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La montagna, il ghiaccio, il frastuono, l'Ambrì
03 mag 2021
Racconto di una squadra di hockey che è molto di più.
(articolo)
18 min
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Un minuto alla fine. Le linee sul ghiaccio sono trincee. Per acciuffare il pareggio, gli ospiti del Kloten tolgono il portiere e aggiungono un attaccante. La tipica mossa della disperazione nell’hockey. La squadra di casa — l’Hockey Club Ambrì Piotta, per tutti HCAP, o semplicemente l’Ambrì — si difende con vigore: contrasti, cariche, lotte di posizione, scivolate. Vale tutto, pur di tenere il disco lontano. In una tonnara del genere, un essere umano normale perderebbe le costole in pochi istanti. Ma dietro alla balaustra, sui gradoni degli spalti, nessuno ha tempo per questi pensieri. Gli occhi sono ipnotizzati dai movimenti del disco, mentre nell’aria si respira la tensione tipica delle sfide salvezza. Quelle in cui a dominare è la paura di perdere, più che la voglia di vincere. Una tifosa in preda al panico borbotta imprecazioni in svizzero tedesco. Un quarantenne di lingua italiana, poco sopra, urla compulsivamente Viaaaa sto cxxxo di disco! E poi c’è il grido Ambri, Ambri, Ambri, che rimbomba a intervalli regolari per tutta la pista: spinge la squadra, esorcizzando la paura.

Per il Kloten è l’ultima chance. Il disco viene sparato nella mischia, ma la difesa lo rispedisce indietro. Nel tentativo di riprenderlo l’attaccante scivola, lasciandolo sfilare via. Mancano solo pochi secondi, troppo pochi per imbastire un’altra azione di attacco. E allora la tensione del pubblico, tutta di un colpo, può finalmente allentarsi. L’ Ambrì Piotta è salvo. Anche a questo giro. Segue un minuto di urla liberatorie. Poi, a sciarpe alzate, parte la Montanara: l’inno della squadra, cantato spontaneamente da tutto il pubblico dopo le vittorie. Venne scritta da un vicentino dopo un’escursione sulle Alpi Piemontesi, alla fine degli anni ’20. Oltre confine, è diventata la colonna sonora di una realtà sportiva unica al mondo.

Foto di Andrea Branca - HeShootsHeScoores.com.

Lassù sulle montagne

Siamo in Leventina, alto Canton Ticino. Tra montagne che trasmettono un’inquietudine irresistibile. Ombra e ghiaccio dominano il paesaggio, mentre i massicci verticali chiudono la visuale sopra la testa. Heidi è cresciuta appena un centinaio di chilometri più a nord, lungo le sponde del Reno. St. Moritz e Davos — icone del turismo più elitario al mondo — si trovano giusto un paio di vallate più a est. Eppure, lo stereotipo dell’idillio elvetico, con i suoi pascoli iridescenti e la sua prosperità impeccabile, sembra non essere mai arrivato in questi luoghi. Dove le Alpi mostrano invece il loro volto più spigoloso, osservandoci con diffidenza mentre usciamo dall’autostrada e prendiamo la strada cantonale, ormai prossimi alla meta. Alla nostra destra scorre il fiume Ticino, gelido e arrembante. Ancora ignaro di avere nel proprio destino un lenta vita di pianura, fatta di zanzare e canzoni di Max Pezzali. Davanti a noi, il paese di Ambrì: trecento abitanti, qualche osteria, una scuola, la stazione ferroviaria. E la strada che sembra voler andare a infrangersi contro il massiccio del San Gottardo, che sbarra l’orizzonte e ci fa pensare che il mondo potrebbe finire lì, e andrebbe bene lo stesso.

