
Nascono le due principali scuole filosofiche del calcio
di Matteo Gatto (@matteo_gatto)
Se n’era andato coprendosi la faccia come se lo avessero arrestato: «Ho dato tutto, troppo». «José non si prenderà un anno sabbatico. Non è stanco, non ne ha bisogno, si sente molto positivo», recitava un comunicato redatto dalla CAA, la sua agenzia con base a Los Angeles, e diffuso nei giorni seguenti la separazione dal Chelsea. Aggiungeva: «Dato il suo amore per il calcio, potreste vedere José allo stadio lavorare e supportare amici». Quando era riapparso, sulle tribune dell’AMEX Arena in occasione della partita di Championship Brighton - Middlesbrough, aveva la testa rasata.
Durante tutto l’inverno del 2016 lo si vide sporadicamente a qualche partita, anche se mai di cartello, «per non dare vita a speculazioni sul suo futuro». All’inizio solo a Londra e dintorni, con apparizioni al Craven Cottage, a Selhurst Park, al The Valley. E di apparizioni si trattava: non parlava con la stampa, non parlava con chi gli sedeva intorno, né con chi lo avvicinava per un autografo. Firmava, faceva un cenno con la testa, restituiva la penna e tornava a concentrarsi sul rettangolo verde. A marzo comparve sulla tribuna dell’Olympiastadion per una partita dell’Herta Berlino, e c’è chi disse di averlo visto aggirarsi in città, dalle parti del Mauerpark, già la settimana precedente. Poi nessuna traccia fino al 15 maggio, quando arrivò nella sua città natale, all’Estádio do Bonfim, per assistere all’ultimo match casalingo del Vitória Setúbal, impegnato contro il Paços de Ferreira.

Josè Mourinho fotografato all’Olympiastadion.
Sulla stampa il nome di José circolava sempre meno, e gradualmente ad accostarlo non erano Real Madrid, Manchester, PSG, ma parole stonate e inquietanti, sicuramente esagerate: si scriveva di crollo nervoso, burn out, neurasthenia, mental breakdown. Quando iniziò l’Europeo in Francia, l’attenzione riguardo il suo futuro, e il suo presente, fu inghiottita dal calcio giocato. Restò, latente, solo una timida e circoscritta preoccupazione. Starà bene?
Finché, a luglio, arrivò l’annuncio dell’Università Tecnica di Lisbona: José Mourinho terrà un ciclo di 23 lezioni in “Filosofia e psicologia del football management” nell’ambito del corso in Scienze Sportive, riservato ai soli studenti. Sul sito dell’università, nella pagina di presentazione dell’iniziativa, si leggevano tre suoi virgolettati.
- «Il calcio mi ha dato tutto quello che mi poteva dare, mi ha cambiato. Adesso sta a me cambiare lo sport che amo in un modo più profondo».
- «Una cosa è inseguire un sogno e un’altra è inseguire un’ossessione. Un sogno è più puro di un’ossessione. Un sogno ha a che fare con l’orgoglio».
- «Il mondo è così competitivo, aggressivo, consumista, egoista. E nel tempo che spendiamo qui dobbiamo essere tutto tranne che questo».
Solo il primo era nuovo. Gli altri due virgolettati erano ripresi dal suo discorso di accettazione della laurea honoris causa consegnatagli nel 2009 dall’università stessa. A settembre, alla prima lezione, c’era la tutta la stampa del pianeta. Gli studenti furono obbligati a lasciare i loro device elettronici fuori dall’aula, all’interno della quale si poteva entrare solo passando attraverso dei metal detector. Ne uscirono straniati. José aveva ancora la testa rasata, ma la barba lunga e sorprendentemente bianca. Il suo vestito fu definito da alcuni «la tuta più elegante che abbia mai visto», altri lo definirono «uno smoking da ginnastica». Sulla lezione, tutti erano d’accordo: grande carisma, grande capacità comunicativa, ma i contenuti semplicemente non stavano assieme, erano sconnessi. José non aveva un filo logico.
A fine settembre, sulla stampa portoghese iniziò a girare una storia su intensi lavori di rinnovamento di una enorme villa nascosta tra le colline dell’Algarve, con un cortile interno delle dimensioni di un campo da calcio. Gli abitanti della zona parevano sicuri: qualunque cosa stesse succedendo, dietro a quella faccenda c’era José.
