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Valentino Tola
Analisi Mondiali: Olanda - Messico
30 giu 2014
30 giu 2014
Per quasi tutto il match il Messico ha controllato meglio il campo, ma quando è subentrata l’emozione ha vinto chi aveva dalla sua uno dei migliori giocatori degli ultimi vent'anni: Robben.
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Valentino Tola
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Il Mondiale è la competizione dei grandi giocatori, prima ancora che delle grandi squadre.
Alla vigilia, van Gaal aveva affermato che Cile e Messico si somigliano, ma che il Messico è migliore: sulla prima parte della frase si può dubitare (simili come modulo, molto diverse come ritmo), sulla seconda decisamente no, e anzi, finché la partita scorreva sui binari “normali” di una sfida fra due collettivi, a chi controllava meglio il campo, il Messico era parso migliore pure dell’Olanda. Quando però è subentrata la tensione, l’emozione, l’ansia del Messico di arrivare finalmente (Mondiale ’86 a parte) a questa benedetta quinta partita, e tutte le cose che rendono speciale il dentro o fuori di questa competizione, ha vinto chi oltre alla forza mentale dalla sua aveva pure Robben.

 

La sfida si annunciava come una serie di duelli anche perché le squadre si dispongono in campo in maniera speculare: a parità di difensori, 5, infatti il disegno del centrocampo olandese fa finire il trequartista Sneijder esattamente dalle parti di Salcido, unico cambio messicano rispetto alla formazione consueta (sostituisce il “Gallito” Vázquez davanti alla difesa).
Al di là dei numeri però la differenza reale fra i due sistemi di gioco è tanta, e la tendenza dell’Olanda a cedere il possesso-palla, quella del Messico a prenderselo (anche se con un po’ di discontinuità) e le ormai mitiche marcature a uomo di Nereo van Gaal rimescolano parecchio le carte.
Mentre l’avversario ha il pallone, Nereo lascia come al solito i suoi due fuoriclasse davanti a guardarsi l’ombelico in attesa del pallone giusto per ripartire in contropiede, e il resto a uomo. Combinate questo con i peculiari movimenti offensivi messicani, e al di là del pregiudizio consolidato di chi scrive contro la difesa a uomo avrete la superiorità messicana nel primo tempo.

 

Il Messico infatti attacca mandando molto avanti, più del consueto (come spiega anche

), le mezzeali del suo centrocampo a tre, Herrera sul centro-destra e Guardado sul centro-sinistra, puntando sugli inserimenti e gli uno-due di questi con gli attaccanti (Peralta la boa e Giovani dos Santos la seconda punta che svaria). La differenza con la partita col Cile è che stavolta il fatto che l’Olanda lasci campo libero ai difensori messicani in impostazione non è privo di conseguenze: “difensore messicano” è da un po’ di tempo una categoria che quasi trascende i singoli interpreti nel garantire testa alta, lucidità e tocco preciso nell’impostare. Una scuola consolidata e riconoscibile anche nel calcio imbastardito di oggi in cui puoi vedere culturisti con ferri da stiro al posto dei piedi vestire curiose maglie verdeoro.
Salcido non è Marcelo Díaz, e Sneijder in marcatura su di lui non preoccupa minimamente Rodríguez, Márquez e Moreno a inizio manovra. Da loro arriva la linea di passaggio sicura che innesca gli incroci fra mezzeali e attaccanti messicani. Movimenti con ottimi sincronismi, che anche se non generano un numero eccessivo di occasioni (due abbastanza buone per Hector Herrera e Giovani dos Santos, principali agitatori offensivi del Messico), mettono in difficoltà i marcatori olandesi (con l’infortunio di de Jong, sostituito da Martins Indi, mentre Blind passa a fare il mediano), e condizionano la transizione offensiva olandese una volta recuperata la palla. Infatti, marcando l’Olanda a uomo, i continui movimenti di Herrera e Guardado a dettare la profondità trascinano molto dietro anche i mediani olandesi (Blind e Wijnaldum), “disordinano” il 5-3-2 olandese e per rilanciare rimane solo Sneijder molto lontano dalla zona della palla, vigilato da Salcido. Il Messico con tanti giocatori in zona ha invece una maggior facilità nel pressare e recuperare sulla respinta.


Nel Messico il peso dell’impostazione ricade tutto sui difensori, che se lo accollano volentieri (in questo caso “Maza” Rodríguez). Le mezzeali attaccano la profondità a turno, e portano fuori posizione i mediani olandesi (qui Wijnaldum). Il Messico ha un vantaggio sulle respinte della difesa olandese.


 

Nella seconda metà del primo tempo l’Olanda riequilibra un po’ la gara riorganizzandosi col pallone. Se Sneijder resta ben controllato da Salcido nell’immediato contropiede, quando l’Olanda può iniziare la manovra dalle retrovie l’ex interista pian piano si ritaglia una posizione da cui far respirare la sua squadra. Sul centro-sinistra individua uno spazio intermedio in cui non sempre Aguilar, terzino destro messicano, fa in tempo ad accorciare verso la mezzala Herrera e raddoppiare (la logica della coperta corta che caratterizza ogni modulo tende talvolta a lasciare scoperto questo spazio sui due lati del Messico). Quello di Sneijder è però un movimento che se fa soffrire meno l’Olanda non dà reale superiorità, perché Kuijt (terzino sinistro) e Martins Indi (centrale sinistro) per caratteristiche non possono dare la profondità necessaria a distrarre le marcature avversarie e perché anche il movimento dei due attaccanti è insufficiente e non crea lo spazio a Sneijder per ricevere non solo

ma anche

dei mediani messicani. Robben e van Persie tagliano poco sia verso le fasce che in profondità, e spesso ricevono troppo accentrati e spalle alla porta contro gli ottimi difensori messicani.