Ambrì viene da umbrìa, dialetto per "ombra". Quella che domina ininterrotta nei mesi invernali, quando la montagna è troppo alta anche per il sole; ma pure quella che permetteva al ghiaccio naturale di ispessirsi e rimanere vivo per tutta la stagione fredda, in tempi in cui l’elettricità era un lusso per pochi. Erano i primi del Novecento: in un pianoro del fondovalle, l’hockey trovò terreno fertile. Gli abitanti di Ambrì e Piotta, il paese subito a fianco, iniziarono a giocare fuori dalle stalle. Strinsero un sodalizio, costruirono la pista, e infine, nel 1937, fondarono l’Hockey Club Ambrì Piotta. Il club professionistico che, un secolo dopo, continua ad essere indissolubilmente legato a questo territorio. Attraendo migliaia di appassionati da ogni angolo della Svizzera, e pure dell’Europa.

Ambri, Ambri
Il serpente di macchine si forma verso le 19. Parte dall’uscita autostradale e continua fino all’aeroporto, una pista per le esercitazioni militari usata come parcheggio. Richiamati dalla vocazione, i tifosi sbucano da ogni dove, rianimando il fondovalle deserto: un rituale che si ripete con puntualità ogni fine settimana tra settembre e marzo. Arrivano da tutto il Ticino, ma pure dalle valli del Canton Uri, a nord del Gottardo, e dalle città dell’altipiano svizzero — Berna, Zurigo, Lucerna, Aarau. Senza dimenticare i pellegrinaggi dall’estero: dall’Italia — soprattutto dalle confinanti Como e Varese; ma pure dalla Germania. Come fanno i tifosi dell’Eisbaeren Berlino che, ogni anno, affrontano 16 ore di autobus per sostenere la squadra nel derby contro il Lugano, in onore al gemellaggio che li lega alla squadra locale. C’è anche un treno speciale da Bellinzona, gratis per gli abbonati.

«Veniamo da tutte le parti. Se fossimo in una città sarebbe molto più semplice trovarsi. Eppure ci riusciamo lo stesso. È il fascino di tifare per questa squadra»spiega un tifoso nel documentario Noi della Valle, prodotto da Roberto Guidi e Vito Robbiani e pubblicato dalla RSI, la rete nazionale della Svizzera Italiana. Un dietro le quinte che racconta la realtà del club e dei personaggi che vi ruotano attorno, dentro e fuori dalla pista. E così, in uno stato federale con quattro lingue ufficiali, assistere a una partita in casa significa esporsi a un miscuglio densissimo di idiomi e di suoni — italiano, dialetti ticinesi e lombardi, scampoli di francese, e varianti assortite di Schwyzertüütsch, il tedesco parlato in Svizzera. Le costanti sono due: il grido Ambri Ambri, che scandisce le azioni dal primo ingaggio alla sirena finale; e la forza d’urto del tifo, che nelle gelide serate d’inverno trasforma la pista da gioco in una bolgia assordante. A detta di molti, con pochi eguali in Europa.

Lasciata la macchina, c’è giusto il tempo di avvolgersi la sciarpa al collo e attraversare un sottopassaggio. Poi, all’improvviso, spunta la sagoma dellaValascia, la pista di gioco. È un capannone di legno e lamiere dal tetto curvo, ai piedi del monte. Sul lato della strada, la scritta “1937”, anno di fondazione del club; sul lato della montagna, uno striscione gigante, “Forza Ambri”, e alcuni sponsor locali. Chi segue il basket vi ritrova una versione alpina del Pianella, il tendone incandescente teatro delle grandi imprese della Pallacanestro Cantù; oppure della Hinkle Fieldhouse, la storica palestra di Butler University nella città di Indianapolis, che fece da teatro alla vicende narrate nel mitico film Hoosiers. Valascia vuole dire "valanga": un richiamo diretto a tutto ciò che la montagna rappresenta in questo angolo delle Alpi. Un pacchetto di cui fa parte anche un freddo implacabile, come sa chi ha messo piede almeno una volta dentro la pista. Oltre ai crismi tipici di tutti gli impianti vetusti — seggiolini rustici, corridoi angusti, rifiniture minimali — la particolarità dello stadio è infatti quella di essere sostanzialmente a temperatura ambiente. C’è giusto un tetto, per tenere lontane le intemperie; ma nelle serate invernali le aperture tra i muri e la copertura lasciano via libera agli spifferi che scendono dal Gottardo, sferzando le tribune giù fino alla pista. «Il ghiaccio è artificiale, ma è considerato da tutti come uno dei migliori per il freddo naturale» racconta uno degli addetti alla manutenzione, sempre nel documentario. E chiunque ci abbia messo piede in una serata d’inverno potrà confermare senza esitazione.

