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Andrea Cassini
Breve storia della conquista del K2
05 apr 2021
05 apr 2021
A gennaio, per la prima volta nella storia, la sua cima è stata raggiunta d'inverno.
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Andrea Cassini
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Mingma Gyalje Sherpa, Nirmal Purja, Mingma David Sherpa, Gelje Sherpa, Mingma Tenzi Sherpa, Dawa Temba Sherpa, Pem Chhiri Sherpa, Kilu Pemba Sherpa, Dawa Tenjing Sherpa, Sona Sherpa: sono i nomi dei dieci uomini nepalesi che lo scorso 16 gennaio, alle ore 16:58 del fuso orario del Pakistan, raggiungevano gli 8611 metri della vetta del K2, seconda montagna più alta del pianeta e considerata tra le più difficili da scalare. Il gruppo ha superato una temperatura di 40 gradi sottozero, venti spietati e una tempesta che li aveva costretti ad abbandonare parte dell'equipaggiamento e tornare temporaneamente al campo base prima del nuovo, vincente, tentativo di vetta. Un traguardo storico e una seria candidata a impresa sportiva dell'anno, perché fino a quel giorno il K2 era rimasto l'unico Ottomila la cui cima non era ancora stata raggiunta in inverno.


 

Verrebbe spontaneo chiamare “Sherpa” gli alpinisti responsabili dell'impresa, e del resto quasi tutti lo portano già nel nome, ma per certi versi non sarebbe corretto. Il termine, nel linguaggio comune, è passato a identificare quegli aiutanti, detti anche "portatori", che si trovano alle pendici delle montagne centro-asiatiche e che da oltre un secolo accompagnano gli esploratori occidentali, e più recentemente tutti coloro che si dedicano all'alpinismo con finalità turistiche, sostenendo grandi fatiche, correndo ingenti rischi e finendo spesso in secondo piano rispetto ai più blasonati nomi degli accompagnati. Ma in realtà, Sherpa è semplicemente il nome di una delle tante etnie nepalesi. L'unico membro della spedizione a raggiungere la vetta senza l'ausilio di ossigeno supplementare, Nirmal Purja, fa in realtà parte di un'altra etnia, i Magar.


 

Il fatto che il nome di un popolo abbia finito per coincidere con la funzione del portatore la dice lunga su cosa la pratica alpinistica abbia significato per i locali: non solo un'occasione di guadagno per le remote regioni montuose di Nepal e Pakistan che, negli anni, ha permesso a uomini come Purja e i suoi compagni di diventare autonomi professionisti della disciplina, ma anche una forma di sfruttamento e appropriazione. Nel mondo occidentale, però, queste dinamiche sono venute a galla solo sporadicamente e molto di recente - per esempio quando nel 2014 gli sherpa attivi intorno all'Everest decisero di scioperare per via di un incidente che costò la vita a sedici persone. È anche per questo, comunque, che l'impresa dello scorso gennaio rappresenta una sorta di riscatto, un meritato riconoscimento per chi è rimasto fuori dalle pagine della storia. Il modo in cui l'impresa è stata portata a termine, poi, è ancora più significativo, perché rigetta la competitività e l'arrivismo a cui, certe volte, l'immaginario comune associa l'alpinismo: giunti al campo base come membri di spedizioni differenti e sorpresi, come spesso accade, da condizioni meteorologiche avverse, i nepalesi hanno fatto fronte comune e hanno deciso di procedere uniti nell'ultima spinta, come una nuova squadra, mentre i loro precedenti compagni attendevano perché non ancora sufficientemente acclimatati.


 


Foto di Prabin Ranabhat/SOPA Images/LightRocket via Getty Images


 

La scalata dei nepalesi non è stata, infatti, un'iniziativa isolata. L'inverno del K2, appena conclusosi, era cominciato con un massiccio sforzo internazionale, quasi una corsa alla cima, il che spesso si traduce in una questione di vita o di morte quando si ha a che fare con i luoghi più inospitali del pianeta. Se su un piatto della bilancia troviamo la gloria di Nirmal Purja e dei suoi compagni, sull'altro ci sono altri cinque alpinisti che hanno perso la vita. Alcuni di loro, come John Snorri, Juan Pablo Mohr e Ali Sadpara, giacciono ancora tra le nevi e le rocce aguzze sottostanti il Collo di Bottiglia, il punto più pericoloso della scalata. Sajid, il figlio ventiduenne di Sadpara (una famiglia di portatori, il cui cognome coincide con il villaggio natale, ai piedi dello stesso K2), che li accompagnava, è sopravvissuto: è tornato al Campo 3, circa 7300 metri di altitudine, ostacolato da un malfunzionamento della bombola di ossigeno. Sulla via del ritorno vedeva le sagome del padre e dei compagni stagliarsi sulla neve tra il Collo di Bottiglia e il Traverso.


