
Pubblichiamo un estratto di "Il destino di un bomber", il nuovo libro edito da 66thand2nd in cui Andrea Carnevale ha raccontato la sua storia attraverso le parole di Giuseppe Sansonna. Se volete acquistare il libro, potete farlo cliccando qui.
«Bisogna avere orecchio. E anche colpo d’occhio, per vedere Maradona. Bisogna esserne degni» pensa Andrea intorno alla mezz’ora di gioco, trotterellando davanti all’area di rigore fiorentina. Teso a percepire micromovimenti, impulsi quasi subliminali, dell’amico che ha appena preso palla a centrocampo, dalla Tota Romano. Senza aver bisogno di guardarlo, Diego sente che Andrea si sta già accentrando, liberandosi del peso di Pin, sbilanciato dalla sua fisicità irruente.
È proprio in quell’istante che scocca il suo passaggio in verticale, gli occhi furbi puntati altrove. La palla arriva sul piede di Andrea, viene stoppata e allargata a sinistra per Bruno Giordano. Virtuoso quanto essenziale, Brunetto rimette al centro area di tacco. Andrea è lì, pronto a chiudere il triangolo con un tocco d’esterno leggero, senza brutalità, in sintonia con la classe sopraffina degli altri due. La palla sfiora il fianco di Landucci e muore in fondo alla rete, facendo brillare Napoli, di botto. Una liberazione. Diego prende Andrea alle spalle e gli bacia la fronte, gridandogli qualcosa di meraviglioso e indecifrabile, perso nell’esplosione di Fuorigrotta.
«Carnevale!» sbotta adenoideo Enrico Ameri da milioni di radioline, collegandosi per Tutto il calcio minuto per minuto. «Carnevale!» digrigna forte, tra sé e sé, Andrea, avvolto dal boato dei centomila. «Nome da protagonista, non da panchinaro». Poi aggiunge, sempre con la voce di dentro: «Hai visto, dannato Ottavio, che tridente? Maradona fa Maradona, Giordano rifinisce, io la butto dentro! Siamo già Ma.Gi.Ca. e la Ca sono io! Cosa lo comprate a fare Careca?».
Già, perché come se non bastasse il Napoli ha acquistato pure il bomber brasiliano, da un altro San Paolo, al di là dell’oceano. Uno che guadagnerà un miliardo a campionato. Altro che Caffarelli, la concorrenza della prossima stagione si prospetta ancora più sanguinosa.
C’è sempre da soffrire. Ad appesantire di ricorrenze la giornata storica, arriva dieci minuti dopo il primo gol in Serie A di Roberto Baggio: una punizione velenosa beffa Garella, che subisce imprecando. Bagni reagisce da par suo: prima rifila un pugno nel fegato ad Antognoni, poi abbatte Gelsi a gioco fermo, e attenta alla tibia di Díaz, ma va a vuoto. Gli ha fatto più male Bruscolotti, all’attaccante argentino con un passato nel Napoli, con parole sussurrate a palla lontana: «Ma che veramente vorresti segnare oggi, Ramón? Ma ti sei guardato intorno? Scemo ti ho lasciato, e più scemo ti ritrovo».
Antognoni cerca un’ultima zampata, ma stavolta Garellik è bravo a respingere, e Onorati spara alto sulla sua ribattuta. Arriva l’intervallo, a dilatare lo spasmo. Andrea è tra i primi a riaffiorare dal tunnel per la ripresa, la faccia tirata di determinazione.
«Carnevale! Ehi, Carnevale! Niente, Andrea non si volta: è un serio campione». La voce calda e melodiosa che lo chiama invano appartiene a un omone occhialuto e pacioso, enciclopedico senza prosopopea, mattatore di quel felice ibrido di calcio e avanspettacolo che era il 90° Minuto condotto da Paolo Valenti.
Si chiama Luigi Necco, e ha una vita iperbolica e stratificata, come Napoli. È quello che ha scoperto che il tesoro troiano di Priamo stava a Mosca, trafugato dall’Armata Rossa e custodito segretamente nei sotterranei del museo Puškin. Ma è anche lo stesso che ha documentato, a schiena dritta, le smancerie tra Antonio Sibilia e Don Raffaele Cutolo. Raccontare con troppa insistenza l’omaggio del patron dell’Avellino al boss camorrista, descrivere come Juary, nuova stella irpina, venisse indotto a baciare le guance cutoliane dietro le sbarre processuali gli costò caro. Tre proiettili nelle gambe, e una leggera zoppia a vita. «Poteva andare peggio» ne riderà spesso, Necco, capace anche di coniare a caldo, in Messico, la definizione «mano de Dios», per l’irregolarità più celebrata della storia del calcio.