Nel frattempo la stagione calcistica era iniziata e Mourinho, per la prima volta dagli anni ’90, non sedeva su nessuna panchina, né tantomeno dava l’impressione di prepararsi a farlo. Sabbatical after all titolava un lungo pezzo del Guardian che cercava faticosamente di ricostruire la vita da professore universitario di José.

Poi, il pomeriggio del 4 novembre, i suoi studenti uscirono dalla lezione in uno stato di confusa, ma assoluta meraviglia. Le loro esternazioni, sui social network e poi alla stampa, tentavano di esprimere una rivelazione. «Adesso ho capito». «Non avevo mai visto il calcio in questo modo». «Quindi questo è lo sport». «Tutto mi sembra diverso». Chi fece lo sforzo di spiegare cosa fosse realmente successo, disse che José fino a lì, lezione dopo lezione, aveva attentamente posizionato dei puntini, e che era come se quel giorno li avesse uniti tutti assieme. Il disegno che ne era uscito era un sistema di pensiero compiuto, che partiva dal calcio, ma andava oltre. Una vera e propria filosofia.
La mattina dopo un turista tedesco che girava in bici l’Algarve postò su Facebook la foto di una piccola targa argentata comparsa nottetempo sul grande cancello d’ingresso alla presunta tenuta di José. C’era scritto Escola para Football Managers "José Mourinho". Dopo neanche mezz’ora l’immagine della targa era su tutti i siti d’informazione del mondo, e il mondo stesso era lì a chiedersi che cosa potesse rappresentare quel colpo di scena. Una domanda, più di ogni altra, emerse come la più interessante e problematica al tempo stesso: se c’è una scuola, chi sono gli allievi?
Nel comunicato che la CAA diffuse quella stessa sera si leggeva: «In questa stagione, José ha deciso di allenare una squadra straordinaria. Uomini che lo hanno avuto come manager e con i quali c’è reciproca, incondizionata fiducia. La Escola para Football Managers "José Mourinho" nasce per assorbire, ripensare ed espandere i principi che fondano il gioco. Un luogo per apprendere quali sono le strade per giungere al suo scopo: la vittoria. Gli uomini e i risultati della Escola parleranno da soli, nel tempo».
Alla fine di quella stagione, lo Spartak Mosca di Dmitrij Alenichev vinse a sorpresa l’Europa League; la Taça de Portugal, la coppa nazionale portoghese, andò al Paços de Ferreira allenato da Costinha; Marco Materazzi, subentrato a Bisoli dopo la quinta giornata, portò il Perugia alla vittoria della Serie B. Tutti e tre gli allenatori, a domanda diretta della stampa, avevano affermato di essere membri della Escola.
All’inizio della stagione 2017/18, quella che avrebbe portato al Mondiale in Russia, erano 11 gli allenatori apertamente affiliati alla Escola: oltre ad Alenichev, Costinha e Materazzi, c’erano Ricardo Carvalho, Esteban Cambiasso, Claude Makélélé, Frankie Lampard, Maniche, Khalid Boulahrouz, Eidur Gudjohnsen, Dejan Stankovic. Sei di loro conquistarono almeno un trofeo, inclusa la Champions League, vinta dal PSG di Makélélé contro il City di Guardiola.
Ma fu nelle quattro stagioni successive che la Escola si prese davvero l’Europa. Tre volte la Champions League, che passò dal Chelsea di Lampard al tremendo Ajax di Zlatan Ibrahimovic fino al Liverpool di Xabi Alonso. Due Europa League di fila per il Benfica di Maniche, con le lacrime della gente di Lisbona a bagnare la maledizione di Béla Guttmann finalmente spezzata. A livello nazionale, poi, uno score impressionante: 17 campionati, 16 coppe e 24 supercoppe. E altri giovani manager come Sami Kedhira, Esteban Granero e Cesc Fàbregas che sembravano crescere sempre più determinati e preparati.
