assist a Grosso contro la Germania, in cui Pirlo temporeggiando si chiama addosso due, tre, quattro tedeschi, e poi li infila quando dice lui). Pirlo è anche un grande giocatore di contatto, sa resistere alle cariche senza perdere la lucidità, e questa è senz’altro una caratteristica che gli deriva da quando giocava più avanti. A differenza di molti altri registi è a suo agio nello sporco, nella velocità, nel disordine.

 

https://www.youtube.com/watch?v=cRgUb3S9Yjk

Riguardiamocelo, che fa sempre bene al cuore (via FIFA TV).


 

Quando Pirlo arriva al Milan l’allenatore è Terim, che dopo due mesi viene sostituito da Ancelotti. La prima stagione in rossonero resta comunque interlocutoria, perché anche il nuovo allenatore non riesce a trovargli una sistemazione del tutto convincente. L’anno dopo però arrivano Dida, Nesta, Seedorf e Rivaldo, Ancelotti inventa l’albero di Natale e Pirlo si posiziona stabilmente davanti alla difesa, diventando uno dei giocatori più forti al mondo. Nonostante la posizione arretrata il 2002/03 è anche l’anno in cui Pirlo stabilisce il suo record di gol segnati in una stagione, addirittura 9.

 

È l’anno della Champions “italiana”, in cui tre semifinaliste su quattro sono Inter, Juve e Milan. Pirlo gioca il ritorno del derby con l’Inter, e poi la finale contro la Juve orfana di Nedved, squalificato. Quella partita nervosa e bruttissima non è certo l’ideale per lui, ma per 71 minuti offre una buona prestazione, finché Ancelotti non lo sostituisce con Serginho. Pirlo non è quindi tra i rigoristi—e avrebbe fatto comodo, visto che sbagliano quasi tutti, da entrambe le parti—ma insieme agli altri corre ad abbracciare Shevchenko che ha spiazzato Buffon, e a 24 anni solleva la sua prima Champions League.

 

Da li a quattro anni vincerà un’altra Champions, uno scudetto, due Supercoppe europee e il campionato del mondo 2006 con la Nazionale.

 

In mezzo, lo shock dell’incredibile finale di Champions persa a Istanbul, che in

è un altro dei momenti alla Agassi/Moehringer, solo scritto peggio: «Ho seriamente pensato di lasciare il calcio perché mi sembrava che non avesse più senso nulla, non mi sentivo più un calciatore e nemmeno più un uomo, non avevo neanche il coraggio di guardarmi allo specchio».

 



La carriera di Pirlo è immensa, ma non priva di amarezze: delle difficoltà di gioventù abbiamo già detto, cosi come della finale di Istanbul. Poi c’è il divorzio col Milan, nel 2011, quando Pirlo viene lasciato andare via gratis senza grandi cerimonie dopo che negli anni precedenti si era lasciato convincere a rifiutare Chelsea, Real Madrid e Barcellona per amore della maglia. Galliani gli regalò una penna, e cercando di sdrammatizzare si raccomandò che non la usasse per firmare con la Juve.

 

Può darsi che una delle determinanti della seconda giovinezza di Pirlo alla Juve sia stato proprio lo spirito di rivalsa nei confronti del Milan, anche se a me vederlo giocare insieme a Pogba ha sempre fatto pensare a uno di quegli incroci generazionali festosamente non convenzionali tipo Johnny Marr cinquantenne che torna a suonare coi Modest Mouse.

 

Forse è per questa percezione che le sue lacrime dopo la finale di Berlino sono state cosi chiacchierate. Ci si immaginava un campione sazio e invece Pirlo si è rivelato un calciatore ancora affamato di trofei, per nulla disposto a perdere di buon grado.