Oggi si rivolge ancora a Diego, allusivo: «Ci siamo riusciti?». E lui, dopo essersi fatto il segno della croce: «Speriamo, speriamo». Necco lo guarda e lo accarezza di parole, quasi come un padre: «S’è fatto il segno della croce. Diego non dimentica mai qual è la sua qualità di uomo, anche se questa qualità viene discussa, ogni tanto. Un uomo non è perfetto. Diego è un uomo, ed è anche giovane».
La partita, appena ricominciata, è già finita. Si assesta quasi subito su di un’inerzia non belligerante.
Anche perché a Bergamo, nel frattempo, l’Inter mette in scena il suo harakiri, con un autogol di Passarella, dopo un malinteso con Zenga. A un minuto dalla fine Andrea ottiene da Bianchi anche la passerella finale, sostituito da Caffarelli, il rivale battuto.
Alle 17 e 48 del 10 maggio, Pairetto fischia la fine, schiudendo a Napoli le porte del Paradiso. Un Andrea estatico, grato anche a lui, lo abbraccia subito forte. Maradona viene immediatamente braccato a centrocampo da giornalisti e fotografi. È senza fiato, come una partoriente a fine travaglio, o forse come un medium, posseduto dalle anime di tutti i napoletani, di ogni tempo e latitudine. Si lascia tenere in piedi dai fratelli: Raúl detto Lalo, e Hugo, attaccante dell’Argentinos Juniors, diciottenne. Un altro, potenziale ma poco temibile, rivale di Andrea: Diego ne ha imposto l’acquisto al Napoli, ma il ragazzo verrà girato subito all’Ascoli, senza entusiasmare nessuno.
L’elefantiaco Galeazzi si china trafelato sui suoi centosessantacinque centimetri, ruggendo domande a cui Diego risponde a tono, secondo il copione dell’epica.
«Ho vinto tutto soffrendo, e questo non è stato diverso. Il Mondiale è stato grande, ma l’ho vinto lontano da casa. Questo l’ho vinto a casa mia. Napoli è mia casa». Italo Allodi, assente dal San Paolo per i postumi di un ictus, nei collegamenti tv dall’amenità campestre di una clinica toscana appare in sedia a rotelle, esibendo una malinconica soddisfazione da artefice.
Il suo vice molto operativo Pierpaolo Marino parla da filosofo meridionalista quale in fondo è, celebrando il primo scudetto vinto «oltre la linea gotica, in un ribaltamento di certi valori del passato».
Bianchi si sbrina appena: con un sorriso moderato elogia i meriti dei suoi ragazzi. Associa il titolo a un «fatto sociale», conquistato con la religione del lavoro.
In sintonia con lui, il più loquace Sandro Ciotti, altra voce poetica prestata al calcio, definisce lo scudetto napoletano come il più popolare e romantico mai conquistato. Vede in Napoli non un luogo fisico ma una condizione dello spirito, il lato pieno di spirito irridente, stoicismo, tenacia e creatività, presente in ogni essere umano, oggi premiato dal titolo nazionale.
«Lo chiameremo Andrea, questo scudetto».
Ferlaino, portato in trionfo sul prato, omaggia in un colpo solo il suo bomber imbronciato e Vittorio De Sica, immenso cantore di Napoli, offrendo un titolo ai microfoni che lo assediano. È anche un modo per scacciare la paura di ritrovarsi Carnevale nei panni dell’ex assetato di vendetta, nel prossimo campionato.
Con il ciuffo rado e vezzoso intriso di sudore, e l’aria sfatta di chi è sopraffatto da una gioia attesa quasi vent’anni, il patron del Napoli guarda allucinato la compostezza dei tifosi azzurri. Hanno evitato, come avevano promesso, l’ovvietà pacchiana di un’invasione di campo: «Sono rimasti tutti al proprio posto, meravigliosamente. Sembrano tanti Lord Brummel».
Meno simili a dandy inglesi, invece, appaiono i trafelati Carnevale e compagni, mentre trascinano sul prato del San Paolo un tricolore immenso, attorniati da raccattapalle e fotografi.
Lazzari felici: i giocatori del Napoli ricordano piuttosto i picareschi protagonisti di una canzone di Pino Daniele, canto d’amore dedicato a popolani di epoche sovrapposte, sempre estrosi e un po’ scellerati. La ciurma gaglioffa di una tortuga sottoproletaria, pronta a godersi il bottino tanto atteso con gioia barbarica. Testimoniata impavidamente dal solito Giampiero Galeazzi: avventuratosi nello spogliatoio partenopeo, diventa subito ostaggio della guaglionera azzurra, di quel gruppo di ragazzacci in piena gazzarra dionisiaca. Prima irrorano il Bisteccone di acqua e champagne, in tutta la sua vastità. Poi il suo microfono, a seguito di uno scippo molto consenziente, finisce in mano a Diego, intervistatore improvvisato di molti suoi compagni.
Pesa come un macigno la palese assenza di Bianchi, già scomparso nella quiete claustrale di un rifugio segreto.