L’influenza di Mourinho sui suoi discepoli era discreta, ma costante. Guardava tutte le loro partite e dispensava consigli, proponeva accorgimenti. Ma dava anche suggerimenti su come gestire il rapporto con i club, o con i giocatori e i loro agenti. Di fatto, Mourinho aveva un ascendente su quasi tutte le principali squadre d’Europa. E le stava cambiando.
Nel 2022, l’Olanda di Wesley Sneijder vinse ai rigori il primo Mondiale della sua storia e Johan Cruijff, indignato dallo stile di gioco noioso e speculativo degli "oranje", scrisse di getto un editoriale per il De Telegraaf intitolato: "Non ho sconfitto il cancro per assistere a questo schifo". Poi prese il telefono e parlò, in catalano: «Pep, abbiamo passato il segno, è davvero tempo che tu faccia qualcosa. Dimmi solo di che hai bisogno».
«Lo so, Johan, lo so. Grazie. Tu però stai tranquillo e riposati, io ho già le idee chiare. Ne ho parlato anche con Xavi». E fu così che, nel 2016 e nel 2022, nacquero le due prime e principali scuole filosofiche del gioco del calcio.
Muore il calcio europeo
di Cesare Alemanni (@CesareAlemanni)
Il primo campanello d’allarme suonò al termine dell’andata degli ottavi di Champions League. Il numero dell’Economist in edicola la settimana seguente riportava una cifra inquietante: una flessione del 28% dell’audience globale della competizione, su tutte le piattaforme, rispetto allo stesso dato del 2015. Quasi un terzo di spettatori bruciati in un solo turno.
Una cosa mai vista e infatti l’Economist non se la spiegava, doveva per forza trattarsi di un glitch temporaneo. Per non creare allarmismi i principali quotidiani sportivi europei decisero di non diffondere la notizia, ammesso che l’avessero letta. Bastò meno di una settimana per appurare che non si trattava di un errore di rilevamento. Il 27 febbraio, l’attesa sfida tra Manchester United e Arsenal fece registrare un ulteriore picco di ribasso. Meno 43%. Meno 41% per il derby di Madrid del giorno dopo.
Il lunedì seguente L’Equipe ruppe per primo il muro di gomma e decise di aprire con un titolo inequivocabile: “Il business del calcio ritorna agli anni ’80”. L’articolo era una inchiesta, un po’ sbrigativa dati i tempi di confezionamento, sulla voragine che si era improvvisamente aperta sotto gli occhi di tutti. Per cercare di approfondirne le ragioni, all’interno si intervistavano sociologi, massmediologi, persino uno psicologo. Nessuna idea. La parola più convincente del pezzo, tutto sommato, era epidemia.
Intanto il Financial Times di quel martedì scriveva di come le principali pay-tv mondiali minacciassero di congelare i pagamenti ai club fino alla immediata rinegoziazione dei contratti. Ovviamente al ribasso. La tendenza andò avanti per tutto marzo. Ogni turno segnava un nuovo record negativo. FIFA, UEFA e le principali federazioni si riunirono per fare un punto della situazione e cercare di mettervi una toppa.
Nel frattempo la formula “epidemia degli ascolti” era ormai stata sdoganata su tutti i media, sportivi e non solo, e nelle chiacchiere da bar. Il mondo del calcio europeo passò la settimana che portava al Clásico del 3 aprile con il fiato sospeso. Doveva essere il momento del riscatto, l’occasione per tirare un sospiro di sollievo, ma il dato del giorno successivo fu spietato: -82%.

Gli spalti vuoti di una tipica partita di Champions League.
La Gazzetta di quel lunedì titolava: “Il calcio non tira più” e francamente restava il dubbio se si trattasse dell’ennesimo calembour o di una semplice constatazione. Una serie di arbitraggi e sorteggi sospetti aiutarono Bayern Monaco e Barcellona a raggiungere la finale di Champions League, per la quale la UEFA si mobilitò in un’operazione di marketing senza precedenti. Furono consultati persino i responsabili della comunicazione di Disney e la regia dello spot di lancio venne affidata a Roland Emmerich (sic). Lo spot giocava con un’estetica da “guerra dei mondi” e promuoveva la partita come la più grande finale della storia.