Foto di Andrea Branca - HeShootsHeScoores.com.

Non che il gelo sia un particolare problema per gli spettatori. Lo si tiene lontano con le primizie locali, cui pochi riescono a sottrarsi: la raclette, il piatto tipico a base di formaggio fuso e patate preparato in tempo reale nel piazzale antistante la pista; la birra Gottardo, prodotta a pochi chilometri di distanza; e altri alcolici di vario genere. Il modo migliore per tenersi caldi, però, resta il tifo. Dei 6500 posti della Valascia, solo 2000 sono a sedere; gli altri 4500 sono in piedi, distribuiti tra l’imponente muro della curva sud, e il lato di pista opposto alle panchine. È proprio da questi settori che arriva la spinta maggiore, in un macello acustico che include i cori della curva, i bambini che picchiano sul plexiglas, e i commenti pungenti dei più anziani, che da decenni passano le proprie serate invernali su quei gradoni. Sempre più sconsolati per la lentezza con cui la difesa fa uscire il disco dal terzo difensivo. Ma è nelle situazioni di emergenza che la Valascia offre il meglio di sé. Come nei box play, i periodi di inferiorità numerica — tipicamente di 2 minuti, ma volte anche più lunghi — in cui un giocatore viene espulso, e i rimanenti quattro si asserragliano a difesa della porta. O nei finali di partita con un vantaggio da difendere, quando l’avversario attacca senza portiere, e la differenza tra subire il pareggio e segnare il gol della staffa è una questione di millimetri. A volte va male. Ma quando gira bene, è una serata da ricordare. Parte la Montanara, si alzano le sciarpe. E le paure si dissolvono nel rituale di sempre.

Fatti in casa

Stringere i denti, del resto, è all’ordine del giorno in Leventina. E non solo per le temperature glaciali. A parte rari acuti— una Coppa Svizzera nel 1962 e due IIHF Continental Cup nel 1998 e 1999— rimanere in A è sempre stata la parola d’ordine. Un obiettivo sempre centrato dal 1985, anno di ritorno nella massima serie. Dal canto suo, il pubblico ha sempre mostrato un attaccamento al club indipendente dalle ambizioni di classifica. Adattandosi a convivere con una precarietà che ha radici ben più profonde dei risultati sul ghiaccio. Più di una volta ci è infatti voluto l’intervento diretto dei tifosi, sotto forma di acquisti di pacchetti azionari e raccolte fondi di vario tipo, per sanare i buchi di bilancio e garantire l’iscrizione al campionato. Si è trattato di iniziative importanti per tamponare una situazione cronicamente complessa, vista la difficoltà di attirare sponsor e capitali a sostegno di una squadra che avrà sì fascino e tradizione, ma gioca pur sempre in un’area remota, poco ospitale, e con un’economia locale cronicamente in difficoltà. Problemi che le squadre delle città a nord delle Alpi, forti di un contesto finanziario molto più favorevole, non devono affrontare. Ma la consapevolezza dei propri limiti è sempre stata un punto fermo per tutta la tifoseria dell’Ambrì. Che mai ha avanzato pretese irrealizzabili, a patto di vedere una squadra che lotta fino in fondo.

Foto di Andrea Branca - HeShootsHeScoores.com.

