Fosse una normale partita di club della stagione regolare, magari alzeremmo sopracciglia e ditino, ma come partita dei Mondiali Brasile-Colombia è stata una bella partita: lontanissime da qualsivoglia perfezione (ammesso che esista), le squadre hanno offerto i giocatori, le giocate, l’emozione e la personalità all’altezza dell’evento.
Il Brasile si conferma competitivo, in maniera anomala ma oggettivamente competitivo (l’assenza di Thiago Silva per la semifinale e Neymar per il resto del Mondiale però è un colpo tremendo), e per quanto soggettivamente non faccia innamorare (anzi, a tratti subentra l’orrore). Meglio di una Colombia che è stata forse troppo celebrata come collettivo dopo il trionfo sull’Uruguay, quando invece il suo Mondiale, comunque molto positivo, è stato caratterizzato da azioni e da momenti di gioco brillanti più che da un solido dominio di ogni partita.
In una partita in cui la tattica ha contato relativamente, catturare con i fermo-immagine le chiavi della gara è speranza vana, ma ancora di più guardare la partita, stoppare e prendere nota non rende praticamente niente dell’idea di gioco di questo Brasile. Non rende il flusso, anzi il torrente con cui il Brasile nei migliori momenti può travolgere l’avversario.
Un’idea di gioco diretto, palla subito nella trequarti avversaria e pressione animalesca per recuperare palla. Pressione, non pressing, perché lo sforzo difensivo del Brasile nella metà campo avversaria ha poco che coinvolga in ogni fase tutti e undici i giocatori in uno sforzo coordinato. Si tratta spesso di un paio di giocatori alla volta che partono selvaggiamente all’inseguimento degli avversari, li spingono dietro, chiamano avanti i propri compagni e gasano il pubblico.
Rubata palla, si conta di prendere gli avversari fuori posizione per sorprenderli con folate che coinvolgono anche parecchi giocatori: Fred, Neymar, Oscar, Hulk ma anche Paulinho che scala avanti e attacca l’area di rigore lasciando il solo Fernandinho (sostituto dello squalificato Luiz Gustavo) in mediana. Se l’azione non viene finalizzata, il Brasile fa in prevalenza affidamento su un grande spirito di sacrificio e su doti atletiche fuori dal comune (decisamente superiori alla media delle altre candidate alla vittoria finale, ancora di più ora che la Francia di Matuidi, Sissoko e Pogba è stata eliminata) nel coprire distanze che sono certo maggiori di quelle che suggerirebbe l’ortodossia tattica. In questo contesto, in cui più che la capacità di leggere di volta in volta la posizione corretta è richiesta determinazione ed esplosività nell’anticipo, nel recupero e nelle coperture laterali, allora David Luiz si afferma come il miglior difensore del Mondiale, impressionante non solo per il gol del 2-0.
Un esempio dell’idea di gioco brasiliana, tutta aggressività e atletismo. Paulinho è andato in area di rigore e ha perso palla (è fuori quadro), il Brasile non è certo disposto alla perfezione tatticamente, ma chi può aiuta sempre e ha “gamba” per coprire i metri necessari. Maicon e Oscar tornano rapidamente, Fernandinho scala lateralmente. Finché il Brasile ha birra funziona…
Ma va anche detto che nel primo tempo dominato il Brasile ha fatto qualcosina pure con la palla fra i piedi. Laddove nelle scorse partite aveva faticato a trovare continuità di manovra, in questo caso può aver aiutato anche la confusione del centrocampo colombiano. Fermo restando che la prima differenza fra le due squadre è di approccio e aggressività nell’arrivare prima sul pallone, la Colombia ha giocato con un centrocampo sparpagliato che ha aperto ogni tipo di spiraglio ai passaggi verso attaccanti e trequartisti brasiliani. Partita con un teorico 4-1-3-1-1 (Guarín preferito ad Aguilar parte più avanti di Carlos “La Roca” Sánchez fisso davanti alla difesa), la Colombia in realtà lascia una distanza enorme fra Guarín e Sánchez e fra questi due e un Cuadrado totalmente disinteressato al ripiegamento: non si sa per ordine di Pekerman che lo vuole totalmente concentrato sul contropiede, fatto sta che il fiorentino lascia tutto il campo a Marcelo, che da lì può passarla a Hulk, o anche Neymar che si smarca in spazi troppo grandi da gestire per il disorganizzato centrocampo colombiano.