Si arrivò al punto che la UEFA pagò di tasca propria le municipalità di alcune grandi città per fare illuminare i loro monumenti di rosso e blaugrana. Tutto inutile. Dai 180 milioni di spettatori della finale 2015, con una terribile ironia, si passò a 18. Due giorni dopo, sul New York Times, Paul Krugman definiva il tracollo del mercato televisivo calcistico come «la cosa più insolita che abbia mai osservato». All’incirca nello stesso periodo la BBC mandò in onda un breve documentario intitolato: “The day viewers left”, un titolo che riassumeva perfettamente quanto era successo. Semplicemente, di colpo e tutte insieme, le persone avevano smesso di guardare il calcio. Intanto, grazie alla consulenza dei migliori studi legali del mondo, le televisioni azzeccarono un garbuglio contrattuale per uscire dagli accordi in essere.
Per agevolare gli ascolti, a inizio giugno la UEFA decise, con una mossa disperata, ma inutile, di far giocare l’Europeo a porte chiuse. Nello stesso periodo arrivarono le prime notizie di liquidazioni. Una volta svuotati gli organici, Manchester City e Paris Saint-Germain furono così ceduti ai Pozzo, mentre Abramovich svendeva il Chelsea a Mourinho. Abbandonato dai fondi d’investimento, Florentino Pérez dichiarò bancarotta a luglio. Le risorse dell’azionariato popolare del Barcellona, si scoprì, bastavano appena a pagare due settimane di stipendio di MSN. Il Bayern Monaco e la Juventus, invece, decisero pragmaticamente per autoimporsi un periodo di austerity.
A metà agosto l’80% dell’élite dei calciatori mondiali era in pratica free agent. I più ambiti trovarono il modo di accasarsi immediatamente, seppure con stipendi molto più contenuti, in MLS (Messi, Ronaldo, Suárez, Neymar, Di María, Lewandowski, Neuer, Ramos e Thiago Silva), Cina (Agüero, Pogba, Rooney, Götze, Boateng, Piqué) ed Emirati (Ibrahimovic, Touré, Bale, Sterling), quelli con meno appeal globale rimasero semplicemente a spasso. Alcuni decisero di appendere le scarpe al chiodo per un po’ in attesa di giorni migliori, altri accettarono offerte sotto il milione di euro da quei pochi club che non avevano ancora smantellato completamente.
Fu così che sul filo della chiusura del mercato, l’Inter si assicurò Kevin De Bruyne, Nemanja Matic e Romelu Lukaku (tra tutte le leghe, la Premier League fu quella colpita più duramente dal drastico ridimensionamento degli introiti televisivi), il Milan riportò in Italia Philippe Coutinho, aggiunse Arjen Robben sulla destra e Benzema davanti, ma continuò a giocare con Montolivo regista dopo aver fallito l’assalto a Modric, rimasto a fare da chioccia ai giovani del Real allenato da Mazzarri. La Roma allenata da Totti non rimase a guardare e si assicurò gente come Oscar, Cahill, Fàbregas, Verratti e Matuidi. L’Atlético Madrid ricomprò Diego Costa e Arda Turan e scippò Kroos al Real, mentre a Villarreal e Valencia arrivarono Rakitic, Zabaleta e Cavani.
Anche a Galatasaray, Porto e Benfica non andò poi così male: finirono più o meno tutti lì i giocatori di seconda fascia della Premier e alcuni esodati del PSG come Kurzawa, Lucas Moura e Pastore. Tra i club di Premier, i soli a mantenersi più o meno in piedi furono il Liverpool, il Manchester United e il Leicester campione in carica. Non fecero pressoché mercato, ma almeno si dovettero limitare solo a un paio di cessioni. Ai nastri della Champions League 2016/2017, il Borussia Dortmund, che aveva aggiunto Alaba, Coman, Douglas Costa e Thiago Alcántara alla sua già solida ossatura, si presentava come l’ovvia favorita, ma alla fine uscì ai quarti con l’Anderlecht di Tielemans, Praet, Januzaj e di un inossidabile Klose.