 

Sajid è convinto che abbiano raggiunto la cima, prima di precipitare, ma non può esserne certo: stordito dalla fatica e dai sintomi di AMS (cioè acute mountain sickness, cioè in sostanza un mal di montagna estremo), racconta, il cammino a ritroso fino al Campo 3 è stato un viaggio alla cieca, confuso tra realtà e visioni. In alta quota c'era anche l'italiana Tamara Lunger, che poco prima di desistere ha visto morire l'alpinista spagnolo Sergi Mingote a soli 40 metri da lei. Pochi giorni dopo hanno perso la vita anche Atanas Skatov e Juan Pablo Mohr, suoi nuovi compagni di scalata. Ritornata in Italia, Tamara ha scritto parole che danno la dimensione della tragedia e della sobrietà con cui vanno affrontate le grandi altezze: “La montagna non ci ha voluto. Sono andata con spirito positivo, pensando di poter fare tutto. Invece il K2, dopo la vittoria dei nepalesi, ha detto a me e a tutti gli altri che il nostro posto non era lì. È stata un'esperienza cominciata come un sogno e finita in un incubo”. E poi ha aggiunto, ricordando con commozione i compagni perduti: “Guarderò avanti, penserò che nulla nasce per caso e che la vita è una vetta da raggiungere”.


 

Se da un lato la rivincita dei nepalesi getta un raggio di luce sulla tremenda fama del K2, insomma, dall'altro non può cancellare i morti né la storia di una corsa maledetta, irta di odio e polemiche, a una cima che significa tutto per alcuni e nulla per altri.


 

Le nude ossa di un nome


Nel modo in cui trattiamo le grandi montagne rimane un certo retaggio colonialista. È evidente in primo luogo dal linguaggio, che si muove tra i campi semantici della sfida, della conquista, della competizione, dello sport in senso lato, quando l'oggetto del contendere è inanimato e indifferente: c'è una vena romantica che tende non a caso a “umanizzare” le montagne, come quando l'alpinista e guida Adrian Ballinger afferma “vado avanti finché la montagna non mi dice di fermarmi”, ma è chiaro che si tratti di strutture di significato esclusivamente umane. I nomi stessi dei rilievi ci dicono qualcosa su questo concetto. Se alcuni Ottomila mantengono i suggestivi nomi nel linguaggio locale (pensiamo al Nanga Parbat, all'Annapurna, al Cho Oyu), è significativo che il monte più alto del pianeta non sia conosciuto con il termine nepalese Sagarmāthā o il tibetano Qomolangma (attestato già nel Settecento), ma porti il cognome di Sir George Everest, cartografo e topografo britannico. Nella stessa toponomastica del K2 c'è un importante pezzo d'Europa, di Italia, nello specifico: la via più comune per la vetta comprende lo Sperone degli Abruzzi, così chiamato in onore del Duca Luigi Amedeo, tra i primi esploratori della zona a inizio Novecento. Nonostante ciò, il K2 ha avuto sempre qualcosa di diverso.


 

Intorno al 1850, oltre centocinquanta anni prima della storica scalata invernale dei nepalesi, il tenente colonnello Thomas Montgomerie, incaricato dei rilevamenti per la Great Trigonometrical Survey dei territori indiani, era salito sui 5000 metri del monte Harmukh, punto d'osservazione privilegiato per studiare e mappare la catena del Karakoram. Scorse due cime che spiccavano sulle altre, e le etichettò K1 e K2. Per completare la mappa indagò poi alla ricerca di nomi locali, e così il K1 divenne il Masherbrum. Battezzare il K2 però restava un problema, perché nei villaggi ai piedi del Karakoram nessuno sembrava conoscerlo o possedere un nome specifico per chiamarlo: talmente remoto e impervio, a centinaia di chilometri di distanza dalla civiltà, se non fosse stato per quella spedizione il K2 sarebbe forse rimasto ignoto.