 

Dopo la grande festa del Mondiale 2006, per Pirlo ci sono state tante delusioni anche con la maglia della Nazionale: la figuraccia del 2010 prima di tutto, quando un infortunio gli impedì di aiutare la squadra (un Lippi disperato lo mandò in campo nel secondo tempo con la Slovacchia, e pur giocando in pratica con una gamba sola Pirlo cambiò il volto dell’Italia. Purtroppo non bastò). Stesso discorso agli ultimi Mondiali, quando dopo l’eliminazione Pirlo ha dovuto subire anche l’affronto di Balotelli, che dopo la doccia andò a sedersi in pullman senza aspettare il suo discorso d’addio. In mezzo, per fortuna, ci sono gli Europei del 2012, durante i quali Pirlo deve essersi divertito parecchio.

 



Il giorno dopo che Pirlo

i saltelli di Joe Hart col cucchiaio, uno dei suoi primi allenatori ha raccontato ai giornali un precedente. A 13 anni Pirlo partecipò a un torneo in Danimarca con l’Under-15 della Voluntas, società satellite del Brescia. Come al solito era il più piccolo di tutti, ma ai quarti di finale dovette calciare il rigore decisivo. Andò sul dischetto con la freddezza che sarebbe diventata proverbiale e fece gol col cucchiaio, proprio come anni dopo con Hart.

 

Da li in poi Pirlo sarebbe diventato un habitué del “Panenka”. Il più bello è probabilmente quello del 2003 in Supercoppa contro la Juve, talmente lento e preciso che Buffon, ingannato, fa in tempo a ritirarsi su e smanacciare l’aria, mentre la palla

entra in rete.

 

Guardare negli occhi il portiere, reggere la pressione dello stadio che trattiene il fiato, andare incontro al pallone senza lasciarsi distrarre dalle finte del portiere, calciare il pallone dove e come avevi deciso, guardarlo entrare in rete. Con la sua faccia da scazzato Pirlo è l’interprete perfetto dell’epica western del calcio di rigore. «Hart doveva abbassare le arie», detto in conferenza stampa con quella faccia lì, è una battuta da Sergio Leone. Che segni o no, hai voglia di vederlo sul dischetto.

 

Ad esempio: nel 1998 l’Under-21 si gioca a Wrexham la qualificazione agli Europei con il Galles, e dopo un minuto e mezzo Zambrotta si procura un rigore. Pirlo va sul dischetto, ma calcia centrale, sugli stinchi del portiere. Passano venti minuti e stavolta è Ventola a subire fallo in area. Il rigore lo batte di nuovo Pirlo, di nuovo malamente, addosso al portiere, che respinge. L’Italia riesce comunque a vincere 2 a 1, con due gol nati da invenzioni di Pirlo. A fine partita Tardelli dice ai giornalisti: «Colpa mia. Pirlo non voleva tirare i rigori e io ho insistito». Pirlo però non veste i panni del ragazzino bisognoso di protezione: «Non c’è niente di strano. Se ci fosse stato un terzo rigore sarei andato a tirarlo senza problemi».

 

A riprova del fatto che anche lui è umano, comunque, riguardatevi il rigore della finale del Mondiale 2006. Pirlo è il primo tiratore in assoluto. Guardatelo che si sistema il pallone e prende la rincorsa, mentre Barthez fa il fastidioso con Elizondo. Prova a fare la faccia alla Pirlo, ma i lineamenti anziché fermi sono pietrificati e si vede benissimo che prima di calciare fa uno sbuffetto di tensione. Infatti poi

, che notoriamente è il rigore più sicuro, quello che si batte quando non si ha nessuna voglia di scherzare, altro che cucchiaio. Bene cosi comunque, per carità.

 



Quella famosissima del Mondiale 2006 non è la prima esultanza scomposta di Pirlo. Una simile perdita di aplomb la potete trovare nei filmati della finale dell’Europeo 2000 Under-21, risolta da Pirlo a dieci minuti dalla fine. Quell’Europeo è la sua prima vittoria, la prima delle tante volte in cui lui è il protagonista, il campione decisivo. Non a caso succede grazie a una punizione, calciata a giro sopra la barriera.

 

Quasi quindici anni dopo, nel derby col Torino di qualche mese fa, Pirlo segnerà il suo ventottesimo gol su punizione in Serie A, raggiungendo Mihajlovic in cima alla classifica di tutti i tempi.