All’inizio della nuova stagione di calcio europeo gli indici di ascolto tornarono timidamente a salire, ma non si ripresero mai del tutto. A pagare più duramente l’esplosione del sistema furono ovviamente le piccole e medie società, che dovettero rinunciare ad amenità come il bus per le trasferte. A fine marzo 2017 il Sassuolo di Berardi, Balotelli ed El Shaarawy, muovendosi su Iveco a noleggio e Intercity, guidava la classifica di Serie A davanti all’Inter che, per ammortizzare i costi, aveva dovuto mandare la prima squadra in tournée in Indonesia per tre mesi. Il Real Madrid si qualificò per l’Europa League, Pozzo “vendette” Widmer al suo Manchester City realizzando un’auto-plusvalenza di 55.000 euro. Attraverso i buoni rapporti con Hollywood e forte della nutrita comunità italo-americana De Laurentiis riuscì a iscrivere il Napoli al campionato MLS 2017/18. A dicembre 2017, un’economista del Lussemburgo vinse il Nobel con un paper intitolato: “Football Epidemics: Audience Uncertainty and Risk Perceptions”.
Nel febbraio 2018 L’Ultimo Uomo fu rinominato La Quinta Pinta, un chiaro riferimento allo sport dagli ascolti più in crescita: le freccette.
La III guerra mondiale stravolge il calcio europeo
di Dario Saltari (@DSaltari)
Nessuno si aspettava che un febbraio primaverile, con temperature sopra i 15 gradi, potesse portare a una nuova guerra in Europa. Ma gli effetti del cambiamento climatico portarono al definitivo collasso della Siria, ormai per gran parte desertificata, e la situazione si fece ingestibile al punto che la Turchia decise di portare the boots on the ground, in modo da cercare di stabilizzare la situazione con la forza (e, perché no, reprimere sul nascere il nuovo stato curdo). Con la NATO all’interno del cortile di casa propria, il regime di Assad collassò come un palazzo demolito con l’esplosivo: una mossa che provocò le proteste della Russia. E, per rappresaglia, Putin avanzò i propri carri armati sull’Ucraina fino alle porte di Kiev. Il 15 febbraio, l’aereo che stava portando i giocatori del Fenerbahçe a Mosca per i sedicesimi di finale di Europa League contro il Lokomotiv precipitò in circostanze misteriose.
In quella situazione di enorme tensione, fu un quarto di finale di Champions League, Zenit - PSG, a far crollare definitivamente l’illusione che tutto potesse andare avanti come se nulla fosse. L’andata si giocò il 5 aprile a Parigi, con in tribuna Vladimir Putin, e la partita venne interrotta dopo un quarto d'ora da un gruppo di militanti ceceni che entrò in tribuna e prese in ostaggio il presidente russo. Alcuni militanti invasero il campo e Ibrahimovic ne prese a calci uno, disarmandolo, ma quelli dietro lo freddarono sul colpo scioccando in diretta il mondo intero. L’intervento dello svedese aveva comunque rallentato il raid, permettendo a Putin di mettersi in salvo, ma la morte di Ibra fu il fiammifero sullo strato di polvere da sparo che ricopriva le relazioni internazionali in Europa e fu immediatamente paragonata dagli storici all'assassinio dell'arciduca Francesco Fernando D'Asburgo-D'Este che scatenò la Prima guerra mondiale.

Cin-cin.
La Russia dichiarò guerra alle “potenze occidentali fiancheggiatrici del terrorismo” e il crescente sentimento antirusso, che in Inghilterra era già forte prima, portò all’improvvisa fuga di Abramovich da Londra. Prima di svendere la propria quota di maggioranza, però, il magnate russo si premurò di trasferire forzosamente l’intera squadra del Chelsea in Crimea, nella sua enorme dimora estiva di Sebastopoli. Fu qui che Abramovich fondò la sua nuova squadra: il Nuovo Chelsea. Squadra che, data l’interruzione di tutti i campionati europei, compreso quello russo, sostanzialmente giocava solo d’estate contro rappresentative locali. Durante il conflitto circolarono molto i selfie di Abramovich e Hazard, che i russi utilizzarono per dimostrare come Mosca attraverso i suoi mille figli potesse raggiungere qualunque obiettivo. John Terry entrò in politica e per molti era l'ideale successore di Putin.