 

Questo nome freddo, schematico, ha finito per adattarsi straordinariamente bene a questa montagna aliena. E se da un lato George Bell, membro della storica spedizione americana del 1953, lo definiva “una montagna selvaggia, che vuole ucciderti”, Fosco Maraini trovava forse le parole più appropriate per descriverne la natura: “Sono le nude ossa di un nome, tutto roccia e ghiaccio e tempesta e abisso. Non fa alcun tentativo di sembrare umano. Sono atomi e stelle. Ha la nudità del mondo prima del primo uomo, o delle ceneri del pianeta dopo l'ultimo”.


 

Finché non ci si va di persona, o non si studiano filmati che documentano i mesi di lavoro che precedono la spinta per la vetta, non ci si rende conto di quanto sia veramente remoto e inospitale il K2. Gli alpinisti raggiungono in aereo il villaggio pakistano di Skardu, e da lì viaggiano per sette o otto ore in fuoristrada, su strade da capre. Prima di arrivare ai 5150 metri del campo base, posto in un'area denominata Concordia alla confluenza dei ghiacciai Baltoro (uno dei più estesi del pianeta, Antartide escluso) e Godwin-Austen, serve un'altra settimana circa di trekking, dove non è raro incappare in incidenti o soffrire i primi effetti dell'altitudine. Nella stagione estiva il campo base è affollato da decine di tende, e ogni spedizione alpinistica è in genere accompagnata da uno stuolo di portatori locali, aiutati da asini e piccoli cavalli, un autentico villaggio ambulante che fa la spola fra Skardu e la base del K2 per pochi dollari. Come abbiamo detto, negli ultimi anni la coscienza dello sfruttamento delle realtà locali si è molto evoluta, producendo sempre più conseguenze. Nel 2020, ad esempio, il gruppo del già citato Ballinger e di Carla Perez fu rallentato da uno sciopero dei portatori, furibondi per aver ricevuto una misera mancia di due dollari dalla spedizione precedente. Il problema della bassa paga dei portatori è esacerbato ulteriormente dal fiorire delle spedizioni “commerciali”, dove le guide conducono in vetta anche persone con poca esperienza, come spiega tra gli altri anche il documentario K2 and the Invisible Footmen riguardo proprio la controversa questione degli sherpa.


 

Se a tutto questo aggiungiamo la scalata vera e propria, scopriamo che George Bell non si sbagliava a definirla “montagna selvaggia”. Ci sono più persone che sono andate nello spazio rispetto a quelle che sono salite sulla vetta del K2, meno di quattrocento. In più, il K2 è la seconda montagna più pericolosa in termini di tasso di fatalità: all'incirca, si conta un morto ogni quattro persone che hanno raggiunto la vetta. I rischi sono molteplici, anche nella stagione estiva. Il clima è instabile, con la vetta che si avvicina al limite della troposfera e, come una roccia che affiora tra le acque di un fiume, genera intorno a sé correnti e mulinelli. Serve una finestra di alcuni giorni di clima favorevole per suddividere la salita in tappe, pernottando su minuscole cenge rocciose così da dare tempo al corpo di acclimatarsi, e le tempeste possono arrivare in ogni istante. La neve è profonda, spesso cedevole, le rocce si sgretolano e le valanghe sono un fenomeno comune. Persino la via più percorsa presenta pendenze aspre e notevoli difficoltà tecniche, fino ad arrivare al famigerato Collo di Bottiglia, un corridoio stretto fra due seracchi (imponenti formazioni di ghiaccio) che ha mietuto molte vittime. Oltre a questo, ci sono i noti rischi dell'altitudine, sopportabili solo grazie a un fisico allenato e un equipaggiamento di prima classe: mal di montagna, edema polmonare o cerebrale da alta quota.


 


Foto di Galen Rowell/Corbis via Getty Images


 

Superati gli 8000 metri si apre la cosiddetta death zone, un'altitudine talmente povera di ossigeno da non consentire la sopravvivenza dell'uomo per un lungo periodo di tempo, il che richiede alla maggior parte degli alpinisti l'utilizzo di ossigeno supplementare. I moderni strumenti di ripresa hanno per lo meno dissipato l'aura di mistero intorno al K2 e agli altri Ottomila, con telecamere in grado di mostrarci in alta risoluzione la visuale in prima persona di chi scala il tetto del mondo. Possiamo partecipare all'estasi della sfida e della vittoria, ma allo spettatore comune, i volti ghiacciati e l'ansimare ritmato degli scalatori comunicano anche un'altra verità: quelle altezze non sono fatte per l'uomo.