Il centrocampo sparpagliato della Colombia. Notare le distanze fra i due centrocampisti centrali e fra questi due e Cuadrado.
Come in fase difensiva, anche qui la differenza la fa la maggiore disponibilità al sacrificio dei brasiliani: Hulk, Neymar e Oscar aiutano sempre dando ai centrocampisti l’appoggio che serve per garantire la superiorità a centrocampo. Mentre nella Colombia del primo tempo ognuno sembra andare un po’ per conto suo: chi segue la squadra cafetera sin dalle qualificazioni aveva già notato un cambio nel passaggio dal non convocato Macnelly Torres (centrocampista offensivo che consolidava il possesso-palla) a Cuadrado (dribblatore sempre proiettato in avanti), e l’aggiunta di Guarín con tutti i suoi limiti (giocatore di grandi qualità atletiche e buone doti tecniche che però nel cuore del centrocampo difetta sia di posizionamento che di visione e tempi di gioco) e di un altro cavallo da contropiede come l’inutile Ibarbo dell’altra sera (non all’altezza del palcoscenico?) non hanno certo contribuito a dare alla Colombia la minima continuità nel fraseggio, pressione del Brasile a parte.
Riconosciuto il buon primo tempo di questo Brasile, il suo aspetto negativo, anzi diremmo scandaloso vista la tradizione che lo precede, è che però tutto questo funziona solo finché l’energia è massima e l’intensità esasperata. Su ritmi appena più bassi, questa squadra non sa giocare a calcio. Non può controllare più il gioco, né col pallone né col posizionamento difensivo.
Lo ribadisce un secondo tempo nel quale il calo fisiologico induce i padroni di casa a ripiegare nella propria metà campo. Pekerman cambia, passa alle due punte, prima l’innocuo Adrián Ramos per Ibarbo, poi il mobilissimo e molto più convincente Bacca (perché non prima? Perché così poco in tutto il Mondiale?) per Teo Gutiérrez, e il Brasile si sfalda a centrocampo.
Schierato in maniera praticamente uguale alla Colombia (un trequartista e poi un centrocampo distribuito su due linee con Paulinho come Guarín e Fernandinho come Sánchez), il Brasile del secondo tempo somiglia alla Colombia del primo per la distanza eccessiva fra i due centrocampisti centrali. Fernandinho spesso troppo indietro, come un terzo stopper, Paulinho troppo avanti, e nello spazio fra questi si insinua e prende per mano la propria squadra, fino a sfiorare la rimonta, un giocatore speciale: James Rodríguez.
Nel secondo tempo il Brasile ripiega, non pressa più e cede a centrocampo. Nello spazio fra Paulinho e Fernandinho è sin troppo facile pescare James.
Il linguaggio del corpo di James è quello del giocatore di classe vecchio stampo, o meglio, del giocatore di classe di sempre, non adulterato da palloni velocissimi che cambiano direzione mille volte e diavolerie varie. Guardate come calcia le punizioni dalla trequarti destra, sempre perfette: non si limita a contare sul fatto che la traiettoria sia sufficientemente tesa e veloce in una zona nella quale crea sempre problemi (lo spazio fra il portiere avversario indeciso se uscire e i suoi difensori), ma il suo sinistro accompagna la palla che plana esattamente verso il destino immaginato.