In Francia, invece, le spinte islamofobiche ulteriormente fomentate dalla guerra, portarono il governo di emergenza nazionale a emettere un decreto che sanciva l’espulsione di tutti gli investitori di religione musulmana dal paese. Il decreto (che, pur soddisfando i bassi istinti dell’opinione pubblica, avvicinò pericolosamente la Francia alla bancarotta) portò alla cacciata dei proprietari qatarioti del PSG e quindi al conseguente fallimento della squadra parigina. Per evitare un nuovo “caso Chelsea”, l’esercito francese fece irruzione nel centro d’allenamento del PSG poco prima che il decreto venisse emanato, per impedire che i calciatori fossero prelevati e portati a Doha. Il governo decise quindi di nazionalizzare il PSG rinominandolo Équipe de France. La morte di Ibrahimovic, l’unico calciatore della squadra sospettato di essere musulmano, fu interpretato come un segno divino, mentre Rabiot, “il più puro tra i francesi”, fu fatto capitano e mandato al fronte per confortare le truppe.

In Spagna la guerra accelerò il processo di separazione della Catalogna. Agli insorti catalani, che da tempo cercavano una guida carismatica, si unì Pep Guardiola. La sua abilità tattica sul campo da battaglia e oratoria nelle piazze permise alle truppe di Barcellona di prevalere su quelle di Madrid. La Catalogna divenne quindi uno stato a parte, Guardiola il suo presidente. Famoso il suo primo discorso dal balcone della Generalitat di Barcellona, quando incendiò le masse urlando: «Rajoy ya no es el puto jefe» (Rajoy, il primo ministro spagnolo, NON è il capo QUI).
Nel frattempo Platini riuscì a sfruttare il vuoto di potere generato dalla guerra (con l'aiuto di alcune morti sospette di concorrenti e accusatori) per riprendere il controllo della UEFA: fu lui a decidere di giocare comunque l’Europeo, “come segnale di pace”, spostandolo però in Svizzera. Al torneo parteciparono solo i paesi che non stavano partecipando al conflitto: la Svizzera ospitante, Malta, il Liechtestein, le isole Fær Øer, la Moldavia, San Marino, Andorra e lo Stato del Vaticano.
Com’era prevedibile, in finale arrivarono la Svizzera e lo Stato del Vaticano, la cui Nazionale, allenata da Mourinho, fu aperta a tutti i giocatori di comprovata fede cattolica. Messi e Cristiano Ronaldo, finalmente nella stessa squadra, fecero a pezzi la compagine svizzera pur senza passarsi mai la palla. Durante i sobri festeggiamenti finali, la coppa Delaunay passò dalle mani del capitano, Edinson Cavani, a quelle di Mourinho che, baciando il crocifisso di Fatima, andò a riporla commosso nelle mani di Papa Francesco. Quest’ultimo alzando la coppa al cielo lanciò un chiaro messaggio alle potenze in guerra nel suo discorso finale: «Questa coppa dimostra ancora una volta che fuori dalla Chiesa non c’è salvezza».
Altre distopie possibili
di Arnaldo Greco (@Arnaldogreco)
Dopo un Europeo disastroso in cui l'Italia è uscita al primo turno con 3 sconfitte in 3 partite e preso atto dello scarso attaccamento dei tifosi alla Nazionale, sulla scia della Catalogna e della Scozia il governo Renzi lancia un referendum da cui l'Italia uscirà separata nelle seguenti Nazioni/Nazionali: la Padania, il Regno delle due Sicilie e il Centro. Le prime due Nazionali acquistano una loro dimensione (simile a Serbia e Croazia, per capirsi, buone, ma mai eccelse) mentre il Centro viene affidato a Totti come allenatore-giocatore e vivrà delle rare vittorie contro le odiate nemiche.
La Serie B 2016-17 diventa “il campionato degli italiani”: vale a dire che potranno giocare solamente italiani. Incredibilmente la cosa piace agli spettatori e dopo pochi mesi l'idea viene allargata alle serie minori. La UEFA apre un'inchiesta perché la misura sarebbe discriminatoria, ma anche in altri parti d'Europa, tipo in Romania, Bulgaria, Russia, Polonia e Svizzera, viene introdotta la "norma nazionalista". La Liga ci pensa.
Contemporaneamente una legge blocca la possibilità di scommettere su partite della Lega Pro. Circa il 20% delle squadre sceglie di iscriversi alle serie dilettantistiche dove si può ancora scommettere.