 

La corsa maledetta


Eppure l'uomo ha tentato di scalare il K2 fin dal 1902, con una spedizione che legò da subito il nome della montagna alla sfera del maligno, perché guidata dall'occultista britannico Aleister Crowley in un susseguirsi di scene che non sfigurerebbero in un film di Werner Herzog. Prima di arrendersi dopo 68 giorni in quota, di cui solo otto con clima sereno, si racconta che Crowley, che durante il viaggio aveva contratto la malaria e si era portato dietro una personale e pesantissima collezione di libri, passò accanto ai corpi senza vita di tre portatori senza battere ciglio, sentenziando di “non provare alcuna pietà per incidenti di quel genere” – tre anni dopo, durante un fallimentare e sanguinoso tentativo sul Kangchenjunga, Crowley avrebbe invece spinto per proseguire affermando che “il demone della montagna è stato propiziato con il sacrificio”.


 

Nel 1909 il già citato Duca Amedeo aprì la pista che ancora oggi porta il suo nome, preparando il terreno per gli americani che, nel 1938 con Charles Houston e nel 1939 con Fritz Wiessner, giunsero a pochi passi dalla vetta. Il successivo tentativo, condotto ancora da Houston nel 1953 e a cui prese parte anche un giovane George Bell, ha un posto speciale nella storia perché, insieme alla brutalità della montagna, mostra il senso di eroismo e di fratellanza che gli uomini sanno sviluppare a quelle altitudini inumane. Il disperato e vano tentativo di salvare Art Gilkey, vittima di un edema polmonare, rese infatti la discesa ancora più ardua della salita, e ulteriormente prezioso il destino dei sopravvissuti.


 

Ma l'anno seguente, il 1954, la cima del K2 riprende a incarnare i due estremi di tragedia e gloria, di grandezza e miseria. Il 3 agosto, giorno in cui la notizia giunge in patria, i giornali parlano di “montagna italiana” perché Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, membri della spedizione guidata dal geologo Ardito Desio, conquistano per la prima volta la vetta. Ma nei giorni successivi emergono dettagli di cui si discuterà per decenni. È il triste Caso K2, fitto di polemiche giunte anche in sedi giudiziarie, fino alla versione ufficiale del CAI emessa nel 2008 che avvalora quanto sostenuto da Walter Bonatti, all'epoca ventiquattrenne membro della spedizione. Incaricato di portare le bombole d'ossigeno in quota insieme al pakistano Amir Mahdi, Bonatti dichiarò che quest'ultimo venne abbandonato dalla spedizione in condizioni climatiche estreme, che gli costarono l'amputazione di tutte le dita dei piedi.


 

Raggiunto l'obiettivo, la corsa rallentò. Il giapponese Ichiro Yoshizawa attese 23 anni per tornare in vetta, aiutato da 1.500 portatori, mentre nel 1978 gli americani guidati da James Whittaker riuscirono a completare l'impresa che quarant'anni prima i loro connazionali avevano lasciato in sospeso. Con il miglioramento dell'equipaggiamento tecnico e il crescere dell'attenzione intorno al K2 si susseguirono nuove ascese. Wanda Rutkiewicz, polacca, fu la prima donna a scalare la vetta, nel 1986. Sei anni dopo morì sul Kangchenjunga, ed è impossibile sapere se ne avesse o meno raggiunto la cima. Sempre nel 1992 altri due polacchi, (Jerzy Kukuczka e Tadeusz Piotrowski, che morì nella discesa) aprirono due nuove vie, difficilissime e mai più ripetute. Ancora un polacco, Andrzej Bargiel, fu il primo uomo a scendere dalla vetta con gli sci, nel 2018.


 

Ma i record andarono di pari passo con le morti e le tragedie. L'annus horribilis fu il 2008 con una valanga che, il 1 agosto, travolse e uccise undici alpinisti membri di una spedizione internazionale (per i due anni successivi, nessuno raggiunse la vetta), ma anche il 1986 e il 1995 registrarono disastri che contarono rispettivamente cinque e sei vittime.