Ai margini di quel delirio di sudore, alcol, gavettoni incrociati, balli di gruppo, di quella sfilata di mutande, ciabatte e canottiere, accessori inimmaginabili sui corpi da tronisti dei calciatori attuali, al di là delle frasi sconnesse, segno di un’estasi non verbalizzabile, oltre i vapori delle docce, in un angolo asciutto e quieto dello spogliatoio, c’è un ragazzo distaccato, assorto a specchiarsi nella sua compostezza.
Cravatta Marinella ben annodata su elegante completo Armani grigio chiaro, sta finendo di asciugarsi accuratamente la folta chioma nera col phon.
È Andrea Carnevale.
A un paio di metri da lui Salvatore Biazzo, baffuto cronista di lungo corso, ha spianato il suo microfono e prova a estrarre frasi di senso compiuto da un Renica ancora in calzoncini e maglietta della salute, seduto su di una panca. Occhi fuori dalle orbite, salivazione azzerata, il libero veronese emette versi preverbali, ma di intuibile felicità. Poi, come posseduto, si alza all’improvviso e comincia a scuotere la testa di Andrea, suo abituale compagno di stanza in ogni ritiro, gridando: «Questo signore è quello che ci ha trascinato alla fine! È lui il grande eroe delle ultime partite!!!». Andrea si schermisce, mormora a mezza bocca un «non è vero», con una punta di educata scontrosità. Poi si svincola dolcemente dalla stretta di Renica e dalla frenesia interrogativa di Biazzo, e guadagna il corridoio, cerca l’ultimo contropiede del suo giorno più lungo.
Rimane però intrappolato in un plotone di giornalisti. Lo affronta indossando un sorriso appagato, da man of the match.
«Hai fatto un gol bellissimo. L’ultimo col Napoli?». La prima domanda impone una pausa drammatica: «Questo non lo so», seguita da una battuta a effetto, tra Rossella O’Hara e Ornella Vanoni: «Da domani si vedrà il mio destino», pronunciata con occhi sognanti verso un punto indistinto, oltre i microfoni protesi e le facce sudate.
«Sei stato protagonista di un finale di campionato straordinario» incalza un altro cronista, offrendo un assist per una rivendicazione sorridente: «C’è stato il bello e il brutto, quest’anno. Però voglio concentrarmi sui lati positivi. Essendo orgoglioso e testardo di carattere, ci tenevo a strappare la riconferma a suon di gol, a essere l’uomo decisivo di questo Napoli. Mi è andata bene, per fortuna, visto che nell’arco del campionato ho avuto un po’ di malasorte. A un certo punto Bianchi ha deciso che io e Giordano non potevamo più giocare insieme, e ha inserito Caffarelli. Poi, notata la mia buona condizione fisica, mi ha fatto rientrare in campo. Mi piacerebbe restare in questa squadra, ma mi sa che sarò l’unico dei vincitori a cambiare casacca. Certo, sarebbe doloroso rinunciare alla Coppa dei Campioni, ma nulla è ancora deciso. Voglio le mie garanzie. In panchina non andrò mai più».
Parole ferme, pronunciate senza nessuna paura del futuro. A chi gli chiede se è preoccupato dell’arrivo di Careca, replica che i dirigenti del Napoli possono conoscere davvero solo il valore di chi c’è, non di chi deve ancora arrivare.
Dedica lo scudetto ai tifosi, del Napoli e suoi devoti personali, i compaesani di Monte San Biagio. Poi si maschera dietro un cappellino di cotone, infila i Ray-Ban e prova a lasciare Napoli al volante della sua Volvo.
Il bagno di folla, per uno schivo come lui, è già sufficiente. Teme di essere sotterrato, travolto dallo sciame ultrasonoro dei motorini, dalle 127 decappottate ferme in folle nell’ingorgo, stipate di esagitati. Dalle pentole suonate come tamburi, da vecchi e bambini, dagli angeli azzurri di cartapesta, che rasentano i terzi piani, nei Quartieri Spagnoli e non solo, dai fuochi d’artificio del più estremo dei capodanni, dai carri allegorici sovraccarichi di decine di Pulcinella. Tutti sgolati in peana ossessivi, come la versione pirata del Garibaldi innamorato di Sergio Caputo, trasformata da Mixed by Erry, mitologico clan di contraffattori, in Maradona innamorato.
Il Carnevale in incognito, con un sospiro di sollievo, vede questo coloratissimo sabba andare in dissolvenza, nel suo specchietto retrovisore, mentre imbocca la strada per Roma. Ripetendo a sé stesso, nel silenzio dell’abitacolo, che di questa città preferisce il versante in ombra, certe quieti notturne e le note struggenti delle melodie classiche, o del rivoluzionario Pino Daniele. Quelle che canta a sé stesso, in solitudine: tra i sogni adolescenziali c’era anche quello di fare il cantante, gli hanno sempre detto che ha una bella voce.