È stato proprio il desiderio di intercettare questo spirito, unito a ulteriori riduzioni del budget, che ha recentemente spinto la dirigenza a intraprendere una linea di condotta fortemente locale, dopo che qualche stagione deludente aveva portato un po’ di disaffezione tra i tifosi. Dal 2017 il ruolo di allenatore è stato affidato a Luca Cereda: un prodotto casereccio del club sin dai tempi in cui accumulava assist e gol sul ghiaccio, prima che un problema al cuore ne terminasse la carriera a soli 26 anni, proprio quando un contratto nella NHL sembrava una concreta possibilità. Personalità battagliera, etica del lavoro maniacale, ostinatamente allergico ad alibi e scuse, si è dimostrato l’uomo giusto per tirare fuori tutto il possibile da squadre con talento limitato, spesso meno profonde degli avversari. Quello di direttore sportivo è invece andato a Paolo Duca, fino alla stagione precedente capitano della squadra. Un giocatore di carattere, sempre pronto a lottare. Sui dischi, ma anchenelle scazzottate con gli avversari che sono parte così importante della cultura di questo sport. Si sarebbe poi rivelato un conoscitore capillare dei vari strati dell’hockey europeo, estremamente abile nell’esplorare le piste di mercato fuori dalla Svizzera. Come quando portò in Leventina Dominik Kubalík, talento della Repubblica Ceca su cui si erano già posati gli occhi della NHL. Dopo una stagione di assestamento, regalò ai tifosi dell’Ambrìun anno a livelli incredibili, prima di proseguire la carriera con i Chicago Blackhawks. Al debutto ha già sfiorato il trofeo di esordiente dell’anno della NHL, lasciando molti tifosi in Leventina a fare i conti con una strana incredulità. Quella tipica delle così belle, e così brevi, che ci si chiede se siano veramente successe.

Ormai giunta alla fine del quarto anno, la coppia Duca-Cereda continua a essere l’asse su cui la dirigenza del club intende programmare il futuro. Dopo la buona salvezza del 2018 - sancita dalla vittoria contro il Kloten descritta descritta sopra - è arrivata addiritturala qualificazione ai playoff nel 2019: una stagione per certi versi irripetibile, culminata con la prima vittoria in una partita di postseason dopo 13 anni di digiuno. È seguita un’altra agevole salvezza, prima della stagione appena conclusasi. Un’annata tribolata e conclusa con due sanguinose serie di sconfitte nel finale, ma che resta difficile da giudicare, visto che le partite a porte chiuse hanno stroncato l’entusiasmo di tutte le tifoserie, e il blocco delle retrocessioni ha svuotato di significato la lotta salvezza. Nel complesso, il bilancio delle ultime stagioni rimane comunque positivo: nuovamente in grado di immedesimarsi pienamente con la squadra, il pubblico è tornato ad animare la Valascia con rinnovato entusiasmo, almeno fino a che le regole sanitarie lo hanno consentito. Scatenando il proverbiale delirio quando tra le montagne della Leventina si è presentato il Lugano, l’acerrima nemica ticinese. Con la quale si tramanda da generazioni una delle rivalità più torride del mondo dell’hockey europeo.

C’è un derby che non vincerete mai

Adagiata tra le colline, prossima al confine con l’Italia, Lugano è lontana anni luce dalla ruvidezza montanara di Ambrì. Florida, internazionale, elegante; capace di attrarre turismo e affari grazie a un lago affascinante. Una città che primavenne cantata dagli anarchiciche vi trovarono riparo, e ora è apprezzata dagli investitori che l’hanno resa il terzo centro bancario della Svizzera dopo Zurigo e Ginevra. Ma nell’universo morale di un tifoso dell’Ambrì, Lugano rimane il male assoluto: rappresenta la città, la pianura, lo strapotere — valori da combattere con tutte le forze. A maggior ragione se vengono incarnati dal centro urbano principale della Svizzera Italiana, la cui squadra di hockey, con sette titoli all’attivo, è una delle più vincenti della storia del paese. Non c’è allora da stupirsi che, in un torneo di 50 partite, il derby del Ticino costituisca un campionato a sé stante. Se ne giocano sei all’anno, a volte anche in giorni consecutivi. Ma ogni volta si sprigionano vibrazioni inedite, difficili da descrivere. Le piste strapiene, le coreografie, i cori, la tensione sportiva, i colpi proibiti sul ghiaccio. E il fascino di una partita che rimane impossibile da prevedere, anche in edizioni in cui la differenza tecnica tra le squadre è particolarmente marcata. Quasi sempre a favore del Lugano, che infatti ha vinto tutti e sei i derby giocati nella stagione appena conclusa.