 

I tentativi di ascesa invernale sono un fatto più recente e dalle tinte ancora più sinistre. Prima della massiccia iniziativa di quest'anno, solo quattro gruppi avevano tentato l'impresa a partire dal 1988, con i polacchi guidati dallo specialista Krzysztof Wielicki a fare da apripista. Alcuni scalatori, come Denis Urubko, giunsero sopra i 7000 metri di altitudine, ma le spedizioni furono segnate da incidenti talvolta letali e condizioni meteo inclementi.


 

Fino all'inverno 2020/2021: di nuovo la gloria dell'impresa, di nuovo la tragedia delle morti e la miseria delle polemiche, triste ricordo della spedizione italiana del 1954. Nel mondo dell'alpinismo si discute, tra le varie pietre dello scandalo, dei sospetti del pakistano Nazir Sabir, secondo cui i nepalesi, durante la discesa, avrebbero tolto le corde fisse che avevano sistemato in precedenza. C'è anche chi rinfaccia ai nepalesi di essersi mossi in segreto, per battere sul tempo gli altri scalatori, e chi accusa la Seven Summit Treks, la compagnia che ha gestito il grosso della spedizione, di aver portato troppe persone al campo base, alcune non abbastanza esperte, per fini economici. L'inverno del K2 resta fitto di misteri, e probabilmente lo resterà a lungo, ma le voci dei protagonisti aiutano quantomeno a dissipare i dubbi. Come Tamara Lunger, che dice: “Non riesco a immaginare che i nepalesi possano aver rimosso le corde fisse. Più volte sullo Sperone Abruzzi ho visto i chiodi a cui erano ancorate uscire dalle fessure. Era come se il K2 non ci volesse”. O il nordirlandese Noel Hanna, che in una lunga intervista ha sdrammatizzato la situazione al Campo 3 durante il secondo tentativo di vetta, a inizio febbraio, da alcuni descritta come caotica: “Nessuno è stato lasciato fuori, tutti sono entrati in una tenda”.


 

Che senso ha, l'alpinismo?


Se quest'ultima è una polemica “tecnica”, tutta interna agli appassionati di alpinismo, ci sono altri temi di discussione controversi che sconfinano nell'immaginario popolare, da sempre attratto dall'alpinismo per la sua simbolicità, i suoi ideali di eroismo, il pensiero di uomini e donne che oltrepassano i confini del cielo e tornano indietro per raccontarci quanto è meraviglioso e puro il mondo visto da lassù. “Le grandi montagne hanno il valore degli uomini che le salgono, altrimenti non sarebbero altro che un cumulo di sassi”, diceva ad esempio Walter Bonatti. È legittimo però chiedersi se la riflessione mantenga il suo senso anche quando emergono gli aspetti più grigi e crudi della disciplina: le polemiche e le rivendicazioni, il semplice fatto di scalare una montagna sapendo che c'è il 26% di probabilità di non tornare più a casa, i corpi dispersi tra la neve, a volte irrintracciabili, a volte appesi su un precipizio e usati come punti di riferimento dagli altri alpinisti. La salma del celebre Scott Fischer e di Tsewang Paljor, morti sull'Everest nel 1996 in una tremenda tempesta di neve, restarono visibili per molti anni nei pressi della cima, e in un video del 2019 un utente di YouTube è intervenuto nei commenti riconoscendo il corpo di suo padre, Don Cash. Verrebbe in mente un altro adagio, quello di Sant'Agostino, secondo cui “gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, ed i grandi flutti del mare, ed il lungo corso dei fiumi, e l'immensità dell'Oceano, ed il volgere degli astri, e si dimenticano di sé medesimi”.


 


Foto di Galen Rowell/Corbis via Getty Images


 

In queste parole si può vedere il vuoto egoismo, la vena colonialista che da sempre attraversa le scalate delle grandi montagne, o l'elemento commerciale che si è introdotto nella pratica recentemente, sotto forma di ricche ed esigenti sponsorizzazioni che stimolano una pericolosa competitività. Ma è altrettanto vero che l'alpinismo sta maturando grazie alla crescente attenzione per la situazione degli sherpa e ci sono anche casi di autentici legami che gli alpinisti occidentali stringono con i luoghi e le popolazioni asiatiche. Viene in mente la scuola aperta in Nepal da Silvio Mondinelli per i bambini di Namche Bazar, o le iniziative di solidarietà e promozione culturale di Daniele Nardi, dopo la cui recente morte sul Nanga Parbat si è indirizzato un fiume di affetto da tutta Italia. “Quando sono sopra gli 8000 metri,” disse una volta Ali Sadpara, “per trovare la motivazione ad andare avanti penso ai bambini del mio villaggio, che un giorno grazie ai miei sforzi potranno avere l'opportunità di ricevere un'istruzione migliore; è il mio sogno e so che un giorno si avvererà”. Oggi l'intero Pakistan piange la scomparsa di Sadpara, autentico eroe nazionale. Gli alpinisti sono “uomini di montagna” non più legati soltanto alle comunità natie ma punti di riferimento per le montagne di tutto il mondo, portatori di un messaggio ecumenico, dopo averne scoperto il senso in cima a quelle montagne di cui fino a qualche tempo fa non conoscevamo nemmeno l'esistenza.