O guardate anche il rigore contro il Brasile: non si limita a scegliere un angolo e poi contare sul fatto che il tiro sia sufficientemente forte da non dare il tempo al portiere per arrivarci. No, James sceglie un angolo e lì la piazza: a un giocatore di classe vecchio stampo bastano finta di corpo e tocco per ottenere il risultato desiderato.
Quanti giocatori oggi non si limitano a colpire, ma piazzano e fanno planare la palla? James è la speranza che in futuro, chissà, magari potremo tornare a vedere gol tipo la punizione a due di Maradona da dentro l’area contro la Juventus nell’86, o come quelli di Le Tissier che segna da 30 metri non bucando la rete o piegando le mani al portiere ma prendendo la mira, e che forse non saremo costretti a stupirci solo davanti a mostruosità geneticamente modificate come questo gol di Cristiano Ronaldo.
E James ha anche l’onere e l’onore di salvare il calcio sudamericano nella sua essenza, dall’europeizzazione talvolta malriuscita, dalla modernizzazione tanto sbandierata quanto spesso malintesa e confusa con la semplice mediocrità.
Il Brasile ha vinto, lo ha fatto con pieno merito e ne abbiamo visto freddamente il perché, ma cosa rimane della sua cultura calcistica quando nella mezz’ora finale anche giocolieri come Marcelo appena entrano in possesso del pallone lo spazzano rabbiosamente a casaccio e il pubblico va in visibilio come per un tunnel? Tralasciando poi la penosa retorica del risultato a tutti i costi (anche Neymar ha detto che lui non è lì per divertire nessuno, e magari si è anche sentito figo), e le patetiche celebrazioni a fine partita con preghiere e sguardi lacrimanti rivolti al cielo, cosa rimarrà di tutto ciò alla fine del Mondiale, al di là di una statuetta di metallo dorato in più nella bacheca?
Non che la Colombia sia più quella classica del toque-toque di Maturana, e non potrebbe essere altrimenti con umili mestieranti al posto di Valderrama in mediana (lo stesso “Pibe” pur apprezzando questa Colombia, ne nota la differenza), ma James torna a nobilitare il fútbol come Dinámica de lo impensado, citando il libro del giornalista argentino Dante Panzeri, che nel 1967 (nell’epoca del violentissimo Estudiantes) discuteva la stessa validità del concetto di “modernizzazione” del calcio: esiste il gioco buono e quello cattivo, non il gioco “nuovo” e quello “vecchio”.
Come gioco, come attività in cui il pensiero dell’uomo tende a cambiare costantemente e le interazioni fra 22 esseri umani generano un esito sempre diverso, anche amando l’analisi tattica una partita e un giocatore non potranno mai essere completamente racchiusi dentro schemi fissi.
Non sappiamo in che posizione giocasse James l’altro giorno, ma sappiamo che giocava meglio di tutti gli altri. Non sappiamo se fosse falso esterno, regista, mezzala, seconda punta o altro, ma sappiamo che si andava a prendere il pallone dove riteneva opportuno, e una volta in suo possesso il gioco scorreva e acquisiva un senso.
È il fascino di un ruolo classico del calcio sudamericano ma sempre più raro da riscontrare: quello dell’enganche, che non è né regista basso, né mezzapunta confinata agli ultimi 25-30 metri, ma che da una posizione variabile (vertice alto in un centrocampo a rombo oppure trequartista con totale libertà nel 4-2-2-2, il modulo sudamericano DOC che solo la Colombia ha proposto in questo Mondiale) dà il ritmo e la coesione a tutta la squadra. James e il suo connazionale Quintero (come movimenti in campo anche più di James enganche autentico e possibile erede di Riquelme, sempre che il calcio europeo non lo normalizzi del tutto) hanno ancora tanto tempo davanti, e la missione di difendere e promuovere il buon calcio di sempre. Datemi del romantico, datemi dell’ingenuo, ma io starò sempre dalla loro parte.