Lo scontro più importante è stato forse quello del 1999, quando le due squadre si sfidarono per il titolo: fu la prima e ultima apparizione dell’HCAP in finale; finì con il quinto titolo dei bianconeri, portato a casa proprio tra le montagne della Leventina. Ma il vero trauma, per i tifosi dell’Ambrì, sarebbe arrivato sette anni dopo, nel 2006, quando il Lugano era avversario nel primo turno dei playoff. L’Ambrì vola, vince due volte in trasferta, si porta sul 3-0 nella serie; come mossa disperata, il Lugano decide di esonerare l’allenatore Larry Huras, peraltro proprio ex tecnico dell’HCAP, chiamando a sostituirlo il canadese Harold Kreis. Da lì, quattro vittorie filate: avrebbero fatto da antipasto per il settimo e ultimo titolo dei bianconeri, infliggendo ai tifosi biancoblù una ferita che ancora oggi non si è rimarginata.

Di stagione in stagione, la rivalità continua ad ardere, punzecchiando la fantasia delle due tifoserie. Da una parte, il comprensibile senso di superiorità dei bianconeri, sempre pronti a far valere l’impietoso confronto tra i palmares dei due club. Dall’altra, l’orgoglio inattaccabile di Ambrì, che si esprime nelle coreografie mozzafiato che precedono ogni sfida con i rivali. È proprio in questo momento, pochi minuti prima dell’ingaggio di inizio, che la febbre da derby tocca il suo apice. Il telone si alza come un sipario e la Gioventù Biancoblu, l’anima della tifoseria organizzata, offre la propria interpretazione estetica della partita, guardata con religiosa attenzione dal resto della pista. Si sono vistirivisitazioni dantesche; abbracci sospesi; libere interpretazioni della geografia della Svizzera. Fino a quella di un recente derby— per molti la più bella di sempre — che ha sfoggiato un inedito tocco meta: una carrellata delle coreografie dei derby passati, fatta scorrere in curva come una virtuale pellicola. 3 minuti di messa in scena, oltre venti giorni di preparazione. C’è un derby che non vincerete mai dicono ad Ambrì. Un punto su cui nessuna bacheca, nemmeno quella scintillante dei rivali, può controbattere.

Foto di Andrea Branca - HeShootsHeScoores.com.

Giocare contro i pronostici, del resto, è l’ultimo dei problemi per i tifosi biancoblù. Anzi, è un aspetto cardinale della loro identità, che ha attirato il paragone con altre romantiche sfavorite che sono diventate fenomeni di culto ben oltre i propri confini geografici— dall’FC St. Pauli all’Islanda degli ultimi Mondiali, senza dimenticare le Cenerentola del basket universitario. Tra le montagne del Ticino, però, il culto dell’underdog si è sviluppato in una maniera curiosa, tutt’altro che uniforme. Da una parte, il bacino demografico di uno stato, e di un cantone, dove le spinte conservatrici hanno sempre avuto un ruolo di primo piano, seppur non esclusivo. Dall’altra, la Gioventù Biancoblu, da sempre in prima linea per portare avanti le proprie idee progressiste: eleggendo a simboli Geronimo e Che Guevara, scrivendo i comunicati con inclusivi asterischi gender-neutral, e organizzando iniziative sociali che vanno ben oltre i confini del tifo. Come quando raccolsero 12.000 Franchi, oltre 11.000 Euro, a sostegnodegli operai delle officine ferroviarie di Bellinzona, impegnati in uno sciopero per mantenere le attività in Ticino. Normale che, una volta ogni tanto, emerga qualche screzio. Da una parte, la componente moderata non è sempre entusiasta delle prese di posizione ideologiche della curva. Dall’altra, i membri della GBB accusano il resto del pubblico di farsi belli grazie al loro tifo, salvo però distanziarsi prontamente quando si tratta di esprimere solidarietà su altre questioni. Ma sono tensioni che sbiadiscono davanti all’attaccamento viscerale che accomuna tutti i sostenitori biancoblù, quando c’è da sostenere la squadra — che si tratti di rastrellare fondi, organizzare coreografie o, semplicemente, gridare a squarciagola il proprio sostegno durante le partite. Ed è forse proprio questa unità di intenti, più della retorica da Davide contro Golia, il vero miracolo che rende speciale questo fondovalle: aver sublimato le barriere montuose e le naturali divisioni interne alla propria tifoseria — linguistiche, culturali, politiche, addirittura nazionali — in un culto monolitico, inossidabile, al di sopra di ogni compromesso. Cementando nel tempo il matrimonio improbabile tra una comunità sparpagliata, dispersa tra le Alpi, e un club ostinatamente locale. Inscindibile dalla propria vallata.