 

Che senso ha quindi, tutto questo? Se lo chiede con parole dense di significato Pietro Lacasella, su Alto-Rilievo / Voci di Montagna. “L'alpinismo è socialmente accettato solo quando fila tutto liscio. Altrimenti è un feticcio di pochi squilibrati. Che senso ha, quindi? Impossibile rispondere, perché l'alpinismo non è solo azione, ma è anche e soprattutto emozione, e come tutte le emozioni è difficile da trattare con razionalità. Certo è che fino a quando le montagne continueranno ad emozionare, a stimolare i sentimenti, i tarli non riusciranno mai ad erodere del tutto l'alpinismo”. Secondo alcuni, uno di quei “pochi squilibrati” potrebbe ad esempio essere Alex Honnold, lo specialista di free climbing che nel 2016 stupì e terrorizzò il mondo scalando senza assicurazioni la parete di El Capitan: in Free Solo, il bellissimo documentario che ne racconta le gesta, lo vediamo sottoporsi a test clinici per capire se nel suo cervello ci sia qualcosa che non vada, qualcosa che lo rende immune alla paura.


 

C'è un'altra domanda a cui invece è più difficile rispondere, ma che vale comunque la pena porsi: cos'è davvero l'alpinismo, uno sport o qualcos'altro? La risposta è sfuggente anche perché soggettiva e mutevole nel tempo: se una volta Dino Buzzati poteva affermare che “se si vuol chiamarlo sport, l'alpinismo è certo il più nobile di tutti; non ci sono premi né compensi in denaro; non c'è la folla che applaude”, questo non è più altrettanto vero al giorno d'oggi. Esiste un certo fascino nel modo in cui la contemplazione, l'umiltà di farsi parte dell'ambiente, si sovrappone alla ricerca della competizione sportiva, alla brama topografica dell'esploratore. Ed è un'ambiguità le cui radici stanno molto più in basso degli Ottomila, fra tutti i più modesti frequentatori delle montagne che si dividono fra attitudini agonistiche, verticali, e la disposizione al cammino “orizzontale”, ad assecondare il paesaggio, a trattare la montagna senza oggettivarla né umanizzarla: la semplice escursione su un rilievo appenninico può rivelarsi un'esperienza estremamente diversa a seconda dell'approccio che si predilige. Del resto lo storico alpinista Riccardo Cassin diceva: “gli escursionisti spesso sono più alpinisti di tanti che arrampicano”.


 

Ma si tratta, in ultima analisi, di passione e rispetto, di umanità nel senso più ampio e naturale del termine. Il rispetto, ad esempio, che gli alpinisti pagano al Kangchenjunga, montagna sacra per i buddisti della regione indiana del Sikkim, fermandosi a pochi passi dalla vera vetta. L'umanità e la passione tragica mostrata dagli americani della spedizione del 1953, nella disperata discesa per salvare il compagno Art Gilkey, o quella dei nepalesi che hanno unito le forze per ascendere per la prima volta sul K2 in inverno, scacciando dalla montagna le rivendicazioni e le polemiche con la schiettezza orgogliosa delle parole di Nirmal Purja: “Ci sono molti casi in cui gli alpinisti hanno rivendicato vette senza ossigeno, ma seguendo la nostra traccia e utilizzando le corde che avevamo fissato. Alcuni dei quali sono nomi molto conosciuti nella comunità alpinistica. Cosa è classificato come scalata by fair means [con mezzi leali, ndr]? Personalmente, non è mai stato un grosso problema per me e ancora non lo è. È una scelta personale. La natura e la montagna sono per tutti. Fai la tua scelta”.


 

Si ringraziano Pietro Lacasella e Alto-rilievo / voci di montagna per la consulenza.


 

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