Fallisce il basket professionistico in Italia. Resta in piedi un campionato di semidilettanti chiamato #legauno. Sei squadre italiane vanno a giocare l’Adriatic League assieme a quelle dell’ex Jugoslavia.
Alle Olimpiadi di Rio non vinciamo neanche una medaglia nella scherma. La squadra viene attesa all'aeroporto da un centinaio di facinorosi e gli atleti sono costretti a difendersi con fioretti e sciabole. Un brutto momento per la scherma italiana.

Un’accoglienza inattesa.
Ma l’Italia non conquista una medaglia in nessuno degli altri sport di squadra e per ovviare al problema il CONI impone alle squadre di calcio di finanziare almeno anche un altro sport di squadra. Tuttavia al primo Juventus – Fiorentina di pallavolo vengono portate in ospedali dodici persone accoltellate durante gli scontri tra tifoserie. La politica risponde con l’inasprimento dei Daspo e dei divieti di trasferta.
Schwazer è l'unico oro italiano e, nonostante restino grossi dubbi su un'analisi invalidata da un errore tecnico, l’Italia si riscopre improvvisamente garantista e lo festeggia come un eroe. Aru riceve un'offerta stratosferica e prende la nazionalità kazaka.
A Roma le elezioni vengono vinte dal sindaco del M5S, che in campagna elettorale promette di indire un referendum immediato sulle Olimpiadi. Quando capisce, dai sondaggi, che il Sì andrebbe a vincere col 70% dei voti, rimanda il referendum al 2017.
Il nuovo responsabile web del colonnino di destra di Repubblica scopre che pubblicare video in bassa risoluzione con i matti, pazzeschi, incredibilissimi gol della Serie B cilena non rende più come prima in termini di contatti, e il calcio scompare dal sito.
Poco dopo, durante gli Internazionali di Tennis d’Italia, Maria Sharapova e Serena Williams si rifiutano, anche a nome di tante colleghe, di rispondere alle domande del corrispondente di Repubblica perché qualcuno ha mostrato le loro gallery con foto di tenniste “audaci”.

Un momento imbarazzante.
Il Corriere dello Sport lancia un sondaggio da cui si scopre che gli appassionati tengono più alla propria squadra di fantacalcio che alla squadra “del cuore” (sic). Ne viene fuori un dibattito tra autorevoli editorialisti in cui si propone di modificare il regolamento della Serie A per abbracciare il futuro. Tra le proposte: l’obbligo di retribuire i bonus e multare i malus in pagella dei calciatori; comunicare la formazione con ventiquattro ore di anticipo, dichiarare, da contratto, il ruolo del calciatore; rendere visibile ai giocatori anche durante la partita il voto che riceveranno per quella prestazione. La Lega ci pensa.
Vengono organizzati negli Emirati Arabi dei giochi-esibizione con ingenti montepremi duranti i quali sono legalizzate molte sostanze attualmente considerate dopanti, “a patto che non danneggino la salute”. A differenza di quanto atteso, nel sangue di diversi atleti vengono comunque sorprese nuove sostanze vietate.
C’è un sorpasso tra primo e secondo—e non sono due macchine della stessa scuderia—in una gara di Formula 1. Pubblico in delirio.

Pazzesco!
La UEFA impone ai calciatori di festeggiare anche quando segnano contro le proprie ex squadre. Chi non festeggia viene multato, e dall'Europeo è possibile di nuovo festeggiare togliendosi la maglia, mostrando una canottiera con sponsor.
All'inizio della stagione calcistica 2016-17 si decide che il calciomercato resterà aperto durante tutto l’autunno, anche se un giocatore non può cambiare più di 7 squadre in un anno. La scelta comporta un aumento dell’audience dei programmi di calcio infrasettimanali, scende invece l’audience delle partite. Non tutti concordano che le cose siano correlate.
Carlo Tavecchio viene ripreso in un video mentre colpisce il proprio cane con un calcio perché stava mangiando un piccione morto per strada. L’opinione pubblica lo costringe alle dimissioni, al suo posto viene eletto Eranio.
Potete leggere qui le altre quattro utopie.