L’iniziativa tattica di Sneijder alleggerisce la pressione sull’Olanda, ma i compagni non aiutano a creare profondità.


 

Che gli attaccanti messicani, pur con meno qualità, si muovano meglio lo conferma il vantaggio messicano a inizio ripresa: va bene la respinta del difensore olandese un po’ sfortunata, ma Giovani dos Santos, oltre a scaricare un gran bel sinistro, è proprio lì dove deve stare, a raccogliere la respinta dopo che Oribe Peralta ha fatto il suo solito sporco lavoro sui centrali avversari.
Urge una risposta, e a questo punto Nereo ridiventa Aloysius Paulus Maria van Gaal: dentro Depay, ala sinistra, per il modesto terzino destro Verhaegh (in discreto imbarazzo ogni volta che Layún lo puntava), Kuijt terzino destro, due ali pure e 4-3-3 che più olandese non si può.
Ora, non siamo precisamente ai livelli di sofisticazione di Litmanen “centravanti-ombra” e Davids e Seedorf che scalano come orologi, e Martins Indi finché non scrive anche lui un libro come

 può dirsi ben lontano da Winston Bogarde, però il tutto ha una sua semplicità insultante che convince.
Il nuovo sistema di gioco si chiama “palla a Robben”: non si tratta nemmeno di creargli spazio, ma semplicemente di fargli arrivare la sfera che poi ci pensa lui. Alle prese con un compito intellettualmente meno esigente dei movimenti da punta vera e propria del primo tempo, Robben intimidisce un Messico che si è visto drasticamente abbassare il baricentro dalla logica elementare dei cambi di van Gaal (le ali sulle due fasce spingono dietro il quinto di difesa messicano su entrambi i lati, e se Guardado e Herrera scalano sui terzini olandesi allora si crea spazio automaticamente in mezzo per Sneijder e Wijnaldum, e viceversa), a cui un po’ sorprendentemente non trova risposta.


L’Olanda dopo il passaggio al 4-3-3. Il Messico nonostante tutto rimane a 5 dietro... troppo dietro. Guardado è andato a disturbare il terzino destro olandese (Kuijt, fuori quadro), ma viene preso in mezzo, Wijnaldum ha spazio, e così è più facile anche fare arrivare palla a Robben. Perché non Márquez a tappare il buco a centrocampo?


 

Seduti qui con l’aria condizionata e senza il caldo di Curitiba ci chiediamo perché Miguel Herrera (una delle rivelazioni del Mondiale, come tecnico e come showman) non abbia stabilmente avanzato Márquez a centrocampo, sia per l’elementare logica tattica di cui sopra (tre difensori centrali messicani sono troppi per una sola punta centrale, anche se si chiama van Persie, e avanzando Rafa puoi pareggiare quello squilibrio che divide le attenzioni di Guardado e Herrera fra terzini e mezzeali olandesi) sia per un fatto tecnico: i minuti migliori di questo Messico si sono visti nel secondo tempo contro la Croazia, proprio con Márquez stabilmente davanti alla difesa, perché il Kaiser alla fine si è dimostrato l’elemento più in grado di dettare i tempi ai terzini per salire e legare i reparti di una squadra di fatto senza regista.
Herrera ha fatto giustamente sensazione con la sua qualità e dinamismo, ma per caratteristiche è un incursore che tende a scappare avanti; lo stesso Guardado, pur confermandosi un elemento più portato al palleggio nel mezzo che alla percussione lungo la linea laterale, per tenere su la palla ha bisogno che qualcuno prima gliela faccia arrivare, e questo qualcuno non è né Salcido adattato né peraltro era il pur tecnico “Gallito” Vázquez.

 

Così il Messico, nonostante l’ingresso del velocissimo Aquino, teoricamente aiuto per Aguilar sulla destra e minaccia alle spalle di Martins Indi, e anche di Chicharito Hernández (vero che Peralta era spompato, ma il giocatore dello United per caratteristiche non tiene su molto la palla), rimane inchiodato nella sua trequarti, e per quanto il merito olandese sia fuori discussione, l’ultima azione offre un altro di quei momenti storici, di gloria e crudeltà mischiate insieme nel loro grado estremo, che rendono questa manifestazione unica: ci congratuliamo per la consacrazione di Robben fra (piaccia o no) i migliori giocatori in assoluto degli ultimi 20 anni, ma doveva essere proprio Márquez, all’ultima partita Mondiale della sua carriera dopo quattro consecutivi da capitano, a commettere il fallo forse evitabile che condanna il Messico a rimuginare altri quattro anni sulla maledizione della quinta partita?

 

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