 


L’ultima punizione in Serie A l’ha segnata alla vecchia maniera, quasi a solleticare la nostra nostalgia.


 

Come già detto, nella prima metà della sua carriera Pirlo è un perfetto interprete della classica punizione calciata di interno a superare la barriera, a effetto. È la tecnica dei grandi numeri 10, dei Platini, degli Zico, dei Baggio e dei Del Piero.

 

Nella seconda metà degli anni Duemila, quando già è campione del mondo e un fuoriclasse acclarato, Pirlo rimane affascinato da un altro modo di calciare, quello del fantasista del Lione Juninho Pernambucano. Juninho colpisce la palla con il piede dritto, da sotto, ottenendo parabole imprevedibili che si alzano e poi all’ultimo si abbassano e cambiano direzione, disorientando il portiere.

 

In

Pirlo racconta i suoi tentativi di imitazione in toni macchiettistici: i palloni persi in allenamento, il magazziniere del Milan arrabbiato (me lo immagino, il magazziniere a duemila euro al mese a rimproverare un miliardario che potrebbe farlo licenziare perché ha un incarnato che non si intona alla carrozzeria della sua Bentley), l’epifania finale sul cesso (qui siamo dalle parti dei fratelli Vanzina). Comunque alla fine ce la fa, e il risultato è sotto gli occhi di tutti: già avanti nella carriera, Pirlo aggiunge al suo repertorio una cosa bellissima e del tutto nuova, che diventa il suo marchio di fabbrica.

 

Non sto qui a fare l’elenco dei gol incredibili segnati in questo modo con le maglie del Milan e della Juve, anche perché la più bella di tutte secondo me è una che non finisce neanche in rete, ma sulla traversa:

ai Mondiali brasiliani. La palla è diretta sul primo palo, poi all’altezza della barriera curva di colpo e scende verso il secondo. Hart barcolla e per poco non si inciampa, e anche se non è gol rimane talmente scioccato che per recuperare il pallone

un incolpevole raccattapalle. Probabilmente era ancora scosso dal cucchiaio subito agli Europei di due anni prima.

 

Capite perché Pirlo è il mio giocatore preferito? Si prende anche la briga di castigare gli antipatici, come un supereroe.

 



Se non vogliamo farlo per Pirlo, facciamolo per Verratti. Piantiamola con questo paragone assurdo e rassegniamoci al fatto che il “nuovo Pirlo” non c’è e molto probabilmente non ci sarà mai. Magari Verratti diventerà altrettanto forte, ma in un altro modo, perché la carriera e la traiettoria di Pirlo sono talmente particolari e irripetibili che il paragone non può che essere nocivo. Se dopo

qualche squilibrato non gli avesse attaccato l’etichetta di “nuovo David Lynch” magari oggi Richard Kelly non sarebbe ridotto a cercare i fondi per finire un horror con Eli Roth.

 

Pare che finora Pirlo a Manhattan sia più o meno in vacanza. In MLS ha l’aria di un giocatore sazio e invecchiato che ormai passeggia per il campo. Appena arrivato ha perso un derby e ha subito lo sfottò dei tifosi dei Red Bulls, che in uno striscione hanno rappresentato lui e Lampard come vecchietti in una casa di riposo. Qualche giorno fa la sua squadra ha perso una partita decisiva per i playoff perché Pirlo si è perso la marcatura su un corner.

 

Per quanto mi riguarda spero solo che si mantenga in forma quel poco che basta per reggersi in piedi fino agli Europei della prossima estate, tanto sono anni che gioca da fermo. Non mi sorprenderebbe se, a prescindere dalla bontà dell’annata a New York, riuscisse a presentarsi tirato a lucido all’ultimo appuntamento importante della sua carriera. Io me lo vedo, a 37 anni, sollevare la coppa e ripetere per l’ultima volta: «Ho sempre saputo di essere più bravo degli altri».

 

 

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