È morta la Valascia, viva la Valascia

Rimane un ultimo, crudele scherzo del destino: tra tutti gli elementi del creato, la minaccia più importante alla sopravvivenza del club è arrivata proprio dalla neve. Incassata sotto un pendio ripido, a 1000 metri di altitudine, la Valascia evoca le valanghe di nome, ma pure di fatto. Nel 1975 una slavina causò danni ingenti, sfondando la struttura giù fino alla pista. Nel 2018, un derby con il Lugano in programma per il giorno dell’Epifania fu in dubbio fino all’ultimo, a causa di un’abbondante nevicata che avrebbe potuto creare condizioni pericolose. Per far fronte alla minaccia, nei primi anni 2000 il club presentò un piano ristrutturazione per l’impianto. Prima di avallarlo, però, le autorità locali decisero di effettuare dei rilievi ufficiali. Risultò che quella zona era effettivamente troppo a rischio, anche dopo gli eventuali lavori. Seguì la bocciatura del progetto, nel dicembre 2010, in quello che venne definito uno dei giorni più neri della storia del club. La Lega Nazionale Svizzera, che da tempo non vedeva l’ora di sbarazzarsi di un impianto così vetusto, costrinse l’HCAP a pianificare la costruzione di una nuova pista, pena l’impossibilità di iscriversi alla massima serie. Partì un complesso lavoro diplomatico con banche e istituzioni, gestito in prima linea da Filippo Lombardi: presidente del club, e membro del Consiglio degli Stati come membro del Partito Popolare Svizzero. Alla fine del 2018, dopo infinite complicazioni, arrivò il via libera, con la partenza del cantiere. Tre anni dopo, i lavori sono in via di completamento. L’arena sorge poche centinaia di metri più in là dall’originale, spostata di quel tanto che basta per essere fuori dalla traiettoria delle valanghe. Ufficialmente chiamata Gottardo Arena, per molti sarà semplicemente la nuova Valascia. Diventerà ufficialmente la casa dell’Ambrì a partire da quest’autunno.

Foto di Andrea Branca - HeShootsHeScoores.com.

L’ultima partita di sempre alla Valascia - una sconfitta maturata nei minuti finali contro il Friborgo, in linea con la tendenza della stagione - è stata vissuta con l’intensità delle grandi occasioni. I ricordi ditifosi e appassionatida tutta Europa. Iservizi fotograficidei cronisti, che hanno immortalato per l’ultima volta gli angoli più incredibili della pista. Ilvideo di addio pubblicato dalla società. Fino al gesto simbolico con cui il presidente Lombardiha spento per sempre la macchina del ghiaccio. Il tutto nel magone surreale di una pista vuota, senza tifosi né rumori. Ennesimo sfregio di una pandemia che, tra cose ben più gravi, ha anche impedito di congedarsi dalla pista con il calore che avrebbe meritato. Resta però un addio piacevole: sotto al velo di malinconia cova tanta voglia di guardare avanti. La nuova pista porta sopravvivenza, rilevanza, e, sperano in molti, anche una situazione finanziaria più confortevole. E così, è già partito il conto alla rovescia per l’autunno, e per un nuovo capitolo di una storia che trova sempre il modo di rinnovarsi. Ci saranno spalti più comodi, temperature meno aggressive; l’immunità al coronavirus. E i protagonisti di sempre: la montagna, l’ombra, il frastuono. E un ghiaccio che sembra quasi